ha pronunciato la seguente
                                SENTENZA
 nel  giudizio  di  legittimita'  costituzionale  dell'art.184,  comma
 secondo, del codice penale militare di pace, promosso  con  ordinanza
 emessa  il  12  gennaio  1988  dal  Tribunale  militare di Padova nel
 procedimento penale a carico di Bufano Giovanni ed altri, iscritta al
 n.  185  del  registro  ordinanze  1988  e  pubblicata nella Gazzetta
 Ufficiale della Repubblica
 n. 20 prima serie speciale dell'anno 1988;
    Visto  l'atto  di  intervento  del  Presidente  del  Consiglio dei
 Ministri;
    Udito  nella  camera  di consiglio del 30 novembre 1988 il Giudice
 relatore Ettore Gallo;
                           Ritenuto in fatto
    1.  -  Con  ordinanza  12  gennaio  1988,  il  Tribunale  militare
 territoriale  di   Padova   sollevava   questione   di   legittimita'
 costituzionale  dell'art.  184, II co., c.p.m.p. con riferimento agli
 art.li 2, 3, 17, 21 e 52, ult. co. Cost.
    Riferiva il Tribunale nell'ordinanza che era in corso procedimento
 penale nei confronti di un gruppo  di  militari,  imputati  di  avere
 arbitrariamente   promosso,   in   luogo   militare,  un'adunanza  di
 commilitoni per trattare  argomenti  attinenti  al  servizio  e  alla
 disciplina  militare.  In effetti, qualche diecina di militari si era
 riunita nella camerata del diciannovesimo Gruppo Artiglieria  Campale
 semovente   "Rialto"   di  stanza  a  Sequals  (PN),  per  concordare
 iniziative dirette ad ottenere il miglioramento del rancio, giudicato
 insoddisfacente.
    Secondo  l'ordinanza, la disposizione impugnata configura un reato
 di pericolo presunto, o di mera disobbedienza, in  quanto  ne'  lede,
 ne'  mette in pericolo concreto alcun bene giuridico: in guisa che la
 norma incriminatrice,  non  ponendo  in  bilanciamento  altri  valori
 costituzionalmente garantiti, viene a comprimere, mediante un eccesso
 di tutela, i diritti di liberta'. Afferma, infatti, il Tribunale  che
 la  liberta'  di  riunione  e'  direttamente riconosciuta e garantita
 dall'art. 17 Cost. e che, d'altra parte, le riunioni di  militari  in
 caserma    appaiono    strumento   pressoche'   indispensabile   alla
 proposizione di istanze collettive: attivita' queste che, secondo  la
 sentenza  n.  126  del  1985 di questa Corte, sono state riconosciute
 lecite in quanto espressione del principio di cui all'art. 21  Cost.,
 e  per  di  piu'  promozionali  dello  "sviluppo in senso democratico
 dell'ordinamento delle Forze armate", a' sensi dell'art. 52, ult. co.
 Cost.
    Ne  resterebbero,  percio', vulnerati anche i principi di cui agli
 art.li 2 e 3 Cost. perche' si determinerebbe una discriminazione, nei
 confronti   dei  cittadini  non  militari,  in  relazione  a  diritti
 fondamentali.
    D'altra  parte,  nessun  impedimento  al  regolare svolgimento del
 servizio potrebbe venire dall'esercizio del diritto di riunione  come
 pretendeva la precedente sentenza della Corte n. 31 del 1982 perche',
 secondo  quanto  osserva  l'ordinanza,   la   fattispecie   impugnata
 costituisce  reato  contro  la  disciplina  militare  e non contro il
 servizio. Ne'  la  previsione  di  appositi  organi  rappresentativi,
 autorizzati  ad  indire  assemblee per trattare argomenti inerenti al
 servizio, potrebbe confiscare ai rappresentati il  diretto  esercizio
 di  quel  diritto: cosi' come, del resto, e' stato detto della citata
 sentenza n. 126 del 1985 di questa Corte. Sentenza  quest'ultima  che
 avrebbe   completamente   superato,  per  i  principi  affermati,  la
 precedente n. 31 del 1982 che aveva dichiarato  infondata  la  stessa
 questione ora riproposta.
    2.  -  L'ordinanza  e' stata regolarmente comunicata, notificata e
 pubblicata ed e' intervenuto  nel  giudizio  innanzi  alla  Corte  il
 Presidente  del Consiglio dei Ministri, rappresentato dall'Avvocatura
 Generale dello Stato,  che  ha  chiesto  declaratoria  d'infondatezza
 della questione.
