LA CORTE D'APPELLO
    Ha  pronunciato  la seguente ordinanza nella causa civile promossa
 in grado di appello con ricorso depositato il 5 ottobre 1988 e  posta
 in  decisione  alla udienza collegiale del 3 febbraio 1989 fra Vecchi
 Achille, elettivamente domiciliato in Milano, foro Bonaparte  n.  55,
 presso  lo  studio  dell'avv.  Livio  Natola,  che  lo  rappresenta e
 difende,  per  delega  a  margine  del  ricorso,  appellante,  contro
 Chiarini  Anna  Norma,  elettivamente domiciliata in Milano, corso di
 Porta Romana n. 118, presso lo studio dell'avv. Giovanna Chiara,  che
 la  rappresenta  e  difende  per  delega  a margine della comparsa di
 costituzione in appello, appellata,  con  l'intervento  del  p.m.  in
 persona  del  sostituto  procuratore  generale  della  Repubblica  di
 Milano, dott. Caliendo.
   Oggetto: separazione giudiziale coniugi.
    Il   tribunale   di  Monza  pronunciando,  con  sentenza  n.  1468
 pubblicata il 30 giugno 1988, sulla domanda proposta  da  Anna  Norma
 Chiarini:
      1)  ha  pronunciato  la  separazione  personale  di  Anna  Norma
 Chiarini e Achille Vecchi con addebito al marito;
      2)  ha affidato il figlio minore Marco alla madre con disciplina
 del diritto di visita;
      3) ha assegnato alla Chiarini la casa coniugale e gli arredi;
      4)  ha  attribuito  alla  Chiarini,  per  se' e per il minore un
 assegno mensile  di  L.  400.000,  con  rivalutazione  annuale  Istat
 secondo  gli  indici  di cui all'art. 150 delle disp. att. del c.p.c.
 oltre al 50% delle spese  straordinarie  occorrenti  per  il  minore,
 previa documentazione;
      5)    ha    ordinato    all'Amministrazione    delle   poste   e
 telecomunicazioni, datrice di lavoro del Vecchi il versamento diretto
 dell'assegno;
      6) ha condannato il Vecchi a pagare L. 68.000, quota dell'ultima
 rata del mutuo fondiario, L.  850.000  per  spese  dentistiche  e  L.
 228.000   per   spese  condominiali,  somme  tutte  anticipate  dalla
 Chiarini.
    Achille Vecchi e' stato condannato alle spese (L. 3.121.105).
    Contro  la  sentenza  notificata  il  29  luglio  1988 ha proposto
 appello Achille Vecchi, con ricorso depositato in  cancelleria  il  5
 ottobre  1988 e notificato il 2 novembre 1988, articolando la censura
 in quattro motivi.
    Con  i  motivi  uno e due ha contestato l'esistenza di un addebito
 lamentando altresi' la mancata  assunzione  della  prova  in  ragione
 della tardiva indicazione dei testi.
    Con   il   terzo  motivo  ha  osservato  che  il  tribunale  aveva
 impropriamente interpretato le risultanze, in particolare non tenendo
 conto  del  fatto  che  lo  stipendio della Chiarini (L. 921.756) nel
 febbraio 1988 era di poco inferiore a quello del marito (L. 1.150.000
 per tredici mensilita').
    Infine  con  il  quarto  motivo  si e' doluto della condanna delle
 spese.
    Anna  Norma Chiarini, costituitasi con comparsa in data 27 gennaio
 1989, ha eccepito preliminarmente l'inammissibilita' del  gravame  in
 ragione  del  fatto  che "il ricorso in camera di consiglio", proprio
 per il rito camerale adottato, avrebbe dovuto essere depositato entro
 dieci  giorni  dalla  comunicazione  o  dalla notificazione dell'atto
 impugnato secondo "le disposizioni comuni ai procedimenti  in  camera
 di consiglio" (art. 739, secondo comma, del c.p.c.).
    Tanto  premesso  in  ordine  allo  svolgimento  del  procedimento,
 ritiene  la  corte  di  dover  sollevare  d'ufficio  l'eccezione   di
 legittimita'   costituzionale   in   rapporto   all'art.   24   della
 Costituzione,  del  n.  12  dell'art.  4  della  legge  n.  898/1970,
 sostituito dall'art. 8 della legge n. 74/1987.
