ha pronunciato la seguente
                                SENTENZA
 nel  giudizio  di  legittimita'  costituzionale dell'art. 21, settimo
 comma, della legge 28 febbraio 1987, n. 56 (Norme sull'organizzazione
 del  mercato  del  lavoro), promosso con ordinanza emessa il 19 marzo
 1988 dal Pretore di Milano,  nel  procedimento  civile  vertente  tra
 D'Angella  Luigia  e  Maglificio Mia, iscritta al n. 377 del registro
 ordinanze 1988 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica
 n. 38, prima serie speciale, dell'anno 1988;
    Visto  l'atto  di  intervento  del  Presidente  del  Consiglio dei
 ministri;
    Udito  nella  camera  di  consiglio del 25 gennaio 1989 il Giudice
 relatore Ugo Spagnoli;
                           Ritenuto in fatto
    1.  - In un giudizio vertente sulla legittimita' del licenziamento
 di un apprendista da parte di  una  ditta  che,  non  computando  gli
 apprendisti  nella  forza  lavoro,  all'epoca  impiegata, non avrebbe
 raggiunto  il  requisito  dimensionale  minimo  (15  dipendenti)  per
 l'applicabilita'   della   invocata   normativa   sui   licenziamenti
 individuali, l'adi'to Pretore di Milano, con ordinanza del  19  marzo
 1988,  ha  sollevato,  in  riferimento all'art. 3 Cost., questione di
 legittimita' costituzionale dell'art. 21, settimo comma, della  legge
 28  febbraio  1987,  n. 56 (Norme sull'organizzazione del mercato del
 lavoro), nella "parte in cui prevede che  i  lavoratori  assunti  con
 contratto  di  apprendistato  non  rientrino  nel  computo dei limiti
 numerici previsti ex lege per l'applicazione di particolari normative
 ed  istituti,  senza escludere dalla deroga i limiti numerici che, ex
 art. 11 legge 15  luglio  1966,  n.  604  ed  ex  art.  35  legge  20
 maggio1970,  n.  300 condizionano l'applicabilita' delle disposizioni
 limitative dei licenziamenti individuali e di tutela dei  lavoratori,
 licenziati in violazione di detta disciplina".
    Il  giudice  a  quo  muove dal presupposto per cui le "particolari
 normative ed istituti" cui fa riferimento la  disposizione  impugnata
 ricomprendono la disciplina limitativa dei licenziamenti individuali,
 giacche' tale e' stata l'interpretazione  di  gran  lunga  prevalente
 rispetto  all'analoga  norma  dettata per i contratti di formazione e
 lavoro dall'art. 3, decimo comma, del decreto-legge 30 ottobre  1984,
 n. 726.
    Della  suddetta  disposizione  il  Pretore  contesta  peraltro  la
 razionalita', osservando che la differenziazione nella disciplina dei
 licenziamenti  in  tanto  e'  stata ritenuta giustificata dalla Corte
 (sentenze nn. 81 del 1969 e 55 del 1974),  in  quanto  la  componente
 numerica  dei  dipendenti  e' indice della distinzione tra imprese di
 maggiori o minori dimensioni e percio' della loro  dimensione  socio-
 economica,  e  cio'  ha  riflessi  sul  modo di essere ed operare del
 lavoro organizzato.
 Con  la norma impugnata, viceversa, si introduce un limite ulteriore,
 non dimensionale, che consente a taluni datori di lavoro, che abbiano
 alle  proprie  dipendenze lo stesso numero di lavoratori (superiore a
 15 e/o a 35 lavoratori) di sottrarsi, a  differenza  di  altri,  alla
 disciplina dei licenziamenti di cui alla legge n. 604 del 1966 e allo
 Statuto  dei  lavoratori,  sol  perche'  a   comporre   tale   numero
 intervengono  lavoratori  assunti  con contratto di apprendistato: il
 che sarebbe tanto piu' grave in quanto,  essendo  possibile  assumere
 apprendisti  in  numero  pari al 100% dei lavoratori occupati (art. 1
 della legge n. 424 del 1968), si consente in tal  modo  il  raddoppio
 del  numero  complessivo dei dipendenti rispetto a quello in generale
 stabilito per la recedibilita' ad nutum.
