ha pronunciato la seguente
                                SENTENZA
 nel  giudizio  di  legittimita'  costituzionale dell'art. 47, secondo
 comma, della legge 14 aprile 1975, n. 103 (Nuove norme in materia  di
 diffusione  radiofonica  e televisiva), promosso con ordinanza emessa
 il 3 dicembre 1980 dal Tribunale  di  Roma  nel  procedimento  civile
 vertente  tra Rippa Guido e l'I.R.I. ed altra, iscritta al n. 219 del
 registro ordinanze 1981 e pubblicata nella Gazzetta  Ufficiale  della
 Repubblica n. 172 dell'anno 1981;
    Visti gli atti di costituzione di Rippa Guido, dell'I.R.I. e della
 R.A.I., nonche' l'atto di intervento del Presidente del Consiglio dei
 ministri;
    Udito  nell'udienza  pubblica  del  23  febbraio  1988  il Giudice
 relatore Giovanni Conso;
    Uditi  gli avvocati Franco Pomponi per Rippa Guido, Paolo Barile e
 Michele Savarese per  l'I.R.I.  e  Carmine  Punzi  per  la  R.A.I.  e
 l'Avvocato  dello  Stato  Benedetto  Baccari  per  il  Presidente del
 Consiglio dei ministri.
                           Ritenuto in fatto:
    1.  -  Con  ordinanza  emessa  il  3  dicembre  1981 nel corso del
 procedimento civile tra Rippa Guido, l'Istituto per la  Ricostruzione
 Industriale  (I.R.I.) e la Radiotelevisione Italiana s.p.a. (R.A.I.),
 il Tribunale di Roma ha sollevato - in riferimento agli artt. 3 e 42,
 terzo comma, della Costituzione - questione di legittimita' dell'art.
 47, secondo comma, della legge 17 aprile 1975, n. 103. Tale  articolo
 dispone, al primo comma, che "Le azioni della societa' concessionaria
 dei pubblici servizi  di  radiodiffusione  circolare  appartenenti  a
 soggetti  privati...  sono  trasferite di diritto all'Istituto per la
 ricostruzione industriale con effetto dal 1›  dicembre  1974"  e,  al
 secondo comma, che "Il relativo indennizzo e' corrisposto agli aventi
 diritto secondo il valore risultante dall'ultimo  bilancio  approvato
 alla data di pubblicazione della presente legge".
    Ad avviso del Tribunale, la questione sarebbe rilevante, in quanto
 il processo a quo  verte  appunto  sulla  congruita'  e  legittimita'
 dell'indennizzo offerto all'attore.
    Essa sarebbe, altresi', non manifestamente infondata.
    Si  osserva,  infatti,  che  il  principio fissato dall'art. 2423,
 secondo comma, del codice civile, in base al quale  tutti  i  bilanci
 devono  essere  veritieri  -  ossia,  devono indicare con chiarezza e
 precisione la situazione patrimoniale  della  societa'  e  gli  utili
 conseguiti  o  le  perdite sofferte - non avrebbe un valore assoluto,
 valido per tutti i tipi di bilancio (di esercizio,  di  liquidazione,
 di  fusione, ecc.), ma assumerebbe un contenuto particolare a seconda
 del tipo di bilancio di cui si tratti.
    La   funzione,   che   il   bilancio   di   esercizio   (al  quale
 presumibilmente il legislatore  ha  inteso  riferirsi  con  la  norma
 denunciata)  e'  destinato  ad  assolvere, consiste nell'accertamento
 dell'entita' degli  utili  da  distribuire  ai  soci,  senza,  pero',
 intaccare   la   garanzia  per  i  creditori  sociali  (rappresentata
 dall'esistenza, nel patrimonio sociale, di  attivita'  corrispondenti
 almeno  all'ammontare  del  capitale e delle riserve indisponibili) e
 compromettere la redditivita' dell'azienda.