    Con  riferimento  a  quanto  esposto  in  narrativa  devono essere
 sottolineate le seguenti peculiarita' della fattispecie.
    La   sentenza  appellata  n.  1468/1988  e'  stata  notificata  al
 procuratore costituito il 29 luglio 1988, con la conseguenza che alla
 data  in  cui  e' stato depositato il ricorso nella cancelleria della
 Corte il 5 ottobre 1988 (pur tenuto conto del periodo di  sospensione
 previsto dalla legge 4-7 ottobre 1969, n. 742) era decorso il termine
 di dieci giorni previsto dall'art. 739, terzo comma, del c.p.c.
    Non era invece decorso il termine di trenta giorni per l'appello a
 norma degli artt. 325 e 326 del c.p.c., ma  anche  tale  termine  era
 scaduto quando, dopo il decreto presidenziale del 14 ottobre 1988, il
 ricorso ed il decreto sono stati notificati in data 2  novembre  1988
 al procuratore domiciliatario della controparte.
    In   tale   contesto  sembra  stagliarsi  una  illegittimita'  del
 dodicesimo comma dell'art. 4 della legge n. 898/1970, novellato dalla
 legge n. 74/1987.
    Tale  norma,  nel  prevedere che "l'appello e' deciso in camera di
 consiglio", sembra prefigurare una  diversita'  di  rito  nella  fase
 decisoria  del  gravame,  senza un razionale collegamento con la fase
 precedente, nella quale la parte esercita il diritto di impugnazione.
    Il  riferimento,  con  formula  riassuntiva  ed  in qualche misura
 ambigua, alla decisione da rendere in camera di consiglio, che e' poi
 la sede naturalmente deputata alle decisioni collegiali, sembra da un
 lato realizzare una assimilazione della fase decisoria al cosi' detto
 rito  camerale  e  d'altro  lato lascia immutato il tessuto normativo
 precedente ed in particolare le  disposizioni  generali  relative  al
 termine  di  impugnazione  degli  artt. 325 e 326 del c.p.c. oltre ai
 problemi correlati alla proposizione dell'appello incidentale.
    La  contraddizione  diviene  a  questo  punto  fondato sospetto di
 incostituzionalita' allorche', configurando una udienza in camera  di
 consiglio  senza  disciplinare  la fase della vocatio, priva la parte
 titolare del diritto di esercitare il  diritto  di  impugnazione  nei
 termini  previsti  dalla  legge,  cosi'  violando  l'area di garanzia
 processuale protetta dal primo e secondo  comma  dell'art.  24  della
 Costituzione.
    Se  e'  vero  infatti  che, anche successivamente alla novella del
 1987, il  mezzo  per  impugnare  la  sentenza  e'  rimasto  l'appello
 disciplinato dall'art. 339 e segg. del c.p.c. nei trenta giorni dalla
 notifica o nell'anno dal deposito della sentenza e se e'  altrettanto
 vero che la mancata previsione di uno strumento processuale idoneo ad
 investire direttamente il collegio della decisione del  gravame  (non
 prevedendo   il   nuovo   regime  una  fase  davanti  al  consigliere
 istruttore) impone di ricorrere allo  strumento  del  ricorso  e  del
 decreto presidenziale di fissazione dell'udienza collegiale, non puo'
 non concludersi che tale regolamentazione, stante i tempi tecnici che
 da  questa discendono, non solo prima la parte di una funzione piu' o
 meno  ampia  dei  termini  previsti  dalla  legge  processuale,   non
 modificati  dalle  norme in discussione, ma puo', come avvenuto nella
 fattispecie,  sacrificare  totalmente  il   diritto   della   stessa,
 allorche'  il  decreto  presidenziale intervenga dopo la scadenza del
 termine per l'appello.
    Per   le   esposte   ragioni,   la   denuncia   di  illegittimita'
 costituzionale  dell'art.  4,  n.  12,  della  legge   n.   898/1970,
 sostituito  dalla  legge n. 74/1987, in riferimento all'art. 24 della
 Costituzione, non appare manifestamente infondata.