IL TRIBUNALE MILITARE
    Ha  pronunciato  la  seguente  ordinanza  nella causa contro Pavan
 Emanuele, nato l'8 gennaio 1968 a Venezia, atto di nascita  n.  70IA,
 residente  a  Brugnera (Pordenone) in via Villa Guarda n. 12, celibe,
 giostraio, incensurato, recluta nel 235› btg. f. "Piceno"  in  Ascoli
 Piceno;  ora  nel  23› btg. fanteria "Como" in Como; domicilio eletto
 presso studio avv. Liliana Marzollo, detenuto dal 25 aprile 1988,  in
 liberta'  provvisoria  dal  28 aprile 1988, imputato di mancanza alla
 chiamata, aggravata (art. 151, primo comma,  del  c.p.m.p.)  perche',
 chiamato  alle armi con manifesto per adempiere il servizio di ferma,
 ometteva, senza giusto motivo, di raggiungere in data 23 agosto  1987
 il distretto militare di Udine, rendendosi assente arbitrario sino al
 25 aprile 1988 data in cui veniva tratto in arresto dai cc. di  Piove
 di Sacco;
    Con l'aggravante di cui all'art. 154, n. 1, del c.p.m.p.;
                      F A T T O  E  D I R I T T O
    Il  giovane  Pavan  Emanuele,  confermando  discolpe gia' rese nel
 corso dell'interrogatorio dinanzi al pubblico ministero, nell'odierno
 dibattimento  ha dichiarato che la sua non ottemperanza alla chiamata
 alle armi del secondo contingente 1987, e la conseguente sua  assenza
 dal  servizio  sino  al  25  aprile  1988, erano state determinate da
 ignoranza della normativa in tema di presentazione alle armi  per  lo
 svolgimento  del  servizio  militare  di ferma. Piu' particolarmente,
 egli, sulla base della precedente esperienza di due suoi fratelli che
 avevano  intrapreso  il  servizio militare a seguito di notificazione
 della cartolina-precetto, aveva ritenuto di non essere  obbligato  al
 servizio   militare  sin  quando  non  avesse  ricevuto  il  precetto
 personale, ed ignorato che, al contrario, sarebbe  stato  suo  dovere
 rispondere comunque alla chiamata cui era interessato, sulla base del
 relativo  pubblico  manifesto.  Convinto   della   necessita'   della
 notificazione  personale, non aveva fatto caso al pubblico manifesto,
 per cui aveva anche ignorato che con questo gli veniva prescritto  di
 presentarsi entro il 23 agosto 1987 al comando del distretto militare
 di Padova.
    Questa  situazione  di  ignoranza  del  Pavan  riguarda l'astratta
 configurazione del dovere di  presentazione  alle  armi  (sulla  base
 anche  del  solo  pubblico  manifesto di chiamata), e nel contempo il
 concreto contenuto del suo dovere (di intraprendere il servizio entro
 il  suindicato  termine nell'ambito del suindicato reparto militare).
 Essa  non  puo'  avere  alcun  rilievo  nell'indagine   sull'elemento
 soggettivo  del reato, ostandovi la categorica disposizione dell'art.
 39 del c.p.m.p., secondo cui "Il militare non puo' invocare a propria
 scusa  l'ignoranza  dei  doveri  inerenti  al  suo  stato  militare".
 D'altronde,  e'  lo  stesso  legislatore  a  precisare   che   questa
 disposizione corrisponde all'intento di "eliminare tutte le dubbiezze
 e  perplessita'  giurisprudenziali...  in  tema  di  conoscenza   dei
 manifesti  di  chiamata alle armi" e piu' in generale di "ribadire il
 concetto della inutilita' di ogni indagine sulla effettiva conoscenza
 dei  doveri  inerenti  alle  molteplici  manifestazioni  del servizio
 militare ai fini della determinazione del dolo".
