IL TRIBUNALE
   Ha  pronunciato  la  seguente  ordinanza  sul  ricorso  n.  557/86,
 proposto di Palombaro Rosa, rappresentata e  difesa  dall'avv.  Mauro
 Giansante  con  procura  a  margine  del  ricorso  e  con  lo  stesso
 domiciliato in Pescara, via Latina n. 7, contro l'Ente  nazionale  di
 previdenza  ed  assistenza  per  i dipendenti statali (E.N.P.A.S.) in
 persona del suo legale rappresentante  pro-tempore,  rappresentato  e
 difeso   dall'avvocatura   dello   Stato   per   l'annullamento   dei
 provvedimenti di liquidazione della indennita' di buonuscita (atto n.
 174277/1983  e mandato n. 8714 del 12 ottobre 1983) per L. 21.382.550
 (lordo L. 24.602.280), corrisposta alla  ricorrente  Palombaro  Rosa,
 insegnante elementare di ruolo, cessata dal servizio per dimissioni a
 far data dal 10 novembre 1983.
    Visto  il  ricorso con i relativi allegati, notificato il 1› marzo
 1986 e depositato il 18 luglio 1986;
    Visto  l'atto  di  costituzione  in giudizio dell'avvocatura dello
 Stato depositato il 23 luglio 1986;
    Viste  le memorie prodotte dalle parti a sostegno delle rispettive
 difese;
    Visti gli atti tutti della causa;
    Data  per  letta  alla  pubblica  udienza  del 15 dicembre 1988 la
 relazione del magistrato  Dino  Nazzaro  e  uditi,  altresi',  l'avv.
 Fernando  Di  Benedetto,  per delega da parte dell'avv. M. Giansante,
 per il ricorrente,  e  l'avv.  dello  Stato  Fabrizio  Foglietti  per
 l'amministrazione resistente;
    Ritenuto in fatto e considerato in diritto quanto segue;
                               F A T T O
    Parte  ricorrente  lamenta  che  l'E.N.P.A.S.,  nel procedere alla
 liquidazione dell'indennita' di  buonuscita,  non  ha  computato  nel
 calcolo l'indennita' integrativa speciale, che, se per un verso viene
 esclusa dalla legge 27 maggio 1959, n. 324, modificata dalla legge  3
 marzo 1960, n. 185, e dal successivo d.P.R. 29 dicembre 1973, n. 1032
 (art.  38),  e'  ormai   al   presente   diventata   elemento   della
 retribuzione,  assoggettato alla tassazione (d.P.R. 29 novembre 1974,
 n. 597) e che la legge 31 luglio 1975,  n.  364,  ha  accostato  alla
 contingenza  del  settore  privato  (T.A.R. Lazio, III, n. 382 del 24
 luglio 1984).
    Si  sostiene  inoltre  che  non  puo' ignorarsi la legge 29 maggio
 1982, n. 297, la quale ha inserito nella retribuzione tutto cio'  che
 viene corrisposto in dipendenza del rapporto di lavoro.
    In  base a tale prospettazione, parte ricorrente ritiene che tutta
 la  normativa  antecedente   deve   considerarsi   abrogata   e   gli
 competerebbe,   pertanto,   una  diversa  e  maggiore  indennita'  di
 buonuscita, comprensiva dell'indennita' integrativa speciale.
    Conclusivamente  si chiede l'annullamento degli atti impugnati con
 declaratoria   del   diritto   ad    ottenere    la    riliquidazione
 dell'indennita'  di  buonuscita, calcolata sulla base dello stipendio
 annuo complessivo, ivi compresa la I.I.S., percepito al  9  settembre
 1983, data di cessazione dal servizio.
    L'avvocatura  dello  Stato  resiste  con  memoria depositata il 1›
 dicembre 1988, chiedendo il rigetto del  ricorso  in  conformita'  di
 altra  recente decisione del tribunale (t.a.r. L'Aquila n. 313 del 21
 luglio 1988), essendo la I.I.S. un compenso accessorio e sussidiario,
 non computabile ai fini previdenziali (legge 29 aprile 1976, n. 177 e
 legge 3 giugno 1975, n. 160) e  considerato  che  la  sentenza  della
 Corte  costituzionale  n.  220/1988 ha ritenuta la materia rientrante
 nella discrezionalita' del legislatore.
