ha pronunciato la seguente
                                SENTENZA
 nei  giudizi  di  legittimita' costituzionale degli artt. 6, 7, 8 e 9
 del d.l. 23 gennaio 1982,  n.  9  contenente  "Norme  per  l'edilizia
 residenziale  e  provvidenze in materia di sfratti", e della legge 25
 marzo  1982,  n.  94,  dal  titolo   "Conversione   in   legge,   con
 modificazioni,  del  decreto-legge 23 gennaio 1982, n. 9, concernente
 norme  per  l'edilizia  residenziale  e  provvidenze  in  materia  di
 sfratti",   promossi  con  ricorsi  delle  Regioni  Emilia-Romagna  e
 Sardegna, notificati il 22 e 23 febbraio 1982 e  il  2  aprile  1982,
 depositati  in  cancelleria  rispettivamente  il  2 e 4 marzo e il 30
 aprile successivi ed iscritti ai nn. 16, 18 e 25 del registro ricorsi
 1982;
    Visti  gli  atti  di costituzione del Presidente del Consiglio dei
 Ministri;
    Udito  nell'udienza pubblica del 22 marzo 1988 il Giudice relatore
 Antonio BALDASSARRE;
    Uditi  l'Avvocato  Fabio  Lorenzoni per la Regione Emilia-Romagna,
 l'Avvocato Paolo Mercuri per la Regione Sardegna e  l'Avvocato  dello
 Stato Franco Favara per il Presidente del Consiglio dei Ministri;
                           Ritenuto in fatto
    1.  -  La  Regione  Emilia-Romagna  in  data  22  febbraio 1982 ha
 presentato ricorso, ritualmente notificato e depositato, avverso  gli
 artt.  6,  7, 8 e 9 del decreto-legge 23 gennaio 1982, n. 9, nel loro
 testo  originario,  affinche'  siano  dichiarati   costituzionalmente
 illegittimi:
      a)  per  violazione  degli  artt.  117  e  119  Cost., in quanto
 conterrebbero norme di dettaglio in materie assegnate alle competenze
 regionali;
      b)  per violazione dell'art. 77 Cost., in quanto adottate con un
 decreto-legge emanato al di fuori dei presupposti  costituzionalmente
 previsti  e lesivo delle prerogative del Parlamento, perche' di fatto
 ha  prorogato  l'efficacia  di  un   precedente   decreto-legge   non
 convertito;
      c)  limitatamente  agli artt. 6 e 8, per violazione dell'art. 97
 Cost., in relazione al principio del buon andamento.
    1.1.   -  Dopo  essersi  soffermata  diffusamente  sui  motivi  di
 illegittimita'  in  riferimento  all'art.  77  Cost.,  la  ricorrente
 puntualizza  le  proprie  censure  in  relazione  ai singoli articoli
 impugnati.
    L'art.  6  del  citato  decreto,  nel  fissare  l'operativita' dei
 programmi pluriennali di attuazione al momento  della  loro  adozione
 (comunale),   anziche'   a   quello   dell'approvazione  (regionale),
 vanificherebbe le competenze regionali,  che,  come  nel  caso  della
 Regione  Emilia-Romagna,  sono  state  esercitate  sulla  base  della
 corretta concezione dei predetti programmi  come  atti  complessi  e,
 come  tali,  coinvolgenti  necessariamente  anche  la  partecipazione
 regionale.  Inoltre,  tale  immediata  operativita'  paleserebbe  una
 violazione  dell'art.  97  Cost.,  poiche'  impedirebbe  al programma
 pluriennale  di  attuazione  di  esercitare  la   sua   funzione   di
 coordinamento  degli  interventi  e delle spese regionali e comunali,
 oltreche' degli investimenti privati.
    L'art.  7 violerebbe l'art. 117 Cost., in quanto conterrebbe norme
 di dettaglio non riconducibili ad unitarieta', sia quando estende  il
 regime  delle  autorizzazioni  e riduce quello delle concessioni, sia
 quando impone modalita' procedurali,  come  il  silenzio-assenso.  Lo
 stesso  vizio  di  costituzionalita'  e'  imputato  dalla  ricorrente
 all'art. 9.
    L'art.  8,  dal  sesto al decimo comma, violerebbe, poi, gli artt.
 117, 119 e 97 Cost., sia in quanto prevede  la  gestione  diretta  da
 parte  del  privato  interessato di un procedimento pianificatorio il
 cui atto finale e' una deliberazione pubblica, sia in quanto prevede,
 irragionevolmente,  la  formazione  di  una convenzione in virtu' del
 silenzio della parte pubbblica, sia in  quanto  stabilisce  norme  di
 dettaglio  su  materie  di  competenza  regionale  comportanti  anche
 lesione dell'autonomia di spesa delle regioni stesse.
    Infine,  la  ricorrente  chiede, sulla base e in conseguenza della
 dedotta violazione dell'art. 77 Cost., la sospensione  cautelare  del
 decreto-legge.
