ha pronunciato la seguente
                                SENTENZA
 nel  giudizio  di  legittimita'  costituzionale  dell'art.  52, comma
 primo,  della  legge  27  dicembre  1953,  n.  968  (Concessione   di
 indennizzi  e  contributi  per  i  danni  di  guerra),  promosso  con
 ordinanza emessa il 23 maggio 1988 dal T.A.R. del Lazio  sul  ricorso
 proposto  da  Mina  Carlo  ed  altro  contro il Ministero del Tesoro,
 iscritta al n. 678 del registro ordinanze  1988  e  pubblicata  nella
 Gazzetta  Ufficiale  della  Repubblica  n.  48, prima serie speciale,
 dell'anno 1988;
    Visto  l'atto  di  costituzione  di  Mina  Carlo ed altro, nonche'
 l'atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
    Udito  nell'udienza  pubblica del 7 marzo 1989 il Giudice relatore
 Ettore Gallo;
    Uditi  l'avvocato  Claudio  Schwarzenberg e l'Avvocato dello Stato
 Antonio Bruno per il Presidente del Consiglio dei ministri.
                           Ritenuto in fatto
    Con  ordinanza  23  maggio  1988  il  T.A.R.  del  Lazio sollevava
 questione di legittimita' costituzionale dell'art. 52,  primo  comma,
 della  legge  27  dicembre  1953, n. 968 (Concessione di indennizzi e
 contributi per i danni di guerra), in riferimento agli artt. 3 e  35,
 quarto comma, della Costituzione.
    Va   premesso  che  la  legge  in  parola  concede  contributi  di
 ricostruzione, oppure indennizzi, a cittadini  italiani  che  abbiano
 subi'to,  in dipendenza di un fatto di guerra, perdita, distruzione o
 danneggiamento di cose mobili o immobili.
    Rilevava,   pero',   il   Tribunale   rimettente  che  irrazionale
 trattamento discriminatorio sarebbe stato disposto, con gli artt.  51
 e  52, fra i danni subiti da cittadini italiani nel territorio libero
 di Trieste, in quelli gia' sottoposti alla sovranita' italiana, o  in
 Albania  (art. 51), e i danni riportati da cittadini all'estero (art.
 52).
    Infatti,  l'art.  52  della  legge  impone  a  questi  ultimi  una
 ulteriore condizione per poter fruire di  contributi  od  indennizzi,
 che non e' richiesta ai cittadini che hanno subi'to danni negli altri
 territori citati: richiede, cioe', residenza e domicilio in Italia al
 momento dell'entrata in vigore della legge (16 gennaio 1954).
    La questione sarebbe rilevante per uno dei due figli, eredi del de
 cuius danneggiato Luigi Mina, e precisamente per Carlo Mina,  che  al
 momento  dell'entrata  in  vigore  della  legge  non era residente in
 Italia. Va anche precisato che il padre, deceduto in Cina  nel  1946,
 era  titolare  a  Pechino di varie attivita' imprenditoriali e che, a
 causa degli eventi bellici verificatisi in quel Paese fra il  1943  e
 il 1945, aveva subi'to distruzioni e perdite per rilevante valore.
    Secondo l'ordinanza, la discriminatoria disposizione impugnata non
 solo viola manifestamente l'art. 3 della Costituzione,  ma  coinvolge
 altresi'  nella violazione il principio di tutela del lavoro italiano
 all'estero, previsto nell'art. 35, quarto comma, della  Costituzione.
    Il   Tribunale,  per  verita',  fa  cenno  anche,  senza  tuttavia
 insistervi, alla circostanza secondo cui nella specie risulta che  il
 Mina  Carlo  era  trattenuto  contro  la sua volonta' dalle autorita'
 cinesi all'epoca dell'entrata  in  vigore  della  legge:  impedimento
 rimosso,  pero', alla fine del 1955, senza che peraltro il ricorrente
 avesse mai piu' preso residenza in Italia.
    D'altra  parte,  l'ordinanza  polemizza  con  le  obbiezioni  rese
 dall'Avvocatura Generale dello Stato nel giudizio davanti al  T.A.R.,
 secondo  cui  la  legge ha inteso perseguire prevalentemente lo scopo
 della ricostruzione dell'economia del Paese, ragion per  cui  avrebbe
 preso  in considerazione soltanto gl'interessi nazionali e non quelli
 pertinenti a situazioni di cittadini  italiani  in  Paesi  stranieri.