    Si  conclude, pertanto, per il rigetto del ricorso con vittoria di
 spese.
    Alla  pubblica udienza la causa e' stata ritenuta per la decisione
 su conforme istanza di parte.
                             D I R I T T O
    Nell'affrontare  la  vexata  quaestio  della computabilita' o meno
 dell'indennita'  integrativa  speciale  nel  quantum  retributivo  da
 considerare  ai  fini  del  calcolo  dell'indennita' di buonuscita da
 parte dell'E.N.P.A.S. (Ente nazionale di previdenza ed assistenza per
 i  dipendenti  statali), questo tribunale, se non puo', per un verso,
 ignorare la  posizione  negativa  assunta  dalla  giurisprudenza  del
 Consiglio di Stato (VI, 5 ottobre 1984, n. 597; 26 settembre 1985, n.
 475;  18  novembre  1985,  n.  602),  fedele  interprete   del   dato
 legislativo  (art.  1  della  legge  27 maggio 1959, n. 324), non e',
 parimente, insensibile  alle  esigenze  di  equita'  e  di  giustizia
 prospettate  da  parte ricorrente, le quali hanno una loro intrinseca
 logicita' e ragionevolezza e meriterebbero  un  sicuro  accoglimento,
 giacche'  l'interpretazione  evolutiva  della natura e della funzione
 dell'I.I.S., conforme al  diritto  vivente  ed  in  comparazione  con
 analoghi istituti, ha ormai configurata la stessa come elemento della
 retribuzione, proprio in virtu' della "vitalita' normativa" dell'art.
 36,  primo  comma della Costituzione, il quale statuisce il principio
 della retribuzione "in ogni caso sufficiente ad assicurare  a  se'  e
 alla  famiglia  un'esistenza  libera  e dignitosa" e, per cio' stesso
 "costantemente adeguata" nel tempo.
    E'  a tutti noto come in forza di tale norma costituzionale, vi e'
 stata un'elaborazione giurisprudenziale del concetto di  retribuzione
 dotato di "particolare capacita' espansiva" e tale da attrarre in se'
 tutte le erogazioni effettuate in costanza del rapporto di lavoro. La
 stessa giurisprudenza amministrativa, dopo un'iniziale resistenza, ha
 ormai riconosciuta l'immediata e diretta operativita'  del  principio
 della  "retribuzione sufficiente" (S.c. Ad. Pl. 13 maggio 1966, n. 11
 e VI, 28 settembre 1971, n. 701) al rapporto di  pubblico  impiego  e
 cio'  e' stato possibile in virtu' dei precisi interventi della Corte
 costituzionale (sentenza 22 giugno 1963, n. 105, e 13  gennaio  1966,
 n. 3).
    Appare,   pertanto,   conseguenziale,  come  l'I.I.S.,  avendo  la
 funzione di "adeguamento al costo della vita",  abbia  ormai  assunta
 una posizione di "rilevanza costituzionale" nell'ambito del complesso
 retributivo e come  essa  non  possa  essere  relegata  in  posizione
 accessoria  o  sussidiaria,  tale  da  essere  pretermessa in sede di
 determinazione della liquidazione di  fine  rapporto,  sia  che  tale
 indennita'  abbia  natura  previdenziale  o  natura  retributiva.  Ed
 invero, nell'una e nell'altra ipotesi, la I.I.S. trova pieno titolo a
 vedersi  computare  nel  quantum retributivo, perche', in quanto voce
 stipendiale assoggetata a contribuzione, costituisce  comunque  o  il
 parametro  di determinazione della prestazione previdenziale finale o
 "elemento frazionale", della retribuzione differita.
    La  legge  27  maggio  1959,  n. 324, nel prevedere "miglioramenti
 economici al personale statale in attivita' ed in quiescenza",  viene
 ad  attribuire,  a  decorrere  dal  1›  luglio  1959, "una indennita'
 integrativa speciale mensile"  che  successivamente  (legge  3  marzo
 1960,  n.  185)  si  afferma essere non "computabile agli effetti del
 trattamento  di  quiescenza,  di  previdenza  e  dell'indennita'   di
 licenziamento  (art.  1,  lett.  b),  nonche'  "esente  da  qualsiasi
 ritenuta comprese quelle erariali, non  concorrendo  alla  formazione
 del  reddito  complessivo ai fini dell'imposta complementare (art. 1,
 lett. c)".