    1.2.  -  Si  e' costituito in giudizio il Presidente del Consiglio
 dei Ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura  Generale  dello
 Stato,  che ha, innanzitutto, escluso la competenza di questa Corte a
 sindacare  la  sussistenza  dei  presupposti  per  l'emanazione   dei
 decreti-legge.  In  secondo  luogo,  ha  affermato  che la competenza
 regionale in materia di urbanistica  e'  costituzionalmente  limitata
 dalla  determinazione,  da  parte  dello  Stato, dei principi e degli
 indirizzi nonche' dalle leggi di riforma,  quali  la  l.  22  ottobre
 1971,   n.   865   ("Programmazione   e  coordinamento  dell'edilizia
 residenziale pubblica...") e la l. 28 gennaio 1977, n. 10 ("Norme per
 la   edificabilita'  dei  suoli")  che,  ovviamente,  lo  Stato  puo'
 integrare anche con provvedimenti legislativi di urgenza.
    In  particolare,  ad avviso dell'Avvocatura, l'art. 6 non solo non
 inciderebbe  sulle  potesta'  delle  regioni  relative  ai  programmi
 pluriennali  di  attuazione  e al coordinamento, ma anzi sollecita le
 funzioni regionali di controllo e di  armonizzazione  con  le  scelte
 pianificatorie a livello comprensoriale o regionale. E anche le altre
 disposizioni  impugnate  non  violerebbero  l'art.   117   Cost.   e,
 tantomeno, l'art. 119 Cost., in quanto stabilirebbero principi o, nel
 caso dell'art. 7, in quanto chiarirebbero semplicemente il  contenuto
 dell'art. 48 della legge 5 agosto 1978, n. 457 ("Norme per l'edilizia
 residenziale") estendendo le ipotesi di  autorizzazione  a  casi  che
 gia'  vi  rientravano  sulla  base  di  un'interpretazione  estensiva
 dell'art. 31 della legge appena citata.
    Infine,  quanto  alla  richiesta  di sospensiva del decreto-legge,
 l'Avvocatura ritiene che sia inammissibile nel nostro ordinamento.
    1.3.  -  In una memoria depositata in prossimita' dell'udienza, la
 Regione ricorrente, preso atto che gli artt. 6 e 8 del  decreto-legge
 impugnato  sono  stati  modificati  in  sede di conversione (legge 25
 marzo 1982, n. 94), chiede, per questi articoli, che  sia  dichiarata
 cessata  la  materia  del  contendere, mentre mantiene ferme le altre
 impugnazioni.
    2.  -  Con  due distinti ricorsi, notificati rispettivamente il 23
 febbraio 1982 ed il 23 aprile 1982, la Regione Sardegna ha impugnato,
 sulla  base  di  identiche  considerazioni, gli artt. 6, 7, 8 e 9 del
 decreto-legge 23 gennaio 1982, n. 9, e le medesime  disposizioni  nel
 testo  risultante dalla legge di conversione 25 marzo 1982, n. 94. La
 ricorrente ha giustificato l'identita' del secondo  ricorso  rispetto
 al  primo  sulla  base  del  fatto  che,  a  suo avviso, le modifiche
 apportate dalle Camere non hanno fatto venir meno nessuno dei  motivi
 posti a base delle censure prospettate contro il testo originario del
 decreto. Parallelamente alla ricorrente, il Presidente del  Consiglio
 dei  Ministri,  rappresentato e difeso dall'Avvocatura Generale dello
 Stato, ha presentato, anche in  occasione  del  secondo  ricorso,  le
 stesse  controdeduzioni  depositate  nel primo caso. Per economia del
 discorso, degli scritti difensivi dell'uno e dell'altro  giudizio  si
 dara' ora un unico conto.
    La  ricorrente lamenta che gli artt. 6, 7, 8 e 9 del d.l. n. 9 del
 1982, sia nel  testo  originario,  che  in  quello  risultante  dalla
 conversione  operata  dalla  legge 25 marzo 1982, n. 94, ove ritenuti
 applicabili  nei   suoi   confronti,   violerebbero   la   competenza
 legislativa  esclusiva  che  l'art. 3, lett. f, St. Sa. le assegna in
 materia di urbanistica, competenza, tra l'altro, gia' esercitata  con
 la legge regionale 28 aprile 1978, n. 30.
    2.1. - A sostegno del suo ricorso, la Regione Sardegna afferma che
 gli articoli impugnati conterrebbero norme di dettaglio, lesive, come
 tali,  della propria competenza legislativa primaria. In particolare,
 gli artt. 6 e 8 si porrebbero in evidente contrasto con gli artt. 3 e
 8  della  citata  legge  regionale n. 30 del 1978. Il primo, infatti,
 nell'individuare  gli  interventi  realizzabili  al  di   fuori   del
 programma  pluriennale  di  attuazione, stabilisce ipotesi diverse da
 quelle stabilite dalla ricordata legge regionale.  Il  secondo,  poi,
 introduce il c.d. silenzio-assenso, mentre la legge regionale prevede
 una particolare procedura imperniata sul silenzio-rifiuto.