 Secondo  il giudice a quo l'argomento non e' convincente, sia perche'
 i cittadini residenti nei territori  gia'  soggetti  alla  sovranita'
 dell'Italia  possono  ottenere,  a  domanda,  di  ricostruire il bene
 distrutto in quello stesso territorio, e sia  perche',  comunque,  il
 contributo  di  ricostruzione,  previsto anche per i danni subi'ti da
 cittadini  italiani  in  territorio  straniero,  e'  condizionato  al
 ripristino del bene perduto in territorio nazionale. Dal che dovrebbe
 dedursi che la pretesa finalita' della legge non e' inderogabile,  ed
 e'  affidata,  ad  ogni  modo,  a  condizioni diverse dall'obbligo di
 residenza alla data indicata.
    Del  resto,  secondo  il  T.A.R.,  non regge nemmeno la tesi di un
 particolare o giustificato favore che la legge abbia voluto accordare
 a cittadini nati o vissuti in territori che sono legati all'Italia da
 lunga tradizione storica, perche' gli interessi di  questi  cittadini
 avrebbero  gia' avuto dalla legge altri riconoscimenti preferenziali,
 come quello di un maggiore  coefficente  moltiplicatore  dell'entita'
 del  danno  valutata  al  30  agosto 1943. Mentre l'imposizione della
 denunciata ulteriore condizione,  limitata  ai  cittadini  che  hanno
 subi'to  danni  in territorio straniero, renderebbe la disuguaglianza
 eccessiva e, percio', non piu' giustificabile.
    Soggiunge  l'ordinanza,  peraltro,  che  il  secondo  parametro di
 riferimento, vale a dire il principio ex art. 35, quarto comma, della
 Costituzione,  che tutela il lavoro italiano all'estero, escluderebbe
 ogni  potere  del  legislatore  di  adottare  provvidenze  in   forme
 discriminatorie.
    2.  -  L'ordinanza  veniva  ritualmente  notificata,  comunicata e
 pubblicata, e si costituiva nel giudizio la parte privata Carlo Mina,
 rappresentata e difesa dal prof. avv. Claudio Schwarzenberg, il quale
 chiedeva l'accoglimento della sollevata questione, rimettendosi  alla
 motivazione dell'ordinanza del T.A.R.
    Interveniva  nel  giudizio  anche  il Presidente del Consiglio dei
 ministri, rappresentato  dall'Avvocatura  Generale  dello  Stato,  la
 quale  si  richiamava  innanzitutto  alla  sentenza n. 90 del 1971 di
 questa  Corte  che  ebbe  gia'  a  dichiarare  infondata  la   stessa
 questione.
    Secondo l'Avvocatura, la reintegrazione patrimoniale dei cittadini
 danneggiati  da  fatti  di  guerra,  pur  rispondendo  a   scopi   di
 solidarieta'  nazionale, e' tuttavia strumentale al fine di agevolare
 il loro reinserimento nel ciclo della vita economica e della  ripresa
 produttiva del Paese.
    La  condizione  del domicilio e della residenza in Italia, imposta
 ai cittadini  che  hanno  subi'to  danni  all'estero,  e'  quindi  in
 funzione  di  quella  scelta,  ed  e'  diretta ad ottenere, certo nei
 limiti di una presumibilita' di risultato, che le somme percepite non
 sieno  utilizzate  in  profitti  estranei alle finalita' della legge.
 Peraltro, a  tutti  costoro  e'  stata  data  ampia  possibilita'  di
 avvalersi  dell'art.  27 della legge 29 settembre 1967 n. 955, che ha
 sostanzialmente riaperto i termini per coloro che  fossero  residenti
 in  Italia  almeno  alla  data  di  entrata in vigore di quest'ultima
 legge.
    D'altra parte, se e' vero che un certo trattamento piu' favorevole
 e' stato riservato ai cittadini che subiscono  danni,  non  solo  nel
 territorio  metropolitano, ma anche in quelli che tali erano stati, o
 comunque sottoposti alla  sovranita'  italiana,  o  all'Italia  uniti
 attraverso  la persona del re (Albania), e' pur vero, pero', che esso
 non  puo'   considerarsi   ne'   arbitrario   ne'   irrazionale.   La
 giustificazione, infatti, sarebbe appunto nei particolari vincoli che
 legavano alla Patria questi ultimi cittadini, i quali o  vivevano  in
 allora  nel  territorio  stesso  dello  Stato, o ne avevano seguito e
 servito la politica di espansione nei territori delle colonie  o  nei
 territori  che  all'Italia  si  erano  legati attraverso strettissimi
 vincoli giuridici.