    Con  legge  31  luglio  1975,  n. 364, la I.I.S. viene corrisposta
 anche "in aggiunta alla tredicesima mensilita'", assimilandosi  cosi'
 completamente  alle  altre voci stipendiali corrisposte mensilmente e
 per tredici  mensilita'.  Di  tale  circostanza  ne  prende  atto  il
 legislatore  che, con logica conseguenzialita', sottopone a "ritenute
 in  conto  entrate  Tesoro"   (contribuzione)   anche   "l'indennita'
 integrativa  speciale  di  cui  alla  legge 27 maggio 1959, n. 324, e
 successive  modificazioni   ed   integrazioni,   compreso   l'importo
 corrisposto  sulla tredicesima mensilita' (art. 13, n. 5, della legge
 29 aprile 1976, n. 177),  la  quale,  poi,  viene  anche  considerata
 reddito in danaro percepito continuativamente e soggetto a tassazione
 (artt. 1 e 6 del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 597).
    Tali  sviluppi  normativi  non consentono piu', sul piano logico e
 razionale, di ritenere la base retributiva  come  un  quid  ingessato
 dall'art. 1, lett. b), della legge n. 324/1959 (come modificato dalla
 legge n. 185/1960), atteso che la "base  contributiva",  posta  quale
 parametro  dell'indennita'  di  buonuscita  (art.  3  del  d.P.R.  29
 dicembre 1973, n. 1032), si  e'  allargata  anche  alla  I.I.S.  Essa
 sembra  non  essere  prevista  neppure  dall'art.  38  del  d.P.R. n.
 1032/1973, ma,  per  gli  sviluppi  normativi  successivi  (legge  n.
 177/1976),  trovasi  ad essere automaticamente ricompresa nella "base
 contributiva" di cui al predetto art. 38 del d.P.R. n. 1032/1973, che
 al  secondo  comma contiene una "clausola di chiusura" allargata agli
 "assegni e le indennita' previsti dalla legge come utili ai fini  del
 trattamento previdenziale".
    Tale norma va letta necessariamente in coordinazione con l'art. 3,
 terzo  comma,  del  d.P.R.  29  dicembre  1973,  n.  1032,  il  quale
 stabilisce che "per la determinazione della base contributiva ai fini
 dell'applicazione del comma precedente (indennita'  per  dodicesimi),
 si  considera  l'ultimo  stipendio  e  l'ultima  paga  o retribuzione
 integralmente   percepiti",   ovvero   anche   la   I.I.S.   che   e'
 funzionalmente  e  concettualemte  assorbita nella retribuzione. Ma a
 tale corretta interpretazione "evolutiva" appare di ostacolo  propria
 la  norma  originaria  (art. 1), cosi' come modificata dalla legge n.
 185/1960, art. 1, lett. b), nonche' l'art.  38,  secondo  comma,  che
 sembra voler riaffermare, attraverso l'inciso "le indennita' previste
 dalla legge e come utili ai fini del trattamento  previdenziale",  la
 validita'  e  la  vigenza  dell'art.  1,  terzo comma, della legge 27
 maggio 1959, n. 324, cosi' come sostituito  dall'art.  1,  lett.  b),
 della  legge  3 marzo 1960, n. 185, dando un contenuto "ristretto" al
 concetto  di  "ultimo  stipendio  o  l'ultima  paga  o   retribuzione
 integralmente  percepiti",  cui  fa riferimento l'antecedente art. 3,
 terzo comma, dello stesso d.P.R. n. 1032/1973.