    Ad avviso della ricorrente, contro i motivi da essa addotti non si
 potrebbe dire  che  le  disposizioni  impugnate  costituiscono  norme
 fondamentali  delle  riforme  economico-sociali,  dato  il  carattere
 procedurale amministrativo e quasi esclusivamente di dettaglio  delle
 stesse.
    2.2.  - Costituitosi regolarmente in giudizio tramite l'Avvocatura
 Generale dello  Stato,  il  Presidente  del  Consiglio  dei  Ministri
 sottolinea  che e' principio costante di questa Corte ritenere che la
 formulazione di programmi, come quelli stabiliti nelle leggi nn.  865
 del  1971  e  10  del 1977, rientri tra le leggi di riforma, previste
 come limite alla competenza esclusiva della  Regione  Sardegna  dagli
 artt. 3 e 4 dello Statuto. E tali piani, a suo avviso, non potrebbero
 arrestare la loro efficacia ai confini di  singole  regioni,  essendo
 sorretti da un interesse nazionale.
    Ne' puo' valere, secondo il resistente, l'argomento che la Regione
 ha gia' legiferato in materia. Poiche' la legge regionale n.  30  del
 1978  contiene  le  norme di attuazione e di integrazione della legge
 statale n. 10 del 1977 e poiche' il  decreto-legge  impugnato  e'  in
 realta' diretto a modificare la legge statale n. 457 del 1978, che, a
 sua volta, aveva innovato la disciplina disposta dalla  legge  n.  10
 del  1977, si dovrebbe ritenere che il provvedimento impugnato mira a
 modificare disposizioni rispetto alle quali la legge regionale n.  30
 del  1978  pone  le  norme  di  attuazione  e  di integrazione e che,
 pertanto, fungono da disposizioni di principio per quelle  regionali.
 Piu'  precisamente,  mentre  gli  artt.  7  e 9 del decreto impugnato
 apportano modifiche agli artt. 48 della legge n. 457 e 13 (recte:  3)
 della  legge  n.  10, gli artt. 6 e 8, stabiliscono deroghe, peraltro
 temporanee, a quanto previsto dagli artt.  13  e  4,  settimo  comma,
 della legge n. 10. E se erano legittime le norme modificate, conclude
 l'Avvocatura, altrettanto deve dirsi per le norme  sopravvenute,  che
 si  sostituiscono  a  quelle  per un tempo e per casi limitati. Tanto
 piu' cio' vale, sempre secondo il resistente, se si ha presente  che,
 in   sede   di  attuazione,  molte  regioni  avevano  adottato  norme
 irragionevolmente contrastanti con quelle statali.
    In  particolare,  l'Avvocatura  rileva  che  l'art.  6 del decreto
 impugnato e l'art. 3 della legge regionale, nel regolare le opere che
 possono   realizzarsi  al  di  fuori  del  programma  pluriennale  di
 attuazione, si  ispirano  alla  medesima  ratio.  Tuttavia  la  norma
 statale,  che  permette  quelle costruzioni quando vi siano almeno le
 opere di urbanizzazione, i piani di zona e quelli  di  lottizzazione,
 e'  piu'  completa  di quella regionale, che, invece, permette quelle
 costruzioni anche quando vi siano solo le opere di urbanizzazione.
    Quanto  all'art.  8,  l'Avvocatura  precisa  che la previsione del
 silenzio-assenso tende a superare  le  vecchie  macchinose  procedure
 relative  al rilascio delle concessioni edilizie che hanno finito per
 bloccare l'edilizia privata e per far rialzare i costi  nel  settore.
 Essa  e',  in ogni caso, una norma di principio, in quanto introduce,
 seppur per un tempo limitato, un istituto nuovo e diverso  da  quello
 previsto dalla legge regionale n. 30 del 1978.
    L'art.  7,  poi, introduce una serie di interventi che si potevano
 far rientrare gia' nell'ambito di  applicazione  dell'art.  31  della
 legge n. 457 del 1978, interventi che sono, comunque, riconducibili a
 unita' concettuale e, quindi, a un principio.  E,  infine,  l'art.  9
 contiene   norme  di  principio,  che  non  invadono,  per  di  piu',
 competenze regionali, non avendo mai la Regione  ricorrente  prestato
 attenzione ai soggetti ivi previsti.
    2.3.   -  In  prossimita'  dell'udienza  la  Regione  Sardegna  ha
 presentato una memoria,  con  la  quale  contesta  le  argomentazioni
 dell'Avvocatura, tese a dimostrare che le disposizioni impugnate sono
 norme di principio, ricordando che  tale  dimostrazione  e'  comunque
 inconferente  rispetto  a  una  competenza esclusiva, che e' limitata
 soltanto dai  principi  generali  del'ordinamento.  Ne',  secondo  la
 ricorrente,  si  potrebbe trattare di riforme "economico-sociali", se
 non altro perche' le norme  impugnate  sono  state  emanate  per  far
 fronte  a  situazioni  urgenti  e  transitorie  e  perche'  non  vale
 affermare che il carattere di riforme  sia  stato  riconosciuto  alle
 disposizioni  che  quelle  impugnate  intendono  modificare,  dovendo
 riferirsi  il  giudizio  sul  carattere  delle  norme  alle   singole
 disposizioni, autonomamente considerate.