    Tale  discriminazione,  d'altra  parte  -  osserva il Pretore - si
 trasferisce direttamente sui prestatori  di  lavoro,  ripercuotendosi
 negativamente  sulla  stabilita'  del  posto di lavoro e sulla tutela
 legale ad essi apprestata. Ne' essa sarebbe giustificabile  sotto  il
 profilo   qualitativo,   data   l'assimilabilita'  dell'apprendistato
 all'ordinario  rapporto  di  lavoro   comunemente   affermata   dalla
 giurisprudenza,  anche costituzionale (sentenze nn. 14 del 1970 e 169
 del 1973).
    Il  giudice remittente nega, infine, che la disposizione impugnata
 possa  trovare  giustificazione  nell'intento  del   legislatore   di
 favorire  l'occupazione,  soprattutto  giovanile:  e  cio' sia per la
 diversa struttura del rapporto di apprendistato rispetto  alle  nuove
 figure  - quali i contratti di formazione e lavoro - introdotta dalla
 legislazione piu' recente; sia perche' l'agevolazione cosi'  prevista
 -  aggiuntiva  rispetto  ad  altre  che  gia' orientano la scelta dei
 lavoratori da assumere -  incide  direttamente  e  negativamente  sui
 rapporti  in  corso  e  sui diritti dei lavoratori gia' occupati, con
 effetti di oggettiva compressione ed insicurezza dell'occupazione che
 contraddicono quelli promozionali asseritamente perseguiti.
    2.  -  Il  Presidente  del Consiglio dei ministri, intervenuto nel
 giudizio a mezzo dell'Avvocatura  dello  Stato,  ha  chiesto  che  la
 questione sia dichiarata non fondata.
    A   suo   avviso,   l'individuazione  della  dimensione  rilevante
 dell'impresa ai fini della disciplina limitativa dei licenziamenti ed
 il  tenere  o  meno  conto a tali fini degli eventuali apprendisti e'
 espressione di una scelta discrezionale del legislatore. Tale  scelta
 -  finalizzata ad incentivare la formazione professionale dei giovani
 - non potrebbe nella specie definirsi irragionevole a  cagione  della
 ritenuta  assimilabilita' del rapporto di apprendistato all'ordinario
 rapporto di lavoro subordinato ai fini del riconoscimento di forme di
 protezione  del  lavoratore imposte da norme costituzionali (sentenze
 nn. 14 del 1970, 169 del 1973, 276 del 1988): e  cio'  in  quanto  il
 carattere   "speciale"  di  tale  rapporto  comporta  specificita'  e
 limitazioni dell'apporto lavorativo dell'apprendista  (strumentalita'
 dell'opera  all'addestramento,  computo  nell'orario del tempo a cio'
 dedicato, "costo  del  lavoro"  ecc.)  che  non  sarebbero  prive  di
 incidenza sulla struttura organizzativa ed operativa dell'impresa.
    Di  conseguenza, sarebbe diversa la situazione dell'imprenditore a
 seconda che occupi apprendisti, o meno.
    Del    resto,    osserva    l'interveniente,   una   diversificata
 considerazione degli apprendisti gia' si rinviene nella normativa sui
 limiti  dimensionali  dell'impresa  artigiana, ed una norma analoga a
 quella impugnata e' dettata in tema  di  contratto  di  formazione  e
 lavoro, funzionalmente analogo a quello di apprendistato.
                         Considerato in diritto
    1.  -  Con  l'ordinanza indicata in epigrafe, il Pretore di Milano
 dubita,  in  riferimento  all'art.  3   Cost.,   della   legittimita'
 costituzionale dell'ultimo comma dell'art. 21 della legge 28 febbraio
 1987, n. 56, il quale dispone che "i lavoratori assunti con contratto
 di  apprendistato  sono  esclusi  dal  computo  dei  limiti  numerici
 previsti da leggi e contratti collettivi di lavoro per l'applicazione
 di  particolari  normative ed istituti, fermo restando per il settore
 artigiano quanto disposto dall'articolo 4 della legge 8 agosto  1985,
 n. 443".