    Il  giudicante,  pertanto, se in adesione alla richiesta di parte,
 provvedesse a considerare implicitamente  abrogati  l'art.  1,  terzo
 comma,  della  legge  27  maggio 1959, n.324 (art. 1, lett. b), della
 legge 3 marzo 1960, n. 185) e l'art. 38 del d.P.R. 29 dicembre  1973,
 n. 1032, secondo comma, non farebbe allo stato una corretta attivita'
 ermeneutica, consentita dall'ordinamento, ma  verrebbe  a  cancellare
 due   norme   che   sono  ancora  valide,  anche  se  intrinsecamente
 irrazionali ed in palese contraddizione con altra  normativa  statale
 (legge  29  maggio  1982, n. 297, art. 1) e con il "diritto vivente",
 che si impone ad ogni altra  forma  di  legalismo  o  di  schematismo
 formale,   ancorato  alle  presunte  differenze  strutturali  tuttora
 esistenti tra "rapporto di diritto privato e il rapporto di lavoro di
 diritto   pubblico".  Essi,  infatti,  trovano  la  loro  sostanziale
 "unitarieta'"  nel  concetto  di  "lavoro"   presente   nella   Carta
 costituzionale,  la  quale  all'art.  1 fa del "lavoro" il fondamento
 della "Repubblica democratica" e strumento di coesione  etico-sociale
 tra tutti i cittadini, che, in quanto "lavoratori" (ovvero esplicanti
 una qualisiasi  "attivita'  o  funzione  che  concorra  al  progresso
 materiale  e  spirituale  della societa'" - art. 4 della Costituzione
 -), hanno garantiti  l'effettiva  partecipazione  "all'organizzazione
 politica, economica e sociale del Paese" (art. 3 della Costituzione).
    Va  ancora  ricordato che "la Repubblica tutela il lavoro in tutte
 le  sue  forme  ed  applicazioni"  (art.  35   della   Costituzione),
 garantendo  una "retribuzione proporzionata alla quantita' e qualita'
 del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a se' e  alla
 famiglia   un'esistenza   libera   e   dignitosa"   (art.   36  della
 Costituzione), che non puo'  non  essere  paritariamente  considerata
 anche   per  le  ipotesi  di  "cessazione  del  rapporto",  dovendosi
 escludere  artificiose  "limitazioni"  in  sede  di  liquidazione  di
 indennita' economiche, ancor piu' inconcepibili proprio nelle ipotesi
 di sussistente contribuzione da  parte  del  "dipendente".  Ne'  puo'
 ritenersi  che eventuali "differenziazioni" e "sperequazioni" a danno
 del "lavoratore pubblico"  siano  del  tutto  ininfluenti  sul  "buon
 andamento"  dell'amministrazione (art. 97 della Costituzione) o siano
 conciliabili con il dovere di "servizio esclusivo alla Nazione" (art.
 98 della Costituzione).
    Orbene  il  giudice amministrativo, al pari di tutti i giudici, e'
 soggetto "alla legge"  (art.  101  della  Costituzione)  e  non  puo'
 arrogarsi  funzioni  proprie  della Corte costituzionale, cancellando
 dall'ordinamento norme "censurate di illegittimita'" e ancora vigenti
 per  la  colpevole  inerzia del legislatore, insensibile ai moniti ed
 alle sollecitazioni della stessa Corte, la quale,  invero,  non  puo'
 non  aver rilevato come "la disciplina legislativa del trattamento di
 fine servizio dei dipendenti pubblici", se e' stata stralciata  dalla
 legge  29  maggio 1982, n. 297 (art. 4, sesto comma) per mere ragioni
 di "sistematica" (la legge infatti, e' venuta a sostituire  le  norme
 del  codice  civile)'  non  ha  alcuna giustificazione "ragionevole",
 atteso che lo stesso legislatore ordinario ha statuito  il  principio
 di "pari trattamento" per tutti i "rapporti di lavoro subordinato per
 i quali siano previste forme di indennita'  di  anzianita',  di  fine
 rapporto,  di  buonuscita,  comunque  denominate e da qualsiasi fonte
 disciplinate" (art. 4, comma quarto, della legge n. 297/1982).