    Innanzitutto,  secondo  la  previsione dell'art. 39 non e' ammessa
 l'ignoranza delle norme extrapenali,  costitutive  dei  doveri  dello
 stato  militare,  che  diano  integrazione  a  precetti penali, o che
 invece costituiscano elementi normativi dei fatti di reato. Pertanto,
 nella  specie,  non  puo' assumere rilievo di scusante la circostanza
 che il Pavan non conoscesse la norma che gli imponeva di  presentarsi
 alle  armi  sulla sola base del pubblico manifesto: l'inescusabilita'
 deve considerarsi in ogni caso inderogabile, quale che  possa  essere
 la   relazione  intercorrente  tra  la  norma  non  conosciuta  e  la
 disposizione   incriminatrice   dell'art.   151   del   c.p.m.p.   di
 integrazione del precetto, o di integrazione del fatto di reato.
    Inoltre,  secondo  la  previsione  dello  stesso  art.  39, non e'
 scusabile  nemmeso  la  non  conoscenza  dei  dati   di   fatto   che
 conferiscono  concretezza  al  dovere dello stato militare, e che nel
 contempo siano riconducibili ai presupposti ed all'elemento materiale
 del reato. E' il caso, come nella specie, dell'ignoranza del termine,
 e della denominazione e sede  del  reparto  militare,  stabilite  per
 l'assunzione del servizio.
    Va,  peraltro,  precisato  che,  secondo  un  recente orientamento
 giurisprudenziale  e  dottrinario,  formatosi  proprio  in  tema   di
 conoscenza  dei  manifesti di chiamata alle armi, e che disattende le
 succitate  indicazioni  desumibili   dalla   relazione   sui   lavori
 preparatori    al    vigente    codice    militare,    il   principio
 dell'inescusabilita' sancito dall'art. 39 non sarebbe cosi' esteso da
 comprendere  i  concreti  elementi del dovere dello stato militare, e
 riguarderebbe invece solo la sua astratta  configurazione,  e  quindi
 nient'altro che la norma costitutiva dello stesso.
    In   definitiva,  l'art.  39,  in  quanto  norma  speciale,  opera
 sicuramente in deroga  all'art.  5  del  c.p.  (come  modificato  per
 effetto  della  sentenza  della Corte costituzionale n. 364/1988), ed
 all'art. 47, terzo comma, del c.p. Inoltre,  se  si  ritiene  di  non
 poter  condividere l'accennata piu' liberale interpretazione, si deve
 concludere che la norma speciale apporta delle deroghe anche all'art.
 47, primo comma, del c.p.
    Tutto  cio'  premesso,  questo  tribunale  ritiene di dover ancora
 sollevare questione di legittimita' dell'art.  39  del  c.p.m.p.,  in
 relazione  agli  artt.  2,  3,  13, 25, secondo comma, 27 e 52, terzo
 comma, della Costituzione.
    A  tal  riguardo,  appare  innanzitutto  in  contraddizione con il
 principio di uguaglianza (art. 3 della Costituzione) che nell'art. 39
 non  si  contempli  alcuna  deroga al principio dell'inescusabilita',
 analoga a quella ora prevista per il principio dell'art. 5 del  c.p.:
 la  scusabilita',  a  seguito della sentenza della Corte n. 364/1988,
 puo'  riguardare  persino  la  legge  penale  militare  e  le   norme
 extrapenali  che  le  diano  integrazione, ma in nessun caso le norme
 extrapenali costitutive di doveri dello stato  militare,  diano  esse
 integrazione  al  precetto  penale (comune o militare), o al fatto di
 reato. D'altronde, la diversita' di trattamento non potrebbe  trovare
 giustificazione  nella  considerazione che con l'art. 39 il principio
 dell'inescusabilita' dell'ignoranza viene a riguardare una  normativa
 che,  per  essere quella del proprio status, comunque non puo' essere
 incolpevolmente  ignorata.  Questa  considerazione  mutatis  mutandis
 forse  puo'  applicarsi  a status personali e professionali acquisiti
 per libera scelta e a volte dopo lunga e specifica  preparazione;  ma
 non  di  certo  alla situazione del militare che tale qualita' assume
 automaticamente per il sol fatto della chiamata alle  armi,  e  senza
 che  sia  necessaria  una  preventiva  istruzione  e nemmeno, come e'
 avvenuto per il Pavan, l'effettiva presentazione alle armi  (art.  3,
 primo comma, n. 2, del c.p.m.p.).