    Tra  tali  "particolari  normative  ed istituti", il giudice a quo
 considera, in particolare, quelle di cui agli artt. 11 della legge 15
 luglio  1966, n. 604 e 35 della legge 20 maggio 1970, n. 300 (Statuto
 dei  diritti  dei   lavoratori),   che   -   in   quanto   correlati,
 rispettivamente,  all'art. 8 della prima ed all'art. 18 della seconda
 legge - condizionano l'applicabilita' della disciplina limitativa dei
 licenziamenti  ivi  prevista  all'essere  il  lavoratore  inserito in
 aziende con piu' di trentacinque, od unita' produttive  con  piu'  di
 quindici dipendenti: sicche' al di sotto di tali limiti numerici vige
 il regime del recesso ad  nutum  di  cui  all'art.  2118  del  codice
 civile.
    Alle  deroghe  cosi'  stabilite alla tutela contro i licenziamenti
 ingiustificati - osserva il giudice a quo - la disposizione impugnata
 ne   aggiunge  una  ulteriore,  non  piu'  fondata  sulla  dimensione
 socio-economica  delle  aziende  (od   unita'   produttive),   bensi'
 sull'inserimento  in  esse  di  lavoratori  assunti  con contratto di
 apprendistato, non computati nel calcolo sul superamento o  meno  dei
 predetti  limiti  numerici.  Cio',  a  suo  avviso,  da' luogo ad una
 duplice discriminazione:  innanzitutto,  tra  datori  di  lavoro  che
 occupino  un pari numero di dipendenti, superiore ai limiti indicati,
 che fruiscono o no della piu' favorevole  disciplina  sul  recesso  a
 seconda  che impieghino, o meno, degli apprendisti; in secondo luogo,
 tra lavoratori, che, pur se inseriti in aziende od unita'  produttive
 di  pari  dimensioni,  godono  o  no delle garanzie di stabilita' del
 posto  di  lavoro  a  seconda  che  tra  di  essi  vi  siano  o  meno
 apprendisti.
    Tali  discriminazioni,  secondo  il  Pretore  di  Milano, non sono
 giustificabili ne' con la specialita' del rapporto di  apprendistato,
 ne'  con  le  ragioni  poste  a  base  dei diversi regimi fondati sul
 criterio del numero dei dipendenti, ne' - infine - con le esigenze di
 sostegno dell'occupazione giovanile.
    2.   -   Contrariamente   a  quanto  sostiene  l'Avvocatura,  deve
 innanzitutto  convenirsi  col  giudice  a  quo  nel  rilievo  che  la
 disciplina  derogatoria  impugnata  non puo' giustificarsi in base al
 carattere "speciale" del rapporto di apprendistato.
    Analizzando,  nella  sentenza n. 14 del 1970, la struttura di tale
 istituto, quale disciplinato dalla legge  19  gennaio  1955,  n.  25,
 questa  Corte  ha  invero  rilevato  che "l'apprendistato e' definito
 "rapporto  di  lavoro"  sia  pure  speciale,   che   intercorre   tra
 l'apprendista  e  l'imprenditore  che  "ne  utilizza l'opera" (art. 2
 della legge) inserendolo, quindi,  nel  ciclo  produttivo.  Da  parte
 dell'apprendista,   sussiste  l'obbligo  di  collaborazione  mediante
 "prestazione   d'opera"   nonche'   subordinazione,   nel    rispetto
 dell'orario   di   lavoro   (artt.   10  e  12).  L'assunzione  degli
 apprendisti, che deve  avvenire  tramite  l'ufficio  di  collocamento
 (art.  3),  comporta,  da parte del datore di lavoro, l'obbligo della
 retribuzione, ossia del corrispettivo,  della  collaborazione,  anche
 durante  l'annuale  periodo di ferie (art. 11, lett. c ed e), nonche'
 l'applicazione delle norme sulla previdenza  ed  assistenza  sociale,
 compresi  gli assegni familiari (artt. 15 e 21 modificati dalla legge
 8 luglio 1956, n. 706)".