    Era,  pertanto,  pensabile  che  il  legislatore  si  fosse voluto
 riservare la disciplina del  "settore  pubblico"  ad  altro  separato
 provvedimento  legislativo  "a  breve",  ma  cosi' non e' stato ed il
 dipendente pubblico trovasi costretto a "lottare per un suo  diritto"
 sperando    nella    interpretazione    adeguatrice    del    giudice
 amministrativo, cosi'  come  e'  gia'  avvenuto  per  l'altra  vexata
 quaestio   afferente   la   "svalutazione  monetaria",  ove  il  g.a.
 necessitate atque aequitate, e' stato costretto a superare lo  stesso
 decisum  della  Corte  costituzionale  in  merito all'art. 429, terzo
 comma, del c.p.c. (cosa  di  cui  la  Corte  ne  ha  preso  atto  con
 successiva  sentenza del 24 marzo 1986, n. 52), riconoscendo la forza
 del diritto vivente), attraverso un'interpretazione  analogica  e  di
 "pari   trattamento"   del   dipendente   pubblico  con  quanto  gia'
 beneficiava il collega del settore privato.
    Un analogo sforzo ermeneutico dovrebbe essere fatto dal g.a. anche
 per  la  "questione  buonuscita"  (cosi'  come  avvenuto,   pur   tra
 contrasti,  per  i  dipendenti degli enti pubblici disciplinati dalla
 legge n.  70/1975),  ma  appare  piu'  corretto,  anche  al  fine  di
 determinare  una  tranquilla  certezza  giuridica erga omnes, nonche'
 doveroso, dopo quanto gia' enunciato in merito  dalla  stessa  Corte,
 rimettere  la  questione  al supremo consesso dominus del giudizio di
 legittimita' della legge.
    Il  collegio,  invero,  non  ignora  che  la Corte con sentenza n.
 220/1988 (seguita da sentenza n. 408/1988 e ordinanza n. 869/1988) si
 e'   gia'   posta   la   presente   problematica,   concludendo   per
 l'inammissibilita' della questione di costituzionalita'  degli  artt.
 1, terzo comma, lett. b), della legge 27 maggio 1959, n. 324, e legge
 3 marzo 1960, n. 185, e 3 e 38 del d.P.R. 29 dicembre 1973, n.  1032,
 cosi'  come  modificati  dagli  artt.  7, primo comma, della legge 29
 aprile 1976, n. 177, e dalla legge  20  marzo  1980,  n.  75,  ma  e'
 proprio  la  lettura  di  tali  precedenti  che  porta  a ritenere la
 "sostanziale illegittimita' costituzionale della normativa  de  qua",
 anche  se,  nel  solco  della  tendenza,  non certo di valido apporto
 costruttivo ai fini della "certezza dei  diritti",  la  Corte  si  e'
 limitata  ad un monito al legislatore (o forse un invito-richiamo per
 una palese  dimenticanza  del  completamento  dell'opera  di  riforma
 dell'istituto  in parola, iniziato con la ormai gia' lontana legge n.
 297/1982, che partiva da premesse di sicura perequazione per tutti  i
 rapporti  subordinati)  il  quale  si  e'  ben  guardato dal dare una
 sollecita risposta  legislativa  "adeguata  alla  sete  di  giustizia
 presente  nel pubblico impiego", esponendo la stessa Corte a forme di
 "sentenze  suicide",  in  cui  all'espressa   "inammissibilita'"   fa
 riscontro   una   "convinta   incostituzionalita'   della   normativa
 medesima".
    Che   sia   cosi'  ne  e'  controprova  la  sentenza  della  Corte
 costituzionale n. 971/1988, afferente la c.d. destituzione di diritto
 a  seguito  di  condanna penale irrevocabile, senza la previsione del
 previo esperimento del procedimento disciplinare, ove la Corte,  dopo
 aver  con ordinanza 12 novembre 1987, n. 447 (richiamante la sentenza
 n.  270/1986)  dichiarata   la   manifesta   inammissibilita'   della
 questione,  con  l'invito  "fermamente ribadito" a che il legislatore
 "abbia a procedere in tempi brevi ad un'attenta riconsiderazione  dei
 valori e dei connessi problemi afferenti la disciplina della sanzione
 di cui trattasi", ha succcessivamente ritenuto di rompere gli  indugi
 e  provvedere per l'immediata declaratoria della illegittimita' della
 norma lesiva dei principi costituzionali, sussistendo "la  necessita'
 di  razionalizzare  il  sistema...  con  adeguamento  ai  criteri  di
 omogeneizzazione emergenti dalla legge-quadro  sul  pubblico  impiego
 (legge 29 marzo 1983, n. 93)".