    In  particolare,  la  ricorrente  osserva sull'art. 6 che, se puo'
 considerarsi  norma   di   riforma   l'introduzione   del   programma
 pluriennale  di  attuazione, non puo' esserlo la norma che vi apporta
 eccezioni. Quanto al  silenzio-assenso  introdotto  dall'art.  8,  la
 stessa  Regione  rileva  che  questo  e',  certo,  un principio della
 materia, ma, per la sua temporaneita', non  puo'  essere  considerata
 una "norma fondamentale" di riforma e, percio', non puo' vincolare la
 propria competenza primaria. L'art. 7, poi, introduce solo  eccezioni
 di  dettaglio al principio dell'onerosita' della concessione, al pari
 dell'art. 9,  che,  comunque,  lederebbe  l'autonomia  regionale  che
 risulterebbe  violata  anche  quando  la Regione non ha legiferato in
 materia, dovendo considerarsi la liberta' negativa di disporre  parte
 integrante ed essenziale della competenza attribuita.
                          Considerato in diritto
    1.  -  I  ricorsi  indicati  in epigrafe prospettano varie censure
 d'illegittimita' costituzionale nei confronti degli artt. 6, 7, 8 e 9
 del  decreto-legge  23  gennaio  1982,  n.  9  ("Norme per l'edilizia
 residenziale e provvidenze in materia di sfratti"),  convertito,  con
 modificazioni, nella legge 25 marzo 1982, n. 94.
    Piu'    precisamente,    la    Regione   Emilia-Romagna   sospetta
 l'illegittimita' dei predetti articoli per l'asserito  contrasto  con
 tre distinti parametri costituzionali:
      a)  l'art.  77  Cost.,  in quanto le disposizioni impugnate sono
 state  adottate  con  un  decreto-legge  emanato  al  di  fuori   dei
 presupposti di urgenza e di necessita' e lesivo delle prerogative del
 Parlamento, perche' di fatto ha, esso stesso, prorogato  gli  effetti
 di  un  precedente  decreto  non convertito, con cio' esercitando una
 competenza che l'ultimo comma dell'art. 77 Cost. riserva alle Camere;
      b)  gli  artt.  117  e  119  Cost., in quanto tutti gli articoli
 impugnati conterrebbero  norme  di  dettaglio,  non  riconducibili  a
 principi  della materia, la cui adozione vanificherebbe le competenze
 legislative e l'autonomia di spesa costituzionalmente assicurate alle
 regioni in materia di urbanistica;
      c)  l'art.  97 Cost., che risulterebbe violato dagli artt. 6 e 8
 del decreto impugnato, i quali, impedendo l'esercizio di funzioni  di
 coordinamento   o  sottraendo  irragionevolmente  all'amministrazione
 regionale  parti  essenziali   di   un   procedimento   pubblico   di
 programmazione,  si  porrebbero in contrasto con il principio di buon
 andamento dell'amministrazione pubblica.
    La  stessa Regione chiede, inoltre, con specifico riferimento alle
 dedotte  violazioni  dell'art.  77  Cost.,  che   sia   disposta   la
 sospensione cautelare del decreto-legge impugnato.
    Infine, sempre la Regione Emilia-Romagna, nella memoria depositata
 in prossimita' dell'udienza, chiede che  sia  dichiarata  cessata  la
 materia del contendere in relazione alle censure mosse agli artt. 6 e
 8 del decreto-legge impugnato, per il fatto che le parti  oggetto  di
 censura  non  sono state convertite, con il conseguente venir meno di
 tutti   i   motivi   che   l'avevano   indotta   a   dubitare   della
 costituzionalita' dei predetti articoli.
    La  Regione  Sardegna,  con  i  due  ricorsi indicati in epigrafe,
 impugna i medesimi artt. 6, 7, 8 e 9 del decreto-legge n. 9 del 1982,
 tanto  nel  testo  originario, quanto nel testo modificato in sede di
 conversione,  allegando  in  ambo  i  casi  i   medesimi   dubbi   di
 costituzionalita'.  In  particolare,  la  ricorrente  ritiene  che  i
 quattro articoli impugnati, stabilendo una disciplina dettagliata non
 riconducibile  ai  principi  generali  dell'ordinamento  o alle norme
 fondamentali delle riforme economico-sociali, si pongano in contrasto
 con  l'art.  3,  lett.  f),  St. Sa., che attribuisce alla Regione la
 competenza  legislativa  esclusiva  in  materia   di   "edilizia   ed
 urbanistica".  Tali  dubbi  sarebbero,  poi, aggravati dal fatto che,
 quantomeno in relazione alle materie disciplinate dagli artt. 6, 7  e
 8  del  decreto  impugnato,  la  Regione  avrebbe  gia' stabilito una
 propria disciplina, difforme da quella statale.
    Poiche'  tutti  e tre i ricorsi ora menzionati hanno ad oggetto le
 medesime norme di legge, e' opportuno riunire i  relativi  giudizi  e
 deciderli con un'unica sentenza.