    "La  specialita'  del rapporto - precisa poi la sentenza - e' data
 dal fatto che il periodo di tirocinio deve  essere  dall'imprenditore
 utilizzato  anche  per  impartire  o  fare  impartire all'apprendista
 l'insegnamento necessario affinche'  diventi  lavoratore  qualificato
 (art.  2).  E'  questa  una causa del contratto che non si sovrappone
 all'altra riguardante la prestazione di lavoro, tanto da  assorbirla.
 Si  tratta  di  un  rapporto  complesso,  costituito da elementi che,
 componendosi, non perdono la loro individualita'".
    Tali  concetti sono stati dalla Corte esplicitamente ribaditi, nei
 medesimi termini, nella sentenza n. 169  del  1973:  sia  per  quanto
 concerne  il  rilievo  per  cui  la  causa  specializzante, afferente
 all'apprendimento, non assorbe quella ordinaria, sicche' il  rapporto
 consiste  pur  sempre,  essenzialmente,  nello  scambio tra attivita'
 lavorativa subordinata inserita nel ciclo produttivo e  retribuzione;
 sia,  e  conseguentemente,  per quanto attiene all'assimilabilita' di
 esso all'ordinario rapporto di lavoro. E' su tali basi che la  Corte,
 espungendo  dal  sistema  le  norme  che  la escludevano, ha statuito
 l'integrale applicabilita' agli apprendisti della  normativa  di  cui
 alla legge n. 604 del 1966, ivi compresi il diritto all'indennita' di
 anzianita' (sentenza n. 14 del 1970) e, soprattutto, la tutela contro
 i licenziamenti privi di giusta causa o giustificato motivo (sentenza
 n. 169 del 1973); ed e' sulle medesime basi che, piu' di recente,  ha
 ritenuto  l'integrale applicabilita' alle apprendiste della normativa
 di tutela delle lavoratrici madri di cui alla legge n. 1204 del  1971
 (sentenza n. 276 del 1988).
    La  specialita'  del rapporto di tirocinio non giustifica, dunque,
 una diminuita tutela degli apprendisti rispetto a  quella  apprestata
 per i lavoratori ordinari.
    Cio'  vale  soprattutto per gli istituti che attengono alla tutela
 della condizione del prestatore di  lavoro  come  tale,  al  rispetto
 della  sua  dignita' e alla formazione della sua personalita' e della
 sua professionalita'. E mette anzi conto di ricordare,  al  riguardo,
 che  proprio  l'esigenza  di  compiuta realizzazione della formazione
 professionale  ha  indotto  la  Corte  a  negare  legittimita'   alla
 normativa  che  consentiva all'imprenditore di "troncare ad libitum e
 senza un giustificato motivo" il rapporto,  con  cio'  "interrompendo
 l'insegnamento  o  l'addestramento  e  impedendo  arbitrariamente  il
 realizzarsi del fine cui e' indirizzato" (sentenza n. 169 cit.).
    3.  -  Se,  dunque,  la norma impugnata fosse considerata sotto il
 profilo del diniego di tutela dai licenziamenti illegittimi  che,  in
 ragione del loro mancato computo nei suindicati limiti numerici, essa
 comporta  per  gli  stessi  apprendisti,  essa   dovrebbe   ritenersi
 logicamente incompatibile con la necessita' di tale tutela, affermata
 da questa Corte per ragioni attinenti sia all'assimilazione  di  tale
 rapporto  di  lavoro  a  quello  ordinario,  sia  alla  sua specifica
 funzione di  formazione  professionale.  Ne'  ad  un  diverso  avviso
 potrebbero  indurre le considerazioni svolte dall'Avvocatura circa la
 riduzione dell'attivita'  lavorativa  che  consegue  alle  necessita'
 dell'apprendimento  (artt.  10  e  11 della legge n. 25 del 1955). La
 minore produttivita' dell'apprendista  e'  infatti  compensata  dalla
 riduzione  degli  oneri  per  retribuzione  e contributi assicurativi
 gravanti sul datore di lavoro (artt. 13, 22 e 32 legge cit.), sicche'
 essa  non  e'  idonea  a giustificare una condizione di privilegio di
 costui rispetto agli imprenditori che non  impiegano  apprendisti  in
 termini di liberta' di recesso.