    Con sentenza n. 220 dell'11-25 febbraio 1988, la Corte, preso atto
 che la I.I.S. in base agli artt. 46 e 48 del  d.P.R.  n.  597/1973  e
 art.  42  del  d.P.R.  n.  601/1973,  concorre  a  formare il reddito
 complessivo netto ai fini dell'applicazione dell'aliquota  e  "quindi
 assoggettata  ad  imposta  cosi'  cone  tutti  gli  altri  redditi di
 lavoro", nonche', in base all'art. 22 della legge 3 giugno  1975,  n.
 160,  che la stessa e' pure assoggettata "ai contributi assistenziali
 e previdenziali", ha focalizzata la sua  attenzione  sulla  legge  29
 maggio  1982,  n.  297  (art.  2120 del c.c., settore privato), sulla
 legge 20 marzo 1975, n. 70 (art. 13,  personale  enti  substatali)  e
 sulla  legge  7  luglio 1980, n. 299 (art. 3, dipendenti enti locali)
 "norme queste che prevedono tutte la computabilita',  nella  base  di
 calcolo   delle   indennita'  di  fine  rapporto  da  esse  regolate,
 rispettivamente  dell'indennita'  di  contingenza  e  dell'indennita'
 integrita' integrativa speciale".
    Cio'  posto la Corte, dato atto che gli artt. 3 e 38 del d.P.R. 29
 dicembre 1983, n. 1032, cosi'  come  modificati  dall'art.  7,  primo
 comma,  della  legge  29  aprile 1976, n. 177, e dalla legge 20 marzo
 1980, n. 75, non prevedono  la  indennita'  integrativa  nella  "base
 contributiva",  si  e'  limitata a riproporre, per quanto riferito al
 settore  privato,  la  tralatizia  differenziazione   strutturale   e
 funzionale  tra  rapporto  privato  e  rapporto  di diritto pubblico,
 comportando  quest'ultimo  l'esercizio  di   pubblici   poteri,   che
 renderebbero  improponibile un raffronto tra i predetti rapporti, pur
 ammettendo una "trasfusione  reciproca  di  principi  e  di  istituti
 garantistici".
    La   Corte,  peraltro,  ha  parlato  di  "non  compatibilita'  dei
 trattamenti di quiescenza, anche con riferimento alle  indennita'  di
 fine  rapporto",  in  quanto l'indennita' corrisposta dall'E.N.P.A.S.
 "differisce da ogni altra indennita'",  quale  l'indennita'  di  fine
 rapporto  dei  dipendenti  substatali  e  l'indennita' premio di fine
 servizio  dei  dipendenti   degli   enti   locali,   precisando   che
 l'attenuarsi   dei   requisiti   "piu'   propriamente   a   vocazione
 previdenziale, non fa venir meno  talune  caratteristiche  distintive
 dell'indennita'  di buonuscita erogata dall'E.N.P.A.S., rispetto alle
 indennita' di fine rapporto", sussistendo  "differenze  sostanziali",
 tra  cui  individua  "il  concorso  all'ammontare dell'indennita' dei
 contributi del pubblico  dipendente,  contributi  ai  quali  essa  e'
 proporzionata", mentre l'indennita' ex artt. 2120 del c.c. e 13 della
 legge n. 70/1975, sono collegate  ad  "accantonamenti"  proporzionati
 alla retribuzione.