    Cio' sarebbe dimostrato, secondo il giudice a quo, dalla normativa
 che impone limiti massimi di valutazione, non superabili  se  non  in
 casi  eccezionali,  per  le  immobilizzazioni  e per i beni materiali
 (prezzo di costo: art.  2425,  nn.1  e  3,  del  codice  civile),  e,
 analogamente,  per  le  materie  prime  o  le  merci;  nonche'  dalla
 circostanza che nel bilancio di  esercizio  non  trovano  espressione
 componenti   patrimoniali   pur  aventi  nell'organizzazione  interna
 dell'azienda rilievo decisivo per la produzione dell'utile e  per  il
 conseguimento   dell'oggetto   sociale   (ad   esempio,   concessioni
 amministrative, segreti industriali, brevetti ottenuti senza  esborso
 di  somme),  ne'  un'entita'  come l'avviamento, quando non sia stata
 pagata una somma a tale titolo nell'acquisto dell'azienda ( art. 2427
 del codice civile).
    Sarebbe,   quindi,   legittimo   concludere   che   la  situazione
 patrimoniale risultante dal bilancio di esercizio non coincide con il
 concetto  di  patrimonio  in  senso giuridico e nemmeno con quello di
 patrimonio in senso economico, donde la conseguenza che  il  criterio
 di  indennizzo  stabilito  dalla disposizione denunciata, assumendo a
 presupposto valutazioni non idonee ad  esprimere  l'effettivo  valore
 del  bene  espropriato, si porrebbe in contrasto con gli articoli 3 e
 42, terzo comma, della Costituzione.
    Quanto  all'art.  3,  ci  si  richiama al consolidato orientamento
 della giurisprudenza  costituzionale,  secondo  cui  la  disposizione
 enuncia  un canone generale di ragionevolezza, alla stregua del quale
 le leggi possono essere valutate sotto  il  profilo  dell'adeguatezza
 dei  motivi  che  hanno  condotto  all'adozione  di  una  determinata
 disciplina.   Tale    canone    nella    specie    sarebbe    violato
 dall'equiparazione,  ai fini dell'indennizzo, di situazioni di natura
 economica notevolmente diverse.
    Si  aggiunge,  in  proposito,  come il contrasto con l'art.3 della
 Costituzione non potrebbe essere escluso dalla considerazione che  la
 norma   impugnata   adotta  un  criterio  analogo  a  quello  fissato
 dall'art.2437 del codice civile per  la  determinazione  della  quota
 spettante al socio recedente. Della norma, che tende a penalizzare il
 socio recedente con un trattamento di indubbio sfavore, sarebbe stata
 progettata la sostituzione con altra che faccia riferimento al valore
 netto effettivo del patrimonio.
    Ancor  piu'  consistente  sarebbe  il  sospetto circa il contrasto
 della norma denunciata con l'art.42, terzo comma, della Costituzione,
 specie   tenendo   presente   l'orientamento   della   giurisprudenza
 costituzionale, costante nell'affermare,  a  partire  dalla  sentenza
 n.61  del  1957  e  fino  alla  sentenza  n.5  del 1980, che, sebbene
 l'indennizzo per l'esproprio non debba necessariamente costituire una
 integrale  riparazione  per la perdita subita, la misura di esso deve
 essere  riferita  al  valore   del   bene   determinato   dalle   sue
 caratteristiche   essenziali  e  dalla  sua  destinazione  economica,
 poiche' solo in tal  modo  l'indennita'  puo'  costituire  un  "serio
 ristoro" per l'espropriato.
    In  senso  contrario  non  varrebbe,  osserva il giudice a quo, il
 richiamo alla sentenza n.115  del  1969,  con  la  quale  sono  state
 giudicate  non  fondate  le  questioni  proposte  nei confronti della
 disciplina per l'indennizzo previsto per le imprese  assoggettate  al
 trasferimento  all'E.N.E.L.  Tale  decisione della Corte fu, infatti,
 giustificata con l'affermazione che trattavasi di  bilanci  compilati
 in  base  a norme particolari, quelle di cui alla legge 4 marzo 1958,
 n.191,  le  quali  consentivano  alle   imprese   di   contabilizzare
 plusvalenze  anche  oltre  i  limiti  delle  plusvalenze ammesse agli
 effetti fiscali e, quindi,  di  esprimere  in  bilancio  valori  piu'
 aderenti  alla  reale  consistenza  del  patrimonio sociale di quelli
 risultanti  da  un  normale  bilancio  di  esercizio,  che,   invece,
 costituisce l'unico punto di riferimento della norma denunciata.