    Secondo   l'Avvocatura,   l'articolo   35,   ultimo  comma,  della
 Costituzione sarebbe poi  del  tutto  estraneo  al  caso  di  specie,
 perche'  si tratta di norma programmatica che non postula elargizioni
 di somme  a  favore  di  interessi  diversi  da  quelli  che  intende
 tutelare.
    Chiedeva,  percio',  l'Avvocatura  Generale che la questione fosse
 dichiarata inammissibile o infondata.
    3.   -   All'udienza,  il  difensore  di  parte  privata  svolgeva
 ampiamente le ragioni dell'ordinanza, sottolineando  in  particolare:
 che  la famiglia Mina fu perseguitata dai comunisti cinesi; che della
 legge n. 955 del 1967 il Mina non avrebbe potuto approfittare perche'
 questa  esige  anche  la qualita' di "profugo" che il Mina non poteva
 ottenere per mancanza del requisito dell'indigenza; che  la  sentenza
 n.  90  del  1971  di  questa  Corte  riguarda un caso diverso, e che
 comunque si tratterebbe  di  sentenza  sbagliata;  e  infine  che  la
 condizione  apposta dalla legge e' priva di senso comune in quanto il
 cittadino, residente al momento dell'entrata in  vigore  della  legge
 stessa, ben avrebbe potuto, riscossa l'indennita', migrare nuovamente
 subito dopo all'estero.
    Il  rappresentante dell'Avvocatura Generale confermava argomenti e
 conclusioni della memoria di costituzione.
                         Considerato in diritto
    1.   -  Sfrondata  dalle  considerazioni  ultronee,  la  sollevata
 questione prospetta in sostanza l'illegittimita' costituzionale della
 norma  impugnata, sostenendo l'arbitrarieta' e l'irrazionalita' della
 disposizione  che  subordina  la   concessione   di   contributo   di
 ricostruzione,  o  di  indennizzo,  al  cittadino  italiano che abbia
 subi'to danni all'estero per fatti di guerra, alla  condizione  della
 residenza  e  del domicilio in Italia al momento di entrata in vigore
 della legge.
    La   violazione  dell'art.  3  della  Costituzione  discenderebbe,
 secondo l'ordinanza, dal trattamento privilegiato che viene,  invece,
 elargito  ad  altri cittadini italiani che gli stessi danni, e per le
 stesse cause, hanno riportato  nel  territorio  metropolitano,  o  in
 quelli  gia' soggetti alla sovranita' italiana, o comunque all'Italia
 legati da vincoli particolari (Albania). A questi,  infatti,  non  e'
 imposta  la  detta  condizione  della  residenza, mentre vengono loro
 riconosciuti anche altri meno rilevanti vantaggi.
    Una siffatta situazione, peraltro, sarebbe anche incompatibile con
 il principio di cui all'art. 35, ultimo  comma,  della  Costituzione,
 che tutela il lavoro italiano all'estero.
    2. - La questione non e' fondata.
    Va  detto  subito,  intanto,  che  alcuna  rilevanza puo' avere la
 circostanza ricordata dall'ordinanza di rimessione,  secondo  cui  il
 Mina  sarebbe  stato  impossibilitato  a prendere residenza in Italia
 fino al momento dell'entrata in vigore della legge (16 gennaio  1954)
 perche' trattenuto forzatamente in Cina dal governo di quel Paese. Si
 tratterebbe, infatti, di circostanza  di  fatto,  che  la  parte  ben
 avrebbe  potuto far valere davanti al Giudice di merito come causa di
 forza maggiore, ma comunque  estranea  al  problema  di  legittimita'
 costituzionale sollevato.
    Quanto  alla questione, non sembra che la sentenza di questa Corte
 n. 90 del 1971 riguardi ipotesi diversa, ne' che essa  sia  inficiata
 da  alcun  errore. Non si tratta di caso diverso perche' anche quella
 specie riguardava un cittadino italiano che,  per  fatti  di  guerra,
 aveva  subi'to  danni  in Siria: ed infatti nessuno contestava - come
 qui non si  contesta  -  che  la  situazione  consentisse  sul  piano
 oggettivo  al  cittadino  di aspirare ad un indennizzo. Anche in quel
 caso, pero', come in questo, al momento dell'entrata in vigore  della
 legge il cittadino non aveva in Italia ne' residenza ne' domicilio.