    Secondo  l'Avvocatura  non  ci  sarebbe ragione per discostarsi da
 quanto deciso da questa Corte con la  citata  sentenza  del  1982.  I
 militari  possono  benissimo  esercitare i diritti costituzionali con
 modalita'  diverse,  senza  pregiudicare   altri   valori   parimenti
 tutelati.
    La norma impugnata, infatti, risponde all'esigenza di contemperare
 l'esercizio dei diritti costituzionali con  il  regolare  svolgimento
 del servizio, che una libera facolta' di riunirsi ad libitum da parte
 dei militari puo' compromettere.
    Ne'  puo' essere invocata la piu' recente sentenza n. 126 del 1985
 di  questa  Corte  che  riguarda  altro  parametro  costituzionale  e
 fattispecie ben diversa.
                         Considerato in diritto
    Effettivamente  l'art. 21 Cost., di cui si e' occupata la sentenza
 n. 126 del 1985 per dichiarare l'illegittimita' di altra fattispecie,
 non  puo'  venire  in  esame  nella  presente questione, almeno sotto
 l'aspetto invocato dall'ordinanza. Non e',  infatti,  ravvisabile  la
 necessaria  strumentalita'  del  fatto  previsto  nella  disposizione
 impugnata - come sostiene l'ordinanza - rispetto a quello contemplato
 nell'art. 180, I co., c.p.m.p., giacche' istanze e reclami collettivi
 ben possono essere realizzati attraverso  numerose  altre  modalita',
 senza  che  si  debbano  all'uopo imprescindibilmente indire riunioni
 arbitrarie.
    La questione s'incentra, percio', sulla compatibilita' del divieto
 penale di arbitrarie riunioni di  militari  in  luoghi  militari  con
 l'esercizio del diritto costituzionale di riunione previsto dall'art.
 17 Cost. Un diritto questo  effettivamente  strumentale  rispetto  al
 perseguimento  di  determinati  fini, ma che, proprio per cio', resta
 condizionato dalla liceita' o meno di essi, sicche' non puo'  esservi
 dubbio  che  l'ordinamento,  ma  anche  la stessa Autorita' militare,
 debbano poterli valutare per apprezzare la liceita' della riunione.
    Non deve essere, infatti, trascurato che la questione si riferisce
 a riunioni "in luoghi  militari"  i  quali,  per  loro  natura,  sono
 innanzitutto destinati al perseguimento delle finalita' proprie delle
 Forze armate, nello spirito di cui all'art. 52, I  co.  Cost.  Sembra
 evidente  allora  che  il  legislatore  non possa indiscriminatamente
 consentire ai militari di riunirsi a  loro  libito  in  quei  luoghi,
 senza  pregiudicare  quella  disciplina,  la  quale pure rappresenta,
 nell'ordinamento militare, un bene giuridico degno di tutela. Proprio
 su  di  essa,  infatti,  si  fonda  l'efficienza delle Forze armate e
 quindi,  in  definitiva,  il  perseguimento  di  quei  fini  che   la
 Costituzione solennemente tutela.
    E'  ben vero che "l'ordinamento delle Forze Armate si informa allo
 spirito democratico della Repubblica" (art. 52, ult.  co.  Cost):  ma
 "informarsi  allo spirito" non vuol dire la ricezione pura e semplice
 di qualsiasi disposizione della Costituzione,  senza  alcun  riguardo
 alla  natura dell'ordinamento in parola ed alle finalita' cui esso e'
 ispirato, giusta la norma espressa dalla  prima  parte  dello  stesso
 articolo.
    Proprio  di  cio'  si  e'  dato  carico  il  legislatore ordinario
 emanando le "Norme di principio sulla  disciplina  militare"  (l.  11
 luglio  1978 n. 382), che all'art. 3 riconoscono bensi' ai militari i
 diritti della Costituzione spettanti a tutti i cittadini, precisando,
 pero',  che  "per  garantire  l'assolvimento dei compiti propri delle
 Forze armate, la legge impone ai militari limitazioni  nell'esercizio
 di alcuni di tali diritti, nonche' l'osservanza di particolari doveri
 nell'ambito dei principi costituzionali".  Disposizone questa che  e'
 stata  accolta  con  favore  anche  dalla  dottrina,  come quella che
 ragionevolmente contempera i  diritti  costituzionali  del  cittadino
 militare   con   le   esigenze   dei  particolari  doveri  propri  di
 un'Istituzione intesa a perseguire finalita' parimenti tutelate dalla
 Costituzione  e  concernenti  l'interesse  dell'intera  collettivita'
 nazionale.