    L'ordinanza,   ritualmente   notificata   e   comunicata,   veniva
 pubblicata nella Gazzetta Ufficiale n. 172 del 24 giugno 1981.
    2.  - Rippa Guido si e' costituito nel giudizio dinanzi alla Corte
 a  mezzo  del  suo  difensore,  avv.  Rocco  Pomponi,  con   comparsa
 depositata il 10 giugno 1981.
    Fatte   proprie   le   argomentazioni  esposte  nell'ordinanza  di
 rimessione, il Rippa si limita  a  sottolineare  come  uno  specifico
 motivo  di  illegittimita'  sarebbe  da  individuare nel fatto che la
 norma impugnata ha assunto  a  momento  di  riferimento  il  bilancio
 approvato,  in  tal  modo  retrodatando  la valutazione all'esercizio
 1973, ossia a ben due anni prima dell'emanazione della legge.
    3.  -  L'I.R.I. e la R.A.I., convenuti nel giudizio a quo, si sono
 costituiti dinanzi alla Corte con memorie depositate  rispettivamente
 il 3 marzo 1981 e il 6 aprile 1981.
    Gli  avv.  Paolo  Barile,  Giuseppe  Ferri e Michele Savarese, per
 l'I.R.I., osservano che l'ordinanza, benche' finemente motivata,  non
 appare convincente. Il bilancio di esercizio, invero, non puo' essere
 visto in  modo  statico,  poiche'  la  sua  funzione  e'  quella  "di
 fotografare  un  momento  della  vita della societa', che rappresenta
 un'impresa  in  movimento".  La  presenza  di   limiti   massimi   di
 valutazione  non  superabili  ed  il  divieto di inserire in bilancio
 alcune  componenti  patrimoniali  come  l'avviamento  non  potrebbero
 portare   ad  affermare  che  il  bilancio  di  esercizio  assuma  un
 significato convenzionale, non identificabile con  il  patrimonio  in
 senso  economico.  Il giudice a quo cadrebbe in equivoco, trascurando
 che  il  bilancio  di  esercizio  attiene  alla  valutazione  di   un
 patrimonio  destinato  ad  essere  il fulcro di una azienda viva, che
 dovra' affrontare le vicende connesse alla sua presenza sul  mercato.
 Se  considerato in tale prospettiva, cioe' in relazione alla dinamica
 della vita imprenditoriale,  il  bilancio  di  esercizio  rappresenta
 effettivamente il valore del patrimonio della societa'.
    Si  sottolinea,  inoltre,  che  il  principio  del  riferimento al
 bilancio di esercizio e' quello adottato dall'art.  2437  del  codice
 civile per il caso del recesso del socio e che la Corte di cassazione
 (sentenza 10 settembre 1974,  n.  2454)  ha  ritenuto  manifestamente
 infondata  l'eccezione  di legittimita' costituzionale, sollevata per
 motivi  analoghi,  nei  confronti  dell'anzidetta  disposizione.   La
 validita'  della  norma  sarebbe  stata  confermata anche dalla Corte
 costituzionale  nella  sentenza  n.115  del  1969   in   materia   di
 nazionalizzazione delle imprese esercenti industrie elettriche.
    Si  conclude  osservando  che  un  criterio ritenuto non lesivo di
 princi'pi costituzionali nei rapporti tra  privati  ben  puo'  essere
 utilizzato per stabilire la misura dell'indennita' di espropriazione,
 che, pur dovendo rappresentare un serio ristoro, non e'  destinata  a
 compensare interamente la perdita subita.
    L'avv.  Rosario Nicolo', per la R.A.I., in via preliminare solleva
 il dubbio che la questione sia  rilevante,  osservando  che,  secondo
 l'atto di citazione, la domanda principale aveva ad oggetto una serie
 di pretese ragioni di invalidita' del bilancio relativo all'esercizio
 chiuso  il 31 dicembre 1973. Se il giudice a quo si fosse dato carico
 di tali questioni e, in  ipotesi,  fosse  stata  accolta  la  domanda
 principale,  con  conseguente  annullamento  del documento in base al
 quale e' stato liquidato l'indennizzo, sarebbe venuta meno l'utilita'
 pratica e, quindi, la rilevanza della proposta questione.