    Ma  nemmeno e' ravvisabile nella detta sentenza errore giuridico o
 logico alcuno.
    3.  -  Va  ricordato  innanzitutto,  giusta  annosa  e consolidata
 giurisprudenza della Corte di Cassazione e del  Consiglio  di  Stato,
 che in questi casi la pretesa del cittadino non integra alcun diritto
 soggettivo, ma soltanto un interesse legittimo. Il diritto soggettivo
 sorge  dopo  la  liquidazione  del danno e riguarda esclusivamente il
 materiale conseguimento del controvalore.
    Si  tratta, dunque, di un beneficio che lo Stato discrezionalmente
 concede ai cittadini danneggiati da fatti di guerra, e che percio' e'
 ragionevole  debba essere condizionato e subordinato alle particolari
 finalita' generali che lo Stato intende perseguire.
    Orbene  che  - come ricordava la citata sentenza di questa Corte -
 tali finalita' d'interesse  generale  fossero  effettivamente  quelle
 concernenti  la  rianimazione  della  vita  economica e della ripresa
 produttiva del Paese,  prostrato  dalla  guerra,  risulta  sia  dalla
 relazione  Vanoni  al disegno di legge n. 2379 presentato alla Camera
 nel 1951 (ricordata dalla precedente sentenza),  sia  da  quella  del
 Ministro  del  Tesoro,  Gava,  al disegno di legge n. 230, presentato
 alla Camera nel 1953 nei sostanziali termini del precedente.
    "L'esigenza   fondamentale,   e   pertanto  la  nota  dominante  e
 preminente del progetto di legge - scriveva il Ministro Vanoni  -  e'
 la   ricostruzione   del   Paese":   e   proseguiva   rilevando   che
 "ricostruzione significa ripresa economica produttiva del Paese e non
 gia'   ripristino  puro  e  semplice  del  bene  distrutto",  talche'
 l'indennizzo veniva  concesso  "al  fine  di  reinserire  nella  vita
 economica  e  produttiva  del  Paese  tutti  i  cittadini che abbiano
 comunque sofferto danni dalla guerra". Per tal modo, si precisava  in
 altro  passo  che  "l'interesse  privato  viene,  cioe', assunto come
 strumento giuridico per la realizzazione dell'interesse pubblico".
    Parimenti  rilevava  la relazione Gava che "Il disegno di legge...
 si ispira a una duplice esigenza: dare  una  definitiva  sistemazione
 unitaria   e   organica   alla  complessa  materia...  e  attuare  la
 ricostruzione del Paese affidandola all'iniziativa privata,  mediante
 la  reintegrazione  patrimoniale del danno sofferto dal cittadino": e
 proseguiva: "l'interesse privato e', cioe', assunto nella legge quale
 strumento giuridico per la realizzazione del pubblico interesse".
    4.  -  Se  questo,  dunque,  e'  l'interesse pubblico generale che
 ispira la ratio della legge, la quale ad esso subordina e  condiziona
 l'interesse privato al ristoro dei danni, e' evidente che in siffatto
 contesto  debbono  essere  lette  e   interpetrate   le   particolari
 disposizioni che regolano i vari rapporti.
    In  altri  termini,  il problema che lo Stato doveva risolvere era
 quello di garentirsi, nei limiti del possibile,  che  i  vantaggi  da
 elargire  ai  privati  cittadini,  danneggiati  nei  beni da fatti di
 guerra, venissero effettivamente poi destinati alla ripresa economica
 e produttiva del Paese.
    Per  quanto  concerneva  i  contributi  di  ricostruzione dei beni
 immobili, la soluzione era abbastanza semplice. Fu imposto,  infatti,
 a   tutti  che  la  ricostruzione  dovesse  avvenire  sul  territorio
 nazionale,  e  sotto  la   vigilanza   tecnica   dell'Amministrazione
 competente,  e  si  dispose  che  il  pagamento  avvenisse  ad  opera
 ultimata. Per una certa eccezione a tale  sistema,  sara'  detto  fra
 poco.   Di   piu'   difficile  soluzione  era,  invece,  il  problema
 degl'indennizzi pecuniari.
    A  fronte  di  tali problemi, peraltro, la posizione dei cittadini
 