ha pronunciato la seguente
                                SENTENZA
 nel  giudizio  di legittimita' costituzionale degli artt. 2086, 2087,
 2095, 2099, 2103 del codice civile, promosso con ordinanza emessa  il
 18  novembre  1986  dal  Pretore  di  Napoli  nel procedimento civile
 vertente tra Martucci Aniello ed altri e la S.p.a. Alfa  Romeo  Auto,
 iscritta  al  n.  370  del registro ordinanze 1988 e pubblicata nella
 Gazzetta Ufficiale della  Repubblica  n.  37,  prima  serie  speciale
 dell'anno 1988.
    Visto  l'atto  di costituzione della S.p.a. Credito Italiano (gia'
 Alfa Romeo Auto) nonche' l'atto  di  intervento  del  Presidente  del
 Consiglio dei ministri;
    Udito  nell'udienza  pubblica  del  13  dicembre  1988  il Giudice
 relatore Francesco Greco;
    Uditi  gli  avv.ti  Arturo  Maresca  e Carlo Miletto per la S.p.a.
 Credito Italiano e l'Avvocato  dello  Stato  Giorgio  Zagari  per  il
 Presidente del Consiglio dei ministri.
                           Ritenuto in fatto
    1. - In un giudizio civile promosso da taluni dipendenti dell'Alfa
 Romeo, per ottenere l'inquadramento della quarta (in luogo che  nella
 terza)  categoria  retributiva (di cui al C.C.N.L. 16 luglio 1979 dei
 metalmeccanici), l'adito Pretore di Napoli, rilevato che i ricorrenti
 non   risultavano   adibiti  ad  attivita'  proprie  della  categoria
 rivendicata e pur tuttavia, nell'ambito di un  gruppo  integrato  non
 omogeneo  (Gino),  svolgevano  gli  stessi compiti assegnati ad altri
 lavoratori inquadrati nella predetta categoria  quarta,  ha  ritenuto
 rilevante  e  non  manifestamente  infondata,  onde ha sollevato, con
 ordinanza del 18 novembre 1986 (pervenuta  alla  Corte  il  5  luglio
 1988),  in  riferimento  all'art. 41 della Costituzione, questione di
 legittimita' costituzionale degli artt. 2086, 2087, 2095, 2096 e 2103
 del  codice civile "nella parte in cui consentono all'imprenditore di
 attribuire ai dipendenti,  a  parita'  di  mansioni  e  nello  stesso
 reparto,  diversi  livelli  o  categorie  generali  di  inquadramento
 retributivo".
    E  cio'  in contrasto con il principio di rispetto della "dignita'
 umana" del lavoratore. Nel quale, appunto, si rifletterebbe - secondo
 il  giudice  a quo - l'esigenza della "uguale retribuzione per uguale
 lavoro", "alla stregua dei valori  etici  e  politici  vigenti  nella
 societa',   desumibili   anche  dalle  scelte  normative  interne  ed
 internazionali, assunte ai vertici dello Stato".
    2.  - Nel giudizio innanzi alla Corte, si e' costituito il Credito
 Italiano  (nella  sua  qualita'  di  successore  per   incorporazione
 dell'Alfa  Romeo S.p.a.) eccependo l'inammissibilita' della questione
 per carenza di motivazione in ordine alla sua rilevanza nel  giudizio
 a  quo  (atteso  che  il  Pretore  avrebbe  omesso di valutare la pur
 decisiva circostanza che "gli altri dipendenti, di quarta  categoria,
 avevano ottenuto il correlativo inquadramento prima di essere adibiti
 allo stesso reparto in cui operavano i ricorrenti"). E, in subordine,
 ha contestato il fondamento dell'impugnativa.
    Analoga  conclusione di infondatezza della questione ha rassegnato
 anche l'Avvocatura per l'intervenuto  Presidente  del  Consiglio  dei
 ministri, all'uopo osservando:
     che   "l'eventuale   ed  ipotetica  situazione  svantaggiosa  del
 lavoratore dipende esclusivamente dall'autonomia dell'imprenditore  e
 dall'incontro  delle volonta' contrattuali e non invece dal complesso
 delle disposizioni denunziate, che, dal canto loro, consentono e  non
 vietano  (sono  cioe'  di  natura  ampliativa e non restrittiva della
 sfera giuridica dei destinatari) un diverso trattamento a parita'  di
 mansioni";
     che,  comunque,  non potrebbe farsi discendere dall'art. 41 della
 Costituzione il preteso divieto  all'attribuzione,  non  in  funzione
 discriminatoria,  di  diversi  livelli di inquadramento retributivo a
 parita' di  mansioni,  "atteso  che  la  tutela  della  dignita'  del
 lavoratore  non  postula  l'imposizione di una parita' di trattamento
 stipendiale".