    Nel  merito, si contesta che la situazione patrimoniale risultante
 dal  bilancio  di  esercizio  non  rappresenti  la  vera  consistenza
 economica  della societa'. Si ribadisce la differenza del bilancio di
 esercizio rispetto ai bilanci di liquidazione e  di  fusione:  questi
 riguardano  ipotesi  di  cessazione  dell'attivita',  mentre il primo
 presuppone che l'attivita' sociale sia in corso e che neppure per  un
 momento essa si arresti.
    Si ribadisce che tutto il sistema accolto dal codice civile per la
 valutazione del valore delle azioni corrisponde  a  quello  stabilito
 dalla legge impugnata.
    Si   conclude,  quindi,  per  l'inammissibilita'  della  questione
 proposta e, quanto al merito, per l'infondatezza della medesima.
    4.  -  Il Presidente del Consiglio dei ministri e' intervenuto nel
 giudizio  tramite  l'Avvocatura  generale  dello   Stato   con   atto
 depositato il 24 marzo 1981.
    Anche l'Avvocatura pone in evidenza la diversita' esistente tra la
 societa'  considerata  nel  momento  di   cessazione   dell'attivita'
 (bilancio  di  liquidazione)  dalla  societa'  riguardata  nella fase
 dinamica  del  perseguimento  degli  scopi   sociali   (bilancio   di
 esercizio).  "Questa  differenza  da' ragione del diverso trattamento
 che il codice civile riserva ai soci durante la vita della societa' e
 al   momento   della   sua  estinzione":  il  diritto  "a  una  quota
 proporzionale  del  patrimonio,   che   venga   a   risultare   dalla
 liquidazione"  spetta  "solo  in  caso  di liquidazione (e al momento
 della liquidazione)", mentre al socio recedente o escluso  le  azioni
 non  quotate  in  borsa sono rimborsate in proporzione del patrimonio
 sociale risultante dal bilancio dell'ultimo esercizio  (art.  2437  e
 2529 cod. civ.).
    Dovrebbe,  quindi,  escludersi  ogni  contrasto  con  i  princi'pi
 costituzionali,   anche   in    considerazione    del    fatto    che
 l'espropriazione  ha  colpito  non gia' l'impresa nel suo complesso e
 per cio' che ne rappresenta il risultato patrimoniale finale,  bensi'
 talune   singole  participazioni  azionarie  per  quella  che  ne  e'
 l'utilizzazione  economica  durante  la  vita  e  l'attivita'   della
 societa'.
    La stessa Corte costituzionale - si aggiunge - ha precisato, nella
 sentenza n.5 del 1980,  che  per  la  determinazione  dell'indennizzo
 occorre   risalire   "al  valore  del  bene  in  relazione  alle  sue
 caratteristiche   essenziali,   fatte   palesi    dalla    potenziale
 utilizzazione di esso secondo la legge".
    Con  memorie  ritualmente  depositate Rippa Guido e l'I.R.I. hanno
 ulteriormente illustrato le rispettive  tesi,  l'I.R.I.  associandosi
 all'eccezione  sulla  rilevanza  avanzata  dalla R.A.I. Alla pubblica
 udienza  anche  l'Avvocatura  dello  Stato  ha  fatto  propria   tale
 eccezione.
                        Considerato in diritto:
    1. - Chiamato a pronunciarsi sulla domanda proposta da un privato,
 gia' azionista della R.A.I., per far dichiarare  "non  corrispondente
 all'effettivo   valore   delle   azioni"   espropriate   l'indennizzo
 liquidatogli dall'I.R.I. e far condannare, di conseguenza, l'I.R.I. e
 la  R.A.I.  a  versargli  il "maggior valore" delle azioni stesse, il
 Tribunale di Roma sottopone al vaglio  di  questa  Corte  l'art.  47,
 secondo comma, della legge 17 aprile 1975, n.103. Pur coinvolgendo in
 realta' il contenuto dell'intero comma,la questione viene esplicitata
 con   specifico   riguardo   alla   "parte"  di  esso  che  commisura
 l'indennizzo  per  il  trasferimento  di  diritto  all'I.R.I.   delle
 "azioni   della  societa'  concessionaria  dei  pubblici  servizi  di
 radiodiffusione circolare, appartenenti a soggetti privati non aventi
 titolo ai sensi dell'art.3" della stessa legge, al "valore risultante
 dall'ultimo bilancio  approvato  alla  data  di  pubblicazione  della
 legge",  cioe' alla data del 17 febbraio 1975: bilancio da ravvisare,
 nonostante l'indeterminatezza della formula "bilancio approvato", nel
 bilancio  di esercizio e, quindi, nel bilancio relativo all'esercizio
 chiuso il 31 dicembre 1973.