    2.   -   Con  riferimento  al  ricorso  presentato  dalla  Regione
 Emilia-Romagna,   va   preliminarmente   rilevato   che    l'avvenuta
 conversione  del  decreto-legge  n.  9 del 1982 nella legge n. 94 del
 1982 fa venir meno il presupposto sul  quale  si  basano  le  censure
 sollevate  dalla  ricorrente  in  relazione  alla  pretesa violazione
 dell'art. 77 Cost. da parte del decreto stesso. Poiche', infatti,  la
 Regione  lamentava  la  mancanza  dei  presupposti costituzionali per
 l'adozione dei  decreti-legge  e  la  presunta  illegittimita'  della
 sostanziale  conversione  di  un decreto-legge non convertito operata
 attraverso la reiterazione di  quel  decreto,  la  sostituzione,  con
 efficacia  ex-tunc,  della legge di conversione al decreto impugnato,
 fa venir meno sin dall'inizio l'atto oggetto delle predette  censure,
 le  quali, vanno dichiarate inammissibili anzitutto per questo motivo
 (v., da ultimo, sentt. nn. 474 del 1988, 108 del 1986 e 34 del 1985).
    Consequenzialmente  a  cio',  va  considerata  assorbita  anche la
 richiesta  avanzata  dalla  ricorrente  per  ottenere  la  sospensiva
 dell'efficacia del medesimo decreto-legge.
    3.   -   Sempre   con   riferimento   al   ricorso  della  Regione
 Emilia-Romagna, va dichiarata  la  inammissibilita'  della  questione
 concernente gli artt. 6 e 8 del decreto-legge impugnato, involgente i
 profili relativi agli artt. 97 e 117 della Costituzione. In  sede  di
 conversione, infatti, sono stati sostituiti, con efficacia ex tunc, i
 primi due commi dell'art. 6, in modo che nel nuovo testo  manca  ogni
 riferimento  alla decorrenza dell'efficacia dei programmi pluriennali
 di attuazione dal momento della loro adozione (da parte del  comune),
 anziche'  da  quello  dell'approvazione  (da  parte  della  Regione),
 decorrenza che stava alla  base  di  tutte  le  censure  mosse  dalla
 ricorrente  al  citato  art.  6.  Analoghe  considerazioni  valgono a
 proposito delle censure mosse contro l'art. 8  del  medesimo  decreto
 per   la   pretesa  violazione  degli  artt.  97,  117  e  119  della
 Costituzione, essendo stati soppressi i commi cui quelle  censure  si
 riferivano (cioe' i commi che vanno dal sesto al decimo).
    4.  -  Venendo  al  merito delle impugnazioni proposte tanto dalla
 Regione Emilia-Romagna quanto dalla Regione Sardegna,  va  dichiarata
 l'infondatezza  di  tutte  le questioni sollevate, in quanto le norme
 impugnate costituiscono parti integranti di norme fondamentali  delle
 riforme    economico-sociali    e,    come   tali,   pongono   limiti
 costituzionalmente giustificati sia nei  confronti  della  competenza
 legislativa   delle   Regioni  a  statuto  ordinario  in  materia  di
 urbanistica (art. 117 Cost.),  sia  nei  confronti  della  competenza
 legislativa  esclusiva  spettante  nella  stessa materia alla Regione
 Sardegna (art. 3 St. Sa.).
    Secondo  la  costante  giurisprudenza  di  questa  Corte  (v.,  ad
 esempio, sentt. nn. 4 e 13 del 1964, 37 del 1966, 92  del  1968,  160
 del  1969,  13 del 1980, 219 del 1984, 151 del 1986, 99 del 1987), il
 limite delle norme fondamentali delle  riforme  economico-sociali  si
 caratterizza sotto un triplice profilo:
       a)  si  deve trattare di norme legislative dello Stato che - in
 considerazione del contenuto, della  motivazione  politico-sociale  e
 degli  scopi che si prefiggono - presentino un carattere riformatore,
 diretto  a  incidere   significativamente   nel   tessuto   normativo
 dell'ordinamento  giuridico  o  nella  vita  della  nostra  comunita'
 giuridica nazionale (v., spec., sent. n. 219 del 1984);
       b)  le  stesse  leggi,  tenuto  conto  della  tavola  di valori
 costituzionali, devono avere ad oggetto settori  o  beni  della  vita
 economico-sociale  di  rilevante  importanza,  quali, ad esempio, "la
 soddisfazione di un bisogno primario o  fondamentale  dei  cittadini"
 (sent.  n.  4 del 1964) o un "essenziale settore economico del paese"
 (sentt. n. 13 del 1964, e, analogamente, n. 219 del 1984);
       c)  si  deve trattare, inoltre, di "norme fondamentali", vale a
 dire  della  posizione  di  norme-principio  o  della  disciplina  di
 istituti  giuridici  -  nonche'  delle  norme legate con queste da un
 rapporto di  coessenzialita'  o  di  necessaria  integrazione  -  che
 rispondano  complessivamente  ad  un  interesse  unitario ed esigano,
 pertanto, un'attuazione su tutto il territorio  nazionale  (sent.  n.