                         Considerato in diritto
    1. - Il Pretore di Napoli dubita della legittimita' costituzionale
 degli artt. 2086, 2087, 2095, 2099,  2103  del  codice  civile  nella
 parte in cui consentono all'imprenditore di attribuire ai dipendenti,
 a parita' di  mansioni,  diversi  livelli  o  categorie  generali  di
 inquadramento  retributivo,  in quanto risulterebbe violato l'art. 41
 della  Costituzione  perche'  sarebbe  compresso   il   diritto   dei
 lavoratori  al  rispetto  della  loro dignita' umana, in ispregio dei
 limiti che il richiamato precetto costituzionale impone alla liberta'
 di iniziativa economica.
    2. - La questione non e' fondata.
    In  base  all'art.  2095  del  codice civile, nel testo sostituito
 dall'art. 1  della  legge  13  maggio  1985,  n.  190,  i  lavoratori
 subordinati  si classificano in quattro categorie: dirigenti, quadri,
 impiegati ed operai.
    Le  leggi speciali e i contratti collettivi (ora anche i contratti
 aziendali)  determinano  i  requisiti  di  appartenenza  alle   dette
 categorie  in  relazione  a  ciascun  ramo  della  produzione  e alla
 particolare struttura dell'impresa.
    Ma  la contrattazione collettiva, stabilendo i detti requisiti, ha
 creato, a volte, altre categorie (c.d. contrattuali) che  si  pongono
 accanto a quelle legali.
    Essa   e,  dopo  lo  Statuto  dei  lavoratori,  la  contrattazione
 aziendale, consentono di tenere  conto  delle  situazioni  aziendali,
 alcune  volte  complesse,  e  delle situazioni e delle condizioni dei
 lavoratori (eta', anzianita' di  lavoro  ecc...).  Sono  poste  anche
 delle tecniche di classificazione, quali le declaratorie generali, le
 definizioni  generali  delle  posizioni  dei  lavoratori,  i  profili
 professionali  ecc....  All'interno delle categorie, comunque, si da'
 rilievo precipuo, specie ai fini retributivi, alle mansioni svolte di
 fatto dal lavoratore, in base alle quali si determinano le qualifiche
 professionali ed ora i livelli retributivi.
    Ormai,  pero',  si  tende  a  superare  la  rigida  distinzione in
 categorie, ad avvicinare, per esempio, gli operai agli impiegati e ai
 quadri che hanno una posizione intermedia.
    Per  quanto  riguarda  le mansioni, l'art. 2103 del codice civile,
 sostituito dall'art. 13 della legge 20  maggio  1970,  n.  300  (c.d.
 Statuto  dei  lavoratori),  prevede l'obbligo del datore di lavoro di
 destinare il lavoratore alle mansioni per  cui  lo  ha  assunto  o  a
 mansioni  equivalenti,  senza,  pero', diminuzione di retribuzione, o
 alla categoria  superiore  successivamente  acquisita.  Sicche'  puo'
 affermarsi  che nella determinazione delle mansioni e dei conseguenti
 livelli retributivi, l'autonomia del datore  di  lavoro,  cui  spetta
 l'organizzazione  dell'azienda,  e'  fortemente  limitata  dal potere
 collettivo, ossia dai contratti collettivi e dai contratti aziendali.
    Tali   contratti,   quali   estrinsecazioni   del   potere   delle
 associazioni sindacali, sono  frutto  e  risultato  di  trattative  e
 patteggiamenti  e  costituiscono  una  regolamentazione  che,  in una
 determinata situazione di  mercato,  e'  il  punto  di  incontro,  di
 contemperamento  e  di  coordinamento  dei confliggenti interessi dei
 lavoratori e degli imprenditori.
    Ma  per  tutte  le  parti, anche quelle sociali, vige il dovere di
 rispettare  i  precetti  costituzionali.  Essi  assicurano,  in   via
 generale,   la  tutela  del  lavoro  (art.  35  della  Costituzione);
 l'elevazione   morale   e   professionale    dei    lavoratori;    la
 proporzionalita'  tra retribuzione e quantita' e qualita' di lavoro e
 la sufficienza, in ogni caso,  di  essa  perche'  sia  assicurata  al
 lavoratore  e  alla sua famiglia una esistenza libera e dignitosa; e,
 in via piu' specifica, la pari dignita' sociale anche dei lavoratori;
 pongono  il  divieto  di  effettuare  discriminazioni  per ragioni di
 sesso,  di  razza,  di  lingua  e  di   religione   (art.   3   della
 Costituzione),  anche  se  sono  tollerabili e possibili disparita' e
 differenziazioni di trattamento,  sempre  che  siano  giustificate  e
 comunque ragionevoli.
    Alla donna lavoratrice si devono assicurare gli stessi diritti dei
 lavoratori e, a parita' di lavoro, le stesse retribuzioni; i  minori,
 a parita' di lavoro, hanno diritto alla parita' di retribuzione (art.
 37 della Costituzione).
    I  principi  costituzionali  di tutela della dignita' sociale e di
 divieto  di  discriminazioni  nel  campo  del   lavoro   sono   stati
 testualmente trasfusi nello Statuto dei lavoratori.
    Gli  artt.  15  e  16  sanciscono espressamente il divieto di atti
 discriminatori,  ivi  compresi  i  trattamenti  di  maggior   favore,
 nell'impiego  del  lavoratore, nell'organizzazione del lavoro e nella
 gestione  del  rapporto  da   parte   del   datore   di   lavoro   e,
 specificamente, nell'assegnazione di qualifiche e mansioni.