    E  puntualmente,  per quanto si riferisce alla specie in esame, il
 Regolamento di  disciplina,  contemplando  il  diritto  di  riunione,
 rimanda alla citata legge di principio sulla disciplina militare che,
 all'art. 7, vieta le riunioni non di servizio nell'ambito dei  luoghi
 militari:  mentre  poi  e'  ancora  il II comma del detto art. 30 del
 Regolamento a soggiungere che "nei  casi  in  cui  le  riunioni  sono
 consentite,   queste   devono   essere   autorizzate   dall'autorita'
 competente".
    2.  -  Tuttavia,  se  tutto  questo  indica  eloquentemente che il
 sistema tende ad imporre limiti  proprio  all'esercizio  del  diritto
 costituzionale  di  riunione,  nello  spirito di cui al citato art. 3
 della legge di principio sulla disciplina militare, cio' tuttavia non
 risolve  il problema sollevato dall'ordinanza del Tribunale di Padova
 che,  non  senza  ragione,  adombra  l'eccessivita'  di  una   tutela
 addirittura  penale  nei  riguardi  di violazioni che, come quella di
 specie, possono nella realta' presentarsi pacifiche ed innocue.
    La  questione,  pero',  non  puo'  essere  superata  dal  semplice
 riferimento all'art. 17 della Costituzione,  ne'  dal  mero  richiamo
 alla sentenza n. 126 del 1985 di questa Corte. Quest'ultima, infatti,
 ha potuto  correttamente  ravvisare  pregiudizio  all'art.  21  Cost.
 nell'incriminazione del solo fatto della presentazione di una domanda
 o di un esposto da parte di dieci o piu' militari perche' la liberta'
 di  manifestazione  del  pensiero in uno scritto diretto a presentare
 richieste, o a rappresentare ai superiori situazioni  concernenti  il
 servizio,   non   puo'  in  alcun  modo  compromettere  le  finalita'
 dell'Istituzione ne' attentare all'osservanza di particolari  doveri.
 Ma  altrettanto  non puo' dirsi della riunione arbitraria di militari
 in luoghi militari, sia perche', da una parte,  essi  possono  venire
 distolti  da  eventuali  servizi,  sia perche', comunque, con la loro
 collettiva presenza, essi  vanno  ad  occupare  ed  impegnare  luoghi
 militari   destinati,   per   loro  natura,  alle  finalita'  proprie
 dell'Istituzione, determinando anche situazioni  di  disordine  e  di
 confusione.
    Ora, e' ben vero che, se la riunione e' pacifica e disarmata, e se
 e' diretta a trattare senza animosita' di cose attinenti al  servizio
 o  alla  disciplina nell'intento di un inserimento partecipativo alla
 vita della caserma, lungi dall'essere pericolosa, puo'  rappresentare
 -  come  la  sentenza  di  questa  Corte  da  ultimo  citata ha detto
 testualmente  -  mezzo  di  promozione  e  di  "sviluppo   in   senso
 democratico dell'ordinamento delle Forze armate". Va, pero', rilevato
 che la fattispecie di "Adunanza di militari", prevista nel  II  comma
 dell'art.  184  c.p.m.p., non contempla situazioni cosi' pacifiche ed
 innocue. Che', anzi, inserita com'e' nel Capo concernente la rivolta,
 l'ammutinamento  e  la  sedizione  militare,  ed in consecuzione alle
 ipotesi di sedizione previste dai due articoli che la precedono,  non
 puo'  che  riferirsi ad adunanze ostili e cariche di pericolo sia per
 la disciplina che per le finalita'  istituzionali  costituzionalmente
 tutelate: tant'e' vero che lo "Schema di disegno di legge delega" per
 il nuovo codice penale militare di  pace  suggerisce  al  legislatore
 delegato  di  "ristrutturare  le  ipotesi  di sedizione militare come
 comportamenti collettivi  (e  anche  come  comportamenti  individuali
 idonei  a  promuovere  un comportamento collettivo) caratterizzati da
 ribellione ed ostilita'  verso  le  autorita'  militari  o  verso  le
 istituzioni"  (art.10,  lett.  d).  E  la  relazione  precisa che "la
 materia  della  sedizione  militare  e'  da  rivedere  integralmente,
 considerato  che  essa  e' attualmente collocata frammentariamente in
 diverse disposizioni (articoli da 180 a 185 del c.p.m.p.), non  tutte
 tra loro nettamente distinte, sulle quali la giurisprudenza manifesta
 un notevole travaglio  interpetrativo.  In  sede  di  riforma,  nella
 descrizione   delle   fattispecie  legali,  debbono  essere  espressi
 chiaramente   i   caratteri   della   sedizione,   che    costituisce
 essenzialmente  un  reato collettivo, caratterizzato da ribellione ed
 ostilita' verso le autorita' militari, con scopo di sovversione".