    La  norma  censurata  violerebbe  gli  artt. 3, primo comma, e 42,
 terzo  comma,  della   Costituzione,   perche',   con   il   rinviare
 esclusivamente   alle   valutazioni   del   bilancio   di  esercizio,
 risulterebbe "priva di  ragionevole  giustificazione"  e  condurrebbe
 alla   determinazione  di  un  compenso  "meramente  simbolico",  ben
 lontano,  quindi,  dal   rappresentare   un   "serio"   ristoro   per
 l'espropriato.  Infatti,  le  valutazioni del bilancio di esercizio -
 dovendo,  per  un  verso,  prescindere  da  non   poche   "componenti
 patrimoniali"  e,  per  altro verso, non superare "limiti massimi" di
 computo - sarebbero "finalizzate  non  gia'  alla  rilevazione  della
 'reale'  consistenza  del patrimonio sociale, ma al ben diverso scopo
 di evitare la distribuzione di utili che potrebbero compromettere  la
 redditivita'  dell'impresa  e  l'integrita'  del capitale sociale" e,
 quindi, non sarebbero "idonee ad  esprimere  l'effettivo  valore  del
 bene espropriato".
    2.  -  Per  poter  affrontare  il merito della questione proposta,
 occorre superare l'eccezione  formalmente  addotta,  in  ordine  alla
 rilevanza,  dalla difesa della R.A.I. nella memoria di costituzione e
 successivamente fatta propria  sia  dalla  difesa  dell'I.R.I.  nella
 memoria per l'udienza sia dall'Avvocatura dello Stato nel corso della
 discussione orale.
    L'eccezione  muove  dalla  premessa  che  l'attore,  come "domanda
 principale",  avrebbe  "dedotto  una  serie  di  pretese  ragioni  di
 nullita'   o   di  annullabilita'  del  bilancio  di  esercizio,  per
 violazione dei criteri dettati dalla legge o per varie ed  inespresse
 irregolarita'  nella  indicazione  di alcune poste di bilancio". Tale
 questione   sarebbe   "logicamente   preliminare"   alla    questione
 concernente  la  legittimita'  costituzionale  dell'art.  47, secondo
 comma, della legge 17 aprile 1975, n. 103,  nel  senso  che,  se  "la
 domanda  principale  di  nullita'"  del  bilancio, sulla cui base era
 stato corrisposto  l'indennizzo  in  contestazione,  fosse  risultata
 meritevole di accoglimento, "sarebbero venute automaticamente meno la
 rilevanza  e  la  stessa  utilita'   pratica   della   questione   di
 incostituzionalita'".  Non  avendo  il Tribunale "esaminato per nulla
 questa  domanda  principale  dell'attore  ne'  qualificato   l'azione
 proposta  o  la  natura  dei pretesi vizi del bilancio o deciso circa
 l'ammissibilita' della stessa azione", il  giudizio  sulla  rilevanza
 della  dedotta questione di legittimita', traducendosi nella semplice
 asserzione che i relativi dubbi "investono i criteri che  sono  stati
 seguiti  per la determinazione dell'indennizzo della cui congruita' e
 legittimita' si controverte nel presente giudizio", si  presenterebbe
 "incompleto  ed immotivato". O, meglio, "immotivato", cioe' inficiato
 da mancanza di motivazione, e, subordinatamente, "incompleto",  cioe'
 inficiato da insufficienza di motivazione.