    Il  datore  di lavoro deve astenersi dal compiere atti che possano
 produrre danni e svantaggi ai lavoratori, cioe' lesioni di  interessi
 economici,  professionali  e  sociali; in particolare, dell'interesse
 allo sviluppo professionale (riferito  sia  alla  carriera  che  alla
 valorizzazione delle relative capacita').
    La  vasta  serie di interessi dei quali e' portatore il lavoratore
 e' protetta anche per la sfera esterna all'azienda: sono protetti non
 solo  gli  interessi  di  natura  economico-professionale ma altresi'
 quelli personali e sociali.
    La   dignita'   sociale   del   lavoratore   e'   tutelata  contro
 discriminazioni  che  riguardano  non  solo  l'area  dei  diritti  di
 liberta'    e   l'attivita'   sindacale   finalizzata   all'obiettivo
 strumentale dell'autotutela  degli  interessi  collettivi,  ma  anche
 l'area  dei  diritti  di  liberta'  finalizzati  allo  sviluppo della
 personalita' morale e civile del lavoratore. La  dignita'  e'  intesa
 sia  in  senso  assoluto  che  relativo, cioe' per quanto riguarda la
 posizione  sociale  e  professionale  occupata  dal  cittadino  nella
 qualita' di prestatore di lavoro dipendente.
    Risulta  notevolmente  limitato  lo  ius  variandi  del  datore di
 lavoro, mentre, proprio in virtu' del precetto costituzionale di  cui
 all'art.   41   della   Costituzione,   il   potere   di   iniziativa
 dell'imprenditore  non   puo'   esprimersi   in   termini   di   pura
 discrezionalita'  o  addirittura di arbitrio, ma deve essere sorretto
 da una causa coerente con i principi fondamentali dell'ordinamento ed
 in  ispecie  non puo' svolgersi in contrasto con l'utilita' sociale o
 in modo da  recare  danno  alla  sicurezza,  alla  liberta'  ed  alla
 dignita' umana.
    Le  norme richiamate sono, peraltro, anche attuazione dei principi
 contenuti in vari atti e convenzioni internazionali.  E  cioe'  della
 Dichiarazione  dei  diritti  dell'uomo,  resa  esecutiva  con legge 4
 agosto  1955,   n.   848,   secondo   cui   ogni   individuo,   senza
 discriminazioni,  ha diritto a uguale retribuzione per uguale lavoro;
 della Convenzione  Generale  dell'Organizzazione  internazionale  del
 lavoro  del 6/22 giugno 1962, ratificata con legge 13 luglio 1966, n.
 657 (art. 14) secondo cui uno  degli  scopi  della  politica  sociale
 degli  Stati  stipulanti  o aderenti deve essere quella di sopprimere
 ogni discriminazione basata sulla razza,  il  colore,  il  sesso,  la
 fede,  l'appartenenza  ad  un  gruppo  tradizionale o alla iscrizione
 sindacale: e cio' con specifico riguardo, tra l'altro,  alla  materia
 dei   tassi   di  salario,  i  quali  dovranno  essere  stabiliti  in
 conformita' del principio "a lavoro uguale  salario  uguale"  in  uno
 stesso   processo   produttivo   ed   in   una   stessa  impresa;  e,
 all'identificazione di tale scopo, si aggiunge l'impegno ad  adottare
 ogni  misura  pratica  per  ridurre  tutte  le differenze retributive
 nascenti da discriminazioni del tipo  suddetto  ed  a  migliorare  il
 trattamento economico dei lavoratori meno retribuiti.
    Principi analoghi sono contenuti nel Patto internazionale relativo
 ai diritti economici sociali e culturali, adottato a New York il 16 e
 19  dicembre  1966,  ratificato  dall'Italia  con la legge 25 ottobre
 1977, n. 881, secondo cui al lavoratore  deve  essere  assicurato  un
 salario equo ed una remunerazione eguale per lavoro di valore eguale,
 senza alcuna distinzione.
    E'   demandato   al   giudice   l'accertamento   e   il  controllo
 dell'inquadramento dei  lavoratori  nelle  categorie  e  nei  livelli
 retributivi   in   base  alle  mansioni  effettivamente  svolte,  con
 osservanza della regolamentazione apprestata  sia  dalla  legge,  sia
 dalla  contrattazione  collettiva ed aziendale, e con il rispetto dei
 richiamati precetti  costituzionali  e  dei  principi  posti  in  via
 generale  dall'ordinamento  giuridico  vigente,  ispirato, come si e'
 detto, anche ai principi contenuti nelle  convenzioni  e  negli  atti
 internazionali  regolarmente  ratificati.  Il giudice deve provvedere
 alle necessarie verifiche ed ha il  potere  di  correggere  eventuali
 errori,   piu'   o  meno  volontari,  perche'  il  lavoratore  riceva
 l'inquadramento che gli spetta nella categoria o nel livello  cui  ha
 diritto.