    4.  -  E' noto, d'altra parte, che il criterio discretivo adottato
 dalla giurisprudenza della Corte di cassazione ai  fini  del  computo
 dei  limiti  numerici  in  esame  e' incentrato sulla reale struttura
 dell'organigramma  aziendale  disegnato  dall'imprenditore,  si'   da
 includervi    le   posizioni   di   lavoro   normalmente   necessarie
 all'andamento dell'apparato produttivo; e che, di conseguenza,  prima
 dell'entrata  in  vigore della disposizione impugnata si riteneva che
 gli apprendisti dovessero essere  computati,  in  quanto  normalmente
 inseriti  nel  ciclo produttivo dell'azienda (cfr. sentenza n. 14 del
 1970 cit., nonche' Cass., sez. lav., 9 settembre 1982, n. 4864).
   E'  percio'  esatto, sotto questo profilo, il rilievo del giudice a
 quo secondo cui con la norma impugnata e' stato introdotto,  ai  fini
 dell'applicabilita'  della  disciplina limitativa dei licenziamenti -
 nonche' del godimento dei diritti sindacali  di  cui  al  titolo  III
 dello Statuto dei lavoratori - un limite ulteriore e diverso rispetto
 a quelli posti con gli artt. 11 della legge n.  604  del  1966  e  35
 della legge n. 300 del 1970.
    Come questa Corte ha avuto modo di osservare occupandosi di queste
 ultime disposizioni (cfr., in particolare, le  sentenze  nn.  81  del
 1969, 55 del 1974 nonche' per tutte, riassuntivamente, la sentenza n.
 2 del 1986),  i  limiti  ivi  previsti  sono  di  tipo  dimensionale,
 attengono  cioe'  alla  dimensione  socio-economica  dell'azienda  od
 unita' produttiva, che assume  rilevanza  in  quanto  "la  componente
 numerica  ha riflessi sul modo di essere e di operare del rapporto di
 lavoro organizzato".
    Nel   ritenere   non   irragionevoli   le  differenziazioni  cosi'
 introdotte, la Corte ha riconosciuto rilievo a vari  elementi,  quali
 "il   criterio   della   fiduciarieta'   del   rapporto  di  lavoro",
 l'"opportunita' di non gravare  di  oneri  eccessivi  le  imprese  di
 modeste  dimensioni",  "l'esigenza  di salvaguardare la funzionalita'
 delle unita' produttive... con un minor numero  di  dipendenti  nelle
 quali   la   reintegrazione  nel  medesimo  ambiente  del  dipendente
 licenziato avrebbe potuto determinare il verificarsi di una  tensione
 nelle quotidiane relazioni umane e di lavoro" (sentenza n. 2 del 1986
 cit.).
    Ora,   l'ulteriore   criterio   discretivo   introdotto   con   la
 disposizione  impugnata  non  e'  piu'  incentrato  sulla  dimensione
 dell'azienda (od unita' produttiva), valutata alla stregua del numero
 complessivo  di  dipendenti  in  essa  normalmente  occupati,  bensi'
 fondato  su di una distinzione, nell'ambito di questi, tra lavoratori
 ordinari ed apprendisti, con esclusione dal computo di questi  ultimi
 e conseguente alterazione o meno - a seconda dei casi - degli effetti
 dell'applicazione delle disposizioni precedenti. La  variabile  cosi'
 introdotta  -  presenza  o meno di apprendisti, e numero di essi - ha
 rispetto a tali previsioni effetti distorsivi. Basti considerare,  al
 riguardo,  che  essendo  consentita  l'assunzione  di  un  numero  di
 apprendisti pari a quello complessivo delle maestranze  specializzate
 e  qualificate in servizio nell'azienda, (art. 1 della legge 2 aprile
 1968, n. 424) ove queste  siano  numerose  puo'  ben  darsi  che  sia
 superato  in  misura considerevole il tetto dei 35 dipendenti fissato
 dall'art. 11  della  legge  n.  604  del  1966  per  l'esonero  dalla
 disciplina  limitativa  dei  licenziamenti. Le gia' ricordate ragioni
 (modesta  capacita'  economica  dell'azienda,  elemento   fiduciario,
 tensioni   microambientali)   che   sorreggono  il  giudizio  di  non
 irragionevolezza delle norme fondate sul puro dato  dimensionale  non
 possono   percio'  essere  automaticamente  trasposte  rispetto  alla
 disposizione in esame,  ed  anzi  dovrebbero,  in  tal  caso,  essere
 oggetto di attenta riconsiderazione.