    Ma  l'ipotesi  di  incostituzionalita'  dell'art.  39  non  deriva
 soolamente dal raffronto con l'art. 5 del c.p., come novellato  dalla
 sentenza  della  Corte  costituzionale. Si e' gia' detto che con esso
 viene limitato anche il principio  dell'art.  47,  terzo  comma,  del
 c.p.,  e probabilmente dello stesso art. 47, primo comma. Ora, mentre
 sotto questi ulteriori profili appare ancora violato il principio  di
 uguaglianza  (art. 3 della Costituzione), si deve comunque mettere in
 risalto   come,   in   tal   modo   legittimando   affermazioni    di
 responsabilita' sulla base di un dolo fittiziamente determinato e pur
 in assenza degli  elementi  della  colpa,  l'art.  39  potenzialmente
 comporti,  per  i  reati  militari,  particolarmente gravi e redicali
 deroghe al principio di civilta' nullum crimen sine culpa.
    Pertanto,   altri  ancora  sono  i  parametri  costituzionali  cui
 riferirsi nell'indagine sulla possibile illegittimita' dell'art.  39.
    Innanzitutto,  se  l'art.  27, primo comma, della Costituzione non
 deve  avere  il  solo  significato  di  escludere   ogni   forma   di
 responsabilita'  per  fatto altrui, ma anche quello di richiedere per
 la responsabilita' un quid di soggettivo,  e  se  a  questa  esigenza
 conduce,  come pure viene riconosciuto, lo stesso principio dell'art.
 25, secondo comma, della Costituzione, non v'e' dubbio che l'art. 39,
 il  quale  consente  condanne  basate  sul  solo  nesso di causalita'
 materiale, deve apparire in insanabile contrasto con le  dette  norme
 costituzionali.
    Ma  e'  anche chiaro che, in considerazione della portata generale
 dello stesso art. 39, determinata dalla potenziale onnicomprensivita'
 della  nozione  di "doveri inerenti allo stato militare", e della sua
 capacita'  di  trasformare  il  concetto  stesso  di  responsabilita'
 penale,  il  contrasto  si  presenta  come di piu' ampio rilievo, nel
 senso che viene a riguardare la funzione assegnata  alla  pena  (art.
 27,  terzo  comma, della Costituzione), che per i reati militari ed i
 militari non puo' non essere  quella  stessa  prevista  per  i  reati
 comuni e la generalita' dei consociati.
    In verita', con la soggezione a pena in deroga al principio nullum
 crimen sine culpa il militare viene  asservito  ad  una  funzione  di
 esemplarita'  della  pena,  che appare inadeguata alla dignita' della
 persona umana (artt. 2 e 52, terzo comma, della Costituzione), ed  al
 valore   riconosciuto   alla   liberta'   personale  (art.  13  della
 Costituzione). Cosi' egli, che dovrebbe in  ogni  circostanza  godere
 della  considerazione  propria  di  un soggetto impegnato in un sacro
 dovere di difesa della Patria (art. 52, primo e secondo comma,  della
 Costituzione),  viene  invece  in  qualche  misura  assimilato  ad un
 oggetto liberamente impiegabile nella  pubblica  funzione  di  difesa
 della medesima.
    Infine,  si  potrebbe  forse  pensare  che  a  garanzia di supremi
 interessi  costituzionalmente  protetti  sia   consentito,   mediante
 istituti  del  tipo dell'art. 39, far soccombere meno importanti beni
 individuali, nella forma di una  fittizia  responsabilita'  penale  e
 personale.  Ma  nemmeno  in  questa  estrema  prospettiva  l'art.  39
 potrebbe considerarsi al riparo  da  critiche  di  costituzionalita',
 perche'   rimarrebbe  pur  sempre  da  chiedersi  se,  a  fronte  dei
 fondamentali doveri politici che riguardano ogni cittadino (artt. 52,
 primo   comma,   e   54,   primo   comma,  della  Costituzione),  sia
 giustificabile una norma che cosi' gravi limitazioni stabilisca per i
 soli militari (art. 3 della Costituzione).
    In  conclusione,  per  le  esposte considerazioni questo tribunale
 militare ritiene ancora non manifestamente infondata e rilevante  nel
 presente  procedimento la questione di costituzionalita' dell'art. 39
 del c.p.m.p., in relazione agli artt. 2, 3, 13, 25, secondo comma, 27
 e 52, terzo comma, della Costituzione.