 160  del  1969)  e  che,  in  ogni  caso, lascino alle Regioni, nelle
 materie di propria competenza, uno spazio normativo  sufficiente  per
 adattare  alle  proprie peculiarita' locali i principi e gli istituti
 introdotti dalle leggi nazionali di riforma (sent. n. 219 del  1984).
    Analizzata  sulla  base dei criteri appena accennati, la normativa
 oggetto delle presenti  impugnazioni  risponde  alle  condizioni  ivi
 stabilite.  E cio' si afferma non certo perche' tutte le disposizioni
 impugnate sono rivolte a modificare, direttamente  o  indirettamente,
 una  legge,  come  la  n.  10  del  28  gennaio  1977  ("Norme per la
 edificabilita' dei suoli"), che questa Corte ha  gia'  giudicato  nel
 suo  complesso  come  legge di riforma economico-sociale (sent. n. 13
 del 1980).
    Infatti,  come  ha  esattamente  osservato la difesa della Regione
 Sardegna, un ragionamento  del  genere  sarebbe  viziato,  in  quanto
 farebbe dipendere da un carattere esteriore e relazionale - cioe' dal
 rapporto della norma abrogativa  o  modificativa  rispetto  a  quella
 abrogata  o  modificata  -  una  qualificazione  sostanziale, come il
 carattere riformatore  di  una  disciplina,  la  cui  sussistenza  va
 verificata  per  ogni  norma  in  se'  considerata.  Al contrario, il
 riconoscimento delle norme  impugnate  come  appartenenti  al  genere
 delle riforme economico-sociali dipende dalla ricorrenza in concreto,
 in ognuna di esse, dei caratteri  che  la  giurisprudenza  di  questa
 Corte ha individuato come propri di tale categoria di norme.
    4.1.   -   Secondo   l'insindacabile   giudizio  del  legislatore,
 chiaramente  desumibile  dalla  relazione  al  disegno  di  legge  di
 conversione  e  dai lavori preparatori parlamentari, il decreto-legge
 n. 9 del 1982 e la conseguente legge (di conversione) n. 94 del  1982
 hanno  il  precipuo  scopo  di  far  fronte  a  una grave crisi nella
 disponibilita'  degli  alloggi  e  a  una  situazione  di  emergenza,
 caratterizzata  dal  blocco  dell'attivita'  edilizia,  attraverso la
 previsione di norme dirette ad agevolare l'acquisizione di alloggi e,
 soprattutto, la ripresa dell'attivita' produttiva del settore. Sempre
 secondo  l'insidacabile  giudizio  del  legislatore,  una  parte  non
 secondaria  della  responsabilita'  della situazione appena ricordata
 era da attribuire al ritardato corso delle pratiche edilizie,  dovuto
 alle  lentezze  delle amministrazioni comunali competenti al rilascio
 degli atti di assentimento che devono precedere i permessi rilasciati
 dagli  stessi  comuni,  nonche'  alla concorrente macchinosita' delle
 procedure legate all'istituto del silenzio-rigetto, allora pressoche'
 assolutamente dominante in tal campo.
    E'  sulla  base  di tale motivazione politico-sociale che lo scopo
 preminente  della  legge  n.  94  del  1982  e'  costituito   da   un
 significativo   e   sostanziale   allargamento   delle   ipotesi  del
 silenzio-assenso   (o   silenzio-accoglimento)   sulle   istanze   di
 autorizzazione  gratuita  e su quelle di concessione ad edificare per
 interventi di edilizia residenziale, rispettivamente  previsto  dagli
 artt. 7, terzo comma, e 8, primo comma, del predetto decreto-legge n.
 9  del  1982,  convertito,  sul  punto,  senza  modificazioni.   Tali
 disposizioni,  infatti,  hanno  esteso in modo rilevante l'area delle
 ipotesi in cui il silenzio serbato  dal  Sindaco  sulle  istanze  per
 ottenere  permessi  di  costruire  a  fini  residenziali  equivale ad
 accoglimento  delle  stesse,  un'area   che,   per   l'innanzi,   era
 circoscritta,  nella  legislazione  nazionale  della materia, al caso
 previsto dall'art. 48 della legge 5 agosto 1978, n. 457  ("Norme  per
 l'edilizia  residenziale"), in base al quale l'istanza al Sindaco per
 ottenere l'autorizzazione  a  eseguire  interventi  di  manuntenzione
 straordinaria  in  un  immobile  si ha per accolta qualora il Sindaco
 stesso non si pronunzi entro novanta giorni. E l'estensione  e'  tale
 che,  nel  settore  considerato,  l'istituto  del silenzio-assenso ha
 sostituito il proprio regime a quello del silenzio-rifiuto: un regime
 che   innova   profondamente  tanto  il  versante  dei  rapporti  tra
 amministrazione e cittadino,  quanto  il  sistema  di  programmazione
 urbanistica,   che,   dato   il   carattere  dovuto  o  limitatamente
 discrezionale del titolo  di  legittimazione  a  costruire  nei  casi
 contemplati  dalla  legge  impugnata  (carattere che costituisce, per
 l'appunto, il presupposto dell'operativita' del silenzio-assenso), e'
 messo in grado di funzionare in modo piu' rapido ed efficiente.