    Ed  invero,  una  tale affermazione lascia fortemente perplesso il
 comune  cittadino,  in  quanto  proprio  perche'  c'e'   un   apporto
 contributivo  del dipendente, che si attua anche sulla I.I.S., non si
 comprende come mai  essa  possa  sfuggire  in  sede  di  liquidazione
 finale.   Tali   perplessita'   risultano   accentuate,   poi,  dalla
 circostanza, rilevata dalla stessa Corte, che ai sensi del d.P.R.  17
 settembre  1987,  n.  494, la I.I.S. va conglobata nello stipendio di
 tutto il  personale  statale  e  pubblico,  ragion  per  cui  non  si
 comprende  quale  "discrezionalita'  legislativa" possa essere ancora
 riconosciuta al legislatore, se  non  quella  di  abrogare  le  norme
 "ostative",  cosa che, invero, puo' ben fare la Corte costituzionale,
 se e' vero che "il sistema gia' soffre di sperequazioni  sostanziali"
 che  non  puo'  non  "condurre a valutazioni globali della normativa,
 che, sulla base dell'accentuazione del  carattere  irrazionale  delle
 singole  componenti",  conduce  ad "una valutazione di illegittimita'
 della normazione complessiva".
    Nella  specie  il tribunale amministrativo non viene a sollecitare
 un intervento "additivo", bensi' l'intervento decisorio  della  Corte
 su  una  questione  che  si  trascina da anni comprimendo i legittimi
 diritti patrimonali del "lavoratore dipendente pubblico", il  che  e'
 possibile  solo  con  la declaratoria di illegittimita' degli artt. 1
 della legge 27 maggio 1959, n. 324, e 3/38  del  d.P.R.  29  dicembre
 1973,  n.  1032.  Essa  del resto e' una possibilita' gia' ipotizzata
 nella sentenza n. 220/1988, e non piu' rinviabile, stante la completa
 latitanza del legislatore.
    La  Corte  costituzionale  non puo' usurare la propria funzione di
 "garanzia suprema" in una mera attivita' di  ammonimento-avvertimento
 al  legislatore,  ne' puo' trincerarsi su insussistenti situazioni di
 "discrezionalita' legislativa" (la sentenza n. 971/88 docet), pena la
 stessa  credibilita'  dell'istituto,  cui  tutti i cittadini guardano
 come unico elemento di "certezza" nell'ambito di un sistema normativo
 frammentario,  convulso e rimesso a spinte contingenti o corporative.
    Questo  tribunale  amministrativo,  pertanto,  non potendo directe
 considerare  superate   la   normativa   de   qua,   attraverso   una
 interpretazione-abrogazione  che,  per  quanto  giustificata, sarebbe
 poco  corretta  nei  confronti  del  sistema   costituzionale,   deve
 necessariamente sollevare l'eccezione di costituzionalita' posta come
 subordinata  da  parte  ricorrente,  essendo  la  stessa  sicuramente
 fondata  e rilevante ai fini decisori del ricorso medesimo, in quanto
 il giudicante, una  volta  caducata  la  normativa  ostativa,  potra'
 tranquillamente  dare  accoglimento  alla pretesa atto'rea, superando
 tutti i dubbi di correttezza interpretativa.
    La  normativa  censurata,  cosi'  come  esposta in motivazione, e'
 costituita dai seguenti articoli: art. 1,  terzo  comma,  lettera  b)
 della  legge  27  maggio  1959, n. 324, e legge 3 marzo 1960, n. 185;
 artt. 3/38 del d.P.R. 29 dicembre 1973, n. 1032 (t.u. avente forza di
 legge ai sensi art. 134, primo comma, Corte costituzionale), legge 29
 aprile 1976 (art. 7, primo comma), n. 177 e legge 20  marzo  1980  n.