    5.  -  La  Corte  non ignora, ne' puo' certo sottovalutare, che la
 disposizione impugnata - a parte le  differenziazioni  che  introduce
 tra  titolari  di aziende di pari dimensione - incide su fondamentali
 strumenti  di  tutela  dei  lavoratori  (apprendisti  e   non)   che,
 concernendo  la  garanzia  di  stabilita' del posto di lavoro (contro
 licenziamenti ingiustificati) ed il godimento dei diritti  sindacali,
 costituiscono   la   traduzione  legislativa  di  specifici  precetti
 costituzionali (artt. 4, 35, 39).
    Occorre tuttavia considerare che essa si colloca in una fase nella
 quale sempre piu' acuto ed allarmante si e' manifestato  il  fenomeno
 della  disoccupazione,  ed  in  special  modo  di quella giovanile. A
 questa vera e propria piaga sociale il legislatore cerca da tempo  di
 porre rimedio, fin dalla legge sull'occupazione giovanile (n. 285 del
 1977) con cui fu sperimentato il contratto di formazione  e  poi  via
 via  mediante l'escogitazione di nuovi istituti, quali il contratto a
 termine con finalita' formative (art. 8 decreto-legge n. 17 del 1983,
 convertito  nella legge n. 79 del 1983) ed il contratto di formazione
 e lavoro (art. 3 decreto-legge n.  726  del  1984,  convertito  nella
 legge  n.  863  del 1984). Per invogliare le imprese ad assumere mano
 d'opera giovanile, il legislatore e' ricorso ad  incentivi  di  vario
 genere,  di  carattere  sia  finanziario  che normativo: e tra questi
 ultimi  spiccano,  oltre  alla  temporaneita'   dei   contratti,   la
 generalizzazione   della   possibilita'  di  chiamata  nominativa  e,
 appunto, l'esclusione degli assunti dal computo dei  limiti  numerici
 al  di  sotto  dei  quali  non  opera  la  normativa  di  tutela  sui
 licenziamenti ed i diritti sindacali.
    Con  l'art.  21  della  legge  n.  56  del 1987, tali deroghe alla
 normativa generale sono state estese  all'apprendistato  in  aggiunta
 alla  gia' prevista possibilita' di assunzione diretta per le imprese
 artigiane; e tra l'altro e' stata concessa anche la  possibilita'  di
 assumere  fino  a  tre  apprendisti  per  le  aziende  sprovviste  di
 lavoratori specializzati o qualificati.
    Con  tali  misure,  il  legislatore  ha  inteso dare nuovo impulso
 all'apprendistato  ed  incrementare  per  questa  via   l'occupazione
 giovanile,  soprattutto  nel  settore  artigiano ove esso ha maggiore
 ambito di applicazione. Si e'  cosi'  avuta  un'ulteriore  estensione
 dell'area  della  recedibilita'  incontrollata  e dell'esclusione dei
 diritti  sindacali  che  -  insieme  alla   chiamata   nominativa   -
 corrispondeva  a  diffuse  istanze  del  mondo imprenditoriale ed era
 stata  alla  base  della  consistente  diffusione  del  contratto  di
 formazione e lavoro.
    A  proposito  di tale ultimo contratto, questa Corte ha gia' avuto
 modo di rilevare che in esso la finalita' di costituire  rapporti  di
 lavoro  subordinato  per i giovani e' nettamente prevalente su quella
 formativa  (sentenza  n.  190  del  1987,  par.  11):   ed   a   tale
 caratterizzazione  si  ricollega la diffusa opinione secondo cui tale
 contratto e' stato in buona misura utilizzato come  equipollente  del
 rapporto  ordinario,  con  cio' consentendo alle imprese di sopperire
 con esso al normale ricambio e di rientrare al di  sotto  dei  citati
 limiti  numerici pur mantenendo intatta od aumentando la forza lavoro
 complessiva. Non  a  caso,  la  materia  e'  attualmente  oggetto  di
 riconsiderazione  in sede parlamentare (cfr. disegno di legge n. 3120
 Atti Camera, gia' approvato dal Senato il 3 agosto 1988) secondo  una
 logica  di  piu'  attento  equilibrio  tra istanze di flessibilita' e
 salvaguardia delle garanzie per i lavoratori.