    Sulla scorta dei motivi appena accennati, non si puo' dubitare che
 l'introduzione del nuovo regime fondato  sull'istituto  del  silenzio
 accoglimento   in  un  settore  di  vitale  importanza,  sia  per  la
 soddisfazione di elementari e fondamentali bisogni dei cittadini (v.,
 sentt.  nn.  49  del  1987,  217 e 404 del 1988), sia per l'attivita'
 produttiva e lavorativa del sistema economico del nostro Paese (sent.
 n.  13  del  1980),  rientri,  in  base  ai  criteri  elaborati dalla
 consolidata giurisprudenza di questa Corte, fra le norme fondamentali
 delle  riforme economico-sociali. Come tale, il nuovo regime non puo'
 non vincolare l'esercizio  delle  competenze  legislative  regionali,
 compresa  quella  esclusiva,  nel  campo  dell'edilizia residenziale,
 salva sempre la liberta' del legislatore  regionale,  commisurata  al
 proprio  grado  di  autonomia,  di  regolare  le  modalita' attuative
 dell'istituto del silenzio-assenso, in conformita', ovviamente, con i
 motivi che ne hanno suggerito l'estensione.
    4.2.  -  Analogo discorso va fatto anche in relazione alle censure
 che la Regione Sardegna muove all'art. 6 della legge impugnata.
    Quest'ultimo  articolo  contiene  alcune deroghe all'art. 13 della
 legge 28 gennaio 1977, n. 10, che aveva istituito  e  disciplinato  i
 programmi   pluriennali  di  attuazione.  In  particolare,  la  norma
 impugnata, oltre a esonerare i piccoli comuni (con popolazione fino a
 10.000  abitanti) dal dotarsi del programma pluriennale di attuazione
 e a prevedere  lo  snellimento  delle  procedure  di  formazione  dei
 predetti  programmi  (eliminazione  dell'approvazione regionale e dei
 pareri preventivi di altre amministrazioni statali o  sub-regionali),
 prevede,  con  norme temporanee applicabili fino al 31 dicembre 1984,
 le opere che possono essere realizzate nelle aree  non  comprese  nei
 programmi pluriennali di attuazione, identificandole negli interventi
 sul patrimonio edilizio esistente e negli interventi da realizzare su
 aree  comprese nei piani di zona e su aree di completamento che siano
 dotate di opere di urbanizzazione primaria  collegate  funzionalmente
 con quelle comunali.
    Con  la sentenza n. 13 del 1980, questa Corte ha definito la legge
 n. 10 del 1977 come legge fondamentale di  riforma  economico-sociale
 proprio  con  specifico riferimento, fra l'altro, alla previsione dei
 programmi pluriennali di attuazione. Ed,  invero,  l'introduzione  di
 questo  strumento  urbanistico,  com'e'  ampiamente  riconosciuto, e'
 diretta a modificare profondamente le tecniche del  governo  pubblico
 del  territorio,  in quanto, affiancando all'ordinaria pianificazione
 spaziale di vincoli o di scelte conformatrici  della  proprieta'  una
 programmazione temporale di attivita', ne ha trasformato radicalmente
 il  senso,  convertendole  da  strumenti  essenzialmente  negativi  e
 impeditivi  a strumenti di impulso, che esigono un'interazione con le
 attivita' e i progetti dei privati. A buon diritto, pertanto,  l'art.
 13  della  legge  n.  10  del  1977  e'  stato qualificato come norma
 fondamentale delle riforme economico-sociali.
    Di  questa  natura partecipano anche le disposizioni oggetto della
 presente  impugnazione,  non  solo  per  la  parte  che  modifica  il
 procedimento  di  formazione dei programmi pluriennali di attuazione,
 ma anche per quelle che determinano i comuni esonerati dalla adozione
 dei  medesimi  e  stabiliscono  eccezioni  temporanee al principio di
 edificazione soltanto nelle aree comprese negli stessi programmi.  La
 caratterizzazione  di  un  istituto  giuridico,  infatti, non e' data
 soltanto dalla definizione del tipo e del principio che l'ispira,  ma
 anche dalla sua estensione e dalla sua sfera di efficacia in tutte le
 connotazioni essenziali che concorrono a definirle. Le eccezioni alla
 piena  espansione di un principio non sono, da questo punto di vista,
 accidenti  insignificanti,  ma  piuttosto  elementi  essenziali   che
 concorrono a definire il principio stesso nella sua effettiva portata
 e, quindi, nella sua caratterizzazione positiva. In tal senso e', del
 resto,  la  costante  giurisprudenza  di  questa Corte, che ha voluto
 significare anche questo quando, a proposito delle norme fondamentali
 delle  riforme  economico-sociali,  ha  affermato  che  "non  si puo'
 escludere l'estensione di tale qualifica a norme  diverse  da  quelle
 contenenti  i principi fondamentali della riforma, purche' legate con
 queste ultime da un  rapporto  di  coessenzialita'  o  di  necessaria
 integrazione" (sentt. nn. 219 del 1984, 151 del 1986, 99 del 1987).