    3.  -  Emerge  chiaramente  allora  che, secondo la relazione allo
 Schema di legge delega, si chiede al legislatore delegato di  rendere
 esplicito ed evidente, mediante espresso riferimento alla "ribellione
 ed ostilita' verso le autorita', a scopo di sovversione",  cio'  che,
 nell'attuale  frammentarieta'  degli articoli che vanno da 180 a 185,
 e' tuttavia implicito. Del resto,  anche  la  dottrina  specialistica
 tradizionale  considerava  le  ipotesi  criminose  contemplate  negli
 art.li 184 e 185 c.p.m.p.  come  "forme  complementari  di  sedizione
 militare", ed i lavori preparatori al progetto preliminare del codice
 attualmente vigente (n. 126) le definivano "pericolose manifestazioni
 collettive".
    Non  puo'  esservi,  quindi,  alcun  dubbio  che, nel pensiero del
 legislatore,  la  giustificazione  della  repressione  penale   delle
 "arbitrarie  adunanze  militari"  previste  dal  II co. dell'art. 184
 c.p.m.p. risiede proprio nel loro carattere ostile e  sedizioso  che,
 mentre  rappresenta  di  per  se stesso una lesione della disciplina,
 realizza  al  contempo  una  situazione  di  concreto  pericolo   nei
 confronti  dell'efficienza  dell'Istituzione  in  funzione  dei  fini
 costituzionali.
    Essendo,  percio',  certo,  da  quanto  fin qui s'e' detto, che il
 legislatore ha inteso  reprimere  con  la  sanzione  penale  adunanze
 arbitrarie  di  militari  a  carattere  sedizioso o rivoltoso, non e'
 possibile accogliere la richiesta di cancellare  la  fattispecie  dal
 codice   penale   militare  senza  lasciare  impunite  manifestazioni
 collettive  cariche  di  offensivita'  per  beni  giuridici  che   la
 Costituzione ha consacrato.
    Resta,  pero',  il  problema  sollevato  dall'ordinanza, giacche',
 nell'espressione letterale del dato testuale vengono ricomprese anche
 ipotesi che di quell'offensivita' sono prive, in quanto si presentano
 pacifiche e dirette a fini innocui che possono persino  possedere  un
 contenuto  positivo.  Ebbene,  in  tali  casi, da vagliarsi volta per
 volta dal giudice di merito nel contesto delle  concrete  circostanze
 in  cui  il  fatto  si svolge, la soluzione e' da ricercare sul piano
 interpretativo.  Per  il  quale  valgono  sia  l'evoluzione  generale
 dell'esperienza  giuridica  circa  taluni  principi  fondamentali del
 giure   penale   (esclusione   di   presunzioni   di   pericolosita',
 accertamento  dell'offensivita'  concreta di condotte tipiche etc..),
 sia la stessa giurisprudenza  di  questa  Corte  che  ha  legittimato
 talune situazioni che il codice penale militare incriminava.
    Cosi'  se  risulta  acclarato  che  la finalita' dell'adunanza non
 aveva carattere ostile, ma soltanto quello  di  discutere  iniziative
 comuni   dirette  a  rappresentare  ai  superiori  la  necessita'  di
 migliorare il rancio, appare evidente che, proprio nella  prospettiva
 di  cui  alla  citata  sentenza  n.  126 del 1985 di questa Corte, la
 liceita' penale dei fini si riverbera - come in tutte le riunioni  di
 cui   all'art.   17   della  Costituzione  -  nella  liceita'  stessa
 dell'adunanza.  Fermo  restando  ovviamente  l'illecito  disciplinare
 della  mancanza  di  autorizzazione a' sensi dell'art.30, co. II, del
 Regolamento di disciplina.
    Del  resto, non senza ragione, per l'art. 260, II co., c.p.m.p. la
 pena  comminata  e'  tale  da  far  dipendere  la  punibilita'  dalla
 richiesta  del  Comandante del Corpo: questi puo' cosi' esercitare un
 primo controllo sulla  natura  dell'adunanza,  sulla  quale  peraltro
 ovviamente  l'Autorita' giudiziaria militare e' chiamata ad esprimere
 il giudizio decisivo. Quando poi  il  nuovo  codice  penale  militare
 avra'  reso  espliciti,  in una rinnovata formulazione della norma, i
 connotati  del  delitto  di  "adunanza  arbitraria"  (giusta   quanto
 prescrive  la  citata  relazione  allo  schema di legge), gli attuali
 dubbi interpretativi non potranno piu' sorgere.