    Rispetto  all'apprendistato,  l'esigenza  di evitare utilizzazioni
 distorte e garantire corretti equilibri tra i contrapposti  interessi
 ha  piu'  spiccato  rilievo:  sia  per  la  maggior  durata  di  tale
 contratto, che puo' arrivare fino a cinque  anni  (art.  21,  secondo
 comma, legge n. 56 del 1987) e percio' consentire una piu' prolungata
 deroga al regime generale in tema di garanzie per i licenziamenti  ed
 i  diritti  sindacali;  sia  per  le  specifiche  esigenze di evitare
 arbitrarie  interruzioni  dei  processi  di  apprendimento  in  corso
 (sentenza  n. 169 del 1973) e di tutelare adeguatamente la fase della
 formazione, anche  negli  aspetti  concernenti  la  personalita'  del
 giovane e la sua dignita' di lavoratore.
    Le   sovraespresse   considerazioni   conducono   a  non  ritenere
 arbitraria la scelta discrezionalmente operata dal legislatore con la
 norma  in  discussione  di incentivare l'apprendistato attraverso una
 restrizione dei comuni strumenti di garanzia per  i  lavoratori.  Nel
 bilanciamento degli interessi, e' ragionevole che, in presenza di una
 grave ed acuta crisi dell'occupazione giovanile e  nella  difficolta'
 di  reperire  in  tempi  rapidi  mezzi  d'intervento  diversi, si sia
 operato un sacrificio di meccanismi di tutela pur cosi' rilevanti.
    La  Corte  deve  tuttavia  ricordare  che - gia' a proposito delle
 restrizioni e discriminazioni fondate sulla  dimensione  dell'azienda
 od  unita'  produttiva  (artt. 11 legge n. 604 e 35 legge n. 300 gia'
 citate) - non manco' di rilevare che  "l'assetto  realizzato  risulta
 giustificato  essendo  ancora attuale la crisi economica che colpisce
 le imprese ed il paese e non essendo ancora sopite  le  tensioni  del
 mondo del lavoro e non essendo ancora risolti i nemerosi problemi": e
 che "Resta auspicabile che il legislatore, per le suddette imprese  -
 cioe'   per  quelle  per  le  quali  opera  il  recesso  ad  nutum  -
 nell'attuazione di una politica  sociale  ed  anche  in  adesione  ai
 principi   ed  alle  indicazioni  internazionali,  possa  nel  futuro
 introdurre la previsione di una giusta causa  o  di  un  giustificato
 motivo  a  base  del  licenziamento  dal  datore  di lavoro intimato"
 (sentenza n. 2 del 1986, par. 8).
    L'esigenza    di   non   obliterare   la   correlazione   tra   la
 straordinarieta' della situazione di fatto (massiccia  disoccupazione
 giovanile)  e  la  deroga  a fondamentali strumenti di garanzia per i
 lavoratori vale a maggior ragione rispetto alla norma in discussione,
 che  costituisce ampliamento di una deroga gia' esistente al generale
 principio d'uguaglianza e ad altri valori di rilievo  costituzionale.
    Percio'  il riconoscimento del carattere necessitato ed urgente di
 tale intervento in vista della  tutela  del  diritto  al  lavoro  dei
 giovani,  da  un  lato non puo' giustificare inerzie nella ricerca di
 altri strumenti che non  incidano  su  tali  valori,  dall'altro  non
 preclude  una  riconsiderazione  della questione ove il sacrificio di
 questi si protragga troppo a lungo, pur in presenza di  significative
 modificazioni della situazione considerata.
    In  questi  limiti,  la  questione sollevata dal Pretore di Milano
 deve essere dichiarata non fondata.