    Ne'  si  puo'  sostenere, in senso contrario, che la temporaneita'
 delle deroghe previste dall'art. 6, come del resto quella relativa al
 silenzio-assenso  sulle istanze di concessione (art. 8, primo comma),
 rappresenti un ostacolo insormontabile al fine di considerare le  une
 e  l'altra  come  parti  integranti  delle  norme  fondamentali delle
 riforme economico-sociali. L'idea che debbano  essere  "fondamentali"
 soltanto le riforme che non hanno limiti di tempo, patrocinata in tal
 caso dalla Regione Sardegna, non  e'  accettabile,  sia  perche',  se
 fosse vera, verrebbe espunta dalla categoria delle leggi in questione
 proprio l'ipotesi piu' importante per  la  quale  tale  categoria  e'
 stata  pensata  in  Assemblea  Costituente,  cioe'  la programmazione
 economica (che  e'  sempre  a  termine),  sia  perche'  il  carattere
 riformatore  di  una  legge  e'  sempre  commisurato,  spazialmente o
 temporalmente, alla concreta situazione che  il  legislatore  intende
 cambiare.
    Piu'  in  particolare,  le  due  ipotesi  contestate dalla Regione
 Sardegna   sono   direttamente   legate   alle   due    cause    che,
 nell'insindacabile  valutazione del legislatore, avevano portato alla
 crisi degli alloggi e alla stasi dell'attivita'  di  costruzione:  il
 ritardo  della  grande  maggioranza  delle  Regioni  nell'adottare  i
 programmi pluriennali di attuazione e la gia'  ricordata  lentezza  e
 macchinosita'   delle   procedure   comunali   nel   rilascio   delle
 concessioni. Appare allora chiaro che la temporaneita' delle  riforme
 in  discussione - vale a dire la previsione di eccezioni al principio
 dell'edificazione in  aree  comprese  nei  programmi  pluriennali  di
 attuazione   e   l'applicabilita'  del  silenzio-assenso  anche  alle
 concessioni edilizie - mirano  a  riattivare  un  meccanismo  che  si
 riteneva   inceppato   momentaneamente,   per  un  insieme  di  cause
 temporanee che hanno portato a una situazione di emergenza.
    Per tali ragioni, anche le deroghe temporanee previste dall'art. 6
 della legge n. 94 del 1982 si  impongono,  quali  norme  fondamentali
 delle riforme economico-sociali, alle Regioni ad autonomia comune e a
 quelle ad autonomia differenziata, che in  ogni  caso  conservano  in
 proposito  un  ampio  spazio  normativo,  poiche' le ipotesi previste
 dall'articolo impugnato costituiscono semplicemente un minimo  al  di
 sotto del quale le Regioni non possono andare.
    4.3. - Restano, infine, da considerare le altre censure che sia la
 Regione Emilia-Romagna, sia la Regione Sardegna muovono all'art. 7  e
 all'art. 9 della legge n. 94 del 1982.
    Per  quel  che in questa sede rileva, l'art. 7 - non modificato in
 sede di conversione - prevede (primo e secondo comma) alcune  ipotesi
 di  deroga  al  principio  di  onerosita' della concessione edilizia,
 stabilito dall'art. 3 della legge n. 10 del 1977. Del pari, l'art.  9
 prevede,  tanto  nel  testo  originario,  quanto in quello risultante
 dalla legge di conversione, norme in deroga  allo  stesso  principio,
 determinando  alcuni  casi in cui il contributo per il rilascio della
 concessione edilizia e' dovuto in  misura  ridotta  rispetto  al  suo
 ammontare ordinario, che, ai sensi del suddetto art. 3 della legge n.
 10  del  1977,  va   commisurato   all'incidenza   delle   spese   di
 urbanizzazione  nonche'  al  costo  di  costruzione. In altre parole,
 l'uno e l'altro articolo prevedono eccezioni o deroghe a un  medesimo
 principio,  il  quale rientra indubbiamente fra le norme fondamentali
 delle riforme economico-sociali, non tanto perche' stabilito  in  una
 legge  che  questa Corte ha gia' assegnato nella sua totalita' a tale
 categoria di norme (sent. n. 13 del 1980), ma  piuttosto  perche'  il
 principio  di onerosita' della concessione incide profondamente su un
 punto  nevralgico   della   disciplina   della   rendita   fondiaria,
 modificando radicalmente il precedente regime. Pertanto, anche in tal
 caso vale il discorso svolto nel punto precedente della  motivazione,
 in  base  al quale anche le deroghe o le limitazioni di un principio,
 legate da un rapporto di coessenzialita' o di integrazione necessaria
 con   lo  stesso,  partecipano  della  sua  stessa  natura  di  norma
 fondamentale delle riforme economico-sociali, in quanto concorrono  a
 determinare  l'effettiva  portata e la caratterizzazione positiva del
 principio medesimo.