    3.  - In effetti, "circa la rilevanza", il giudice a quo si limita
 ad osservare che i dubbi di legittimita' costituzionale "investono  i
 criteri  che sono stati seguiti per la determinazione dell'indennizzo
 della cui congruita'  e  legittimita'  si  controverte  nel  presente
 giudizio". Poiche', pero', alla stregua della costante giurisprudenza
 di questa Corte, tanto basta a smentire l'assunto di una  motivazione
 mancante,  l'esame  dell'eccezione  di  inammissibilita'  si  viene a
 concentrare sull'altro addebito mosso  all'ordinanza  di  rimessione:
 quello  secondo  cui  la  motivazione  in  ordine  alla rilevanza non
 sarebbe comunque sufficiente o, per essere piu' precisi, non  sarebbe
 sufficiente   a   dimostrare   l'"attuale"  incidenza  della  dedotta
 questione  di  legittimita'   costituzionale   sugli   sviluppi   del
 procedimento a quo.
    Cio'  premesso,  non  si  puo'  non  rimarcare  come sia la stessa
 ordinanza di rimessione a dare atto che due sono gli aspetti  oggetto
 di   controversia   in  tale  procedimento:  "la  congruita'"  e  "la
 legittimita'"  dell'avvenuta  determinazione   dell'indennizzo.   Due
 aspetti,  dunque:  l'uno  relativo all'astratta idoneita' dei criteri
 formali indicati dall'art. 47, secondo comma, della  legge  17  marzo
 1975,  n.  103,  a consentire la determinazione di un "serio ristoro"
 per l'espropriato; l'altro relativo all'esatta applicazione  concreta
 di  questi criteri, indipendentemente dalla loro potenziale idoneita'
 a tradursi in un compenso  adeguato.  Orbene,  l'eccezione  difensiva
 muove  all'ordinanza  di  rimessione l'addebito di essersi soffermata
 unicamente sul primo aspetto, nonostante la priorita' che "la domanda
 di  nullita'"  del  bilancio di esercizio formulata in via principale
 dall'attore avrebbe su ogni altra questione.
    4.  -  Dagli  atti  del  procedimento  ordinario  - cui la formale
 prospettazione di un'eccezione come quella di specie  inevitabilmente
 rimanda  per  poterne  verificare  la serieta' - emerge con chiarezza
 che, nel momento decisivo del deposito della comparsa  conclusionale,
 la  difesa  dell'attore  ha  parlato  insistentemente  di  "azione di
 nullita'" e di "formulazione non corretta del bilancio",  denunciando
 dettagliatamente omissioni ed errori a danno dell'espropriato. Questa
 Corte non puo', pertanto, esimersi dal constatare  che,  nella  parte
 dedicata alla rilevanza, il giudice a quo ha completamente trascurato
 un punto fondamentale ai fini non soltanto dell'eccezione  difensiva,
 ma  anche  dell'impostazione  data  dall'ordinanza  di  rimessione al
 giudizio sulla rilevanza.
    Una  volta  messo  in  risalto  che  oggetto  di  controversia nel
 procedimento  ordinario  sono  tanto  "la  congruita'"   quanto   "la
 legittimita'"  della  determinazione  dell'indennizzo  corrisposto al
 privato  gia'  azionista,  il  Tribunale,  per  poter  sollevare  una
 questione  di costituzionalita' nei confronti della norma concernente
 i criteri di determinazione dell'indennizzo, avrebbe dovuto, prima di
 tutto,   respingere   la  domanda  volta  a  contestare  la  regolare
 applicazione  dei  criteri  indicati  dalla  legge.  Nella  irrisolta
 persistenza  di  tale  preliminare  aspetto  della  controversia,  la
 questione di legittimita' costituzionale  ciononostante  proposta  si
 presenta  come  meramente  eventuale  (v. sentenza n. 300 del 1983 ed
 ordinanze n.142 del 1985, n. 595 del 1987, n. 26 del 1988).  Qualora,
 infatti,  la  domanda  di  nullita'  dovesse  risultare meritevole di
 accoglimento,  con  la  conseguente  necessita'   di   un   ricalcolo
 dell'indennizzo  e l'eventuale determinazione del suo nuovo ammontare
 in termini non  "simbolici",  non  vi  sarebbe  motivo  di  porre  in
 discussione  la  legittimita'  costituzionale della norma che fissa i
 criteri per la determinazione dell'indennizzo stesso.
    La  questione,  cosi'  come motivata in ordine alla rilevanza, va,
 dunque, dichiarata inammissibile.