 75,  per la parte in cui esclude, in deroga a quanto stabilito per il
 settore privato e per gli altri dipendenti  pubblici,  la  indennita'
 integrativa  speciale dal computo della base contributivo-retributiva
 da considerarsi ai fini della liquidazione della buonuscita,  ponendo
 "sperequazioni sostanziali" tra le diverse categorie di "lavoratori",
 accentuando  il  "carattere  di  irrazionalita'"  della   "normazione
 complessiva".  Gli articoli della Costituzione violati dalla predetta
 normativa   sono:   art.   1   della   Costituzione   che   tutelando
 "unitariamente" il lavoro non tollera situazioni di privilegio, quali
 quelle riservate al settore privato, ai dipendenti substatali e degli
 enti  locali,  che  hanno un trattamento economico di fine lavoro (la
 natura retributiva  o  previdenziale  non  incide  sul  carattere  di
 "attribuzione   patrimoniale   finale"   al  lavoratore  subordinato)
 irrazionalmente differenziato e piu' vantaggioso  rispetto  ai  "pari
 dipendenti  statali";  art.  4  della  Costituzione  che da' dignita'
 costituzionale a ogni tipo  di  attivita'  o  funzione  (materiale  e
 spirituale,   ma  anche  privata,  substatale  e  statale)  cui  deve
 corrispondere un pari trattamento di fine rapporto di lavoro,  al  di
 la'  delle  distinzioni  teoriche  sopra  evidenziate;  art.  3 della
 Costituzione,  quale  diretta  conseguenza  di  quanto  espresso   in
 relazione  agli artt. 1 e 4 della Costituzione e con riferimento alla
 "pari dignita' sociale" che oggi e' sentita anche (e fortemente)  sul
 piano  dei  trattamenti  patrimoniali  di  qualsivoglia tipo; art. 35
 della Costituzione in relazione all'art.  3  della  Costituzione,  in
 quanto  la  "tutela  del  lavoro" si attua anche sul piano della pari
 considerazione in sede di attribuzione di benefici economici di  pari
 valenza,  quali  sono  le  indennita' di fine rapporto; art. 36 della
 Costituzione in relazione all'art. 3 della Costituzione,  perche'  la
 retribuzione   "dovuta"   non   puo'  subire  "limitazioni"  di  tipo
 discriminatorio in  sede  di  applicazione  di  benefici  pur  sempre
 connessi  all'attivita'  lavorativa,  cui la retribuzione medesima e'
 proporzionata; art. 38 della Costituzione  in  relazione  all'art.  3
 della  Costituzione,  atteso  che  il  carattere previdenziale di una
 attribuzione   patrimoniale,   non   puo'   costituire   motivo    di
 "discriminazione  in  danno",  particolarmente  quando  sussiste  una
 contribuzione di parte; artt. 97 e 98 della Costituzione in relazione
 all'art.  3  della  Costituzione, in quanto il trattamento di sfavore
 del dipendente statale rispetto ai dipendenti privati  e  substatali,
 si   riflette  negativamente  sul  piano  della  efficienza  e  della
 funzionalita' della p.a., la quale, al fine  di  assicurare  il  buon
 andamento  e la imparzialita' della azione amministrativa, ha chiesto
 al proprio dipendente un "servizio esclusivo" che deve trovare  "pari
 valutazione"  in  sede  di  corresponsione  di  trattamenti economici
 equivalenti.
    Il  tribunale ritiene che la Corte ha gia' concesso un sufficiente
 spatium adeguandi al legislatore che, invero, non  puo'  invocare  in
 materia  alcuna  discrezionalita', attesa la unicita' del trattamento
 "di sfavore" del dipendente statale.
    Per contro il collegio nel richiedere l'intervento della Corte non
 pone problemi  di  "contemperamento  fra  interessi  contrastanti  ed
 ugualmente  meritevoli  di  tutela", tali da richiedere una pronuncia
 "additiva", ma desidera ottenere una pura e semplice declaratoria  di
 illegittimita'    costituzionale    della    normativa   "censurata",
 limitatamente  alla  parte  in  cui  esclude  la  I.I.S.  dalla  base
 contributiva-retributiva,  da  considerare ai fini della liquidazione
 della indennita' di buonuscita. Una volta cancellati gli articoli  de
 quibus,  si  determinerebbe una situazione di "uniformita' normativa"
 ed in sede di applicazione giudiziale non si porrebbero piu' problemi
 di  "equita'",  ma  vi  sarebbe  "certezza  giuridica"  per  tutti  i
 dipendenti-lavoratori.
    Tutto  cio'  premesso,  il tribunale, ritenuta la fondatezza della
 eccezione di incostituzionalita' e la sua rilevanza ai fini decisori,
 solleva  la  questione  di  costituzionalita'  nei  termini di cui in
 motivazione, con rimessione degli atti alla Corte  costituzionale  ai
 sensi  dell'art.  134  della  Costituzione,  legge  costituzionale  9
 novembre 1948 (art. 1) e art. 23 della legge 11 marzo 1953, n. 87.
    Sospende il proseguo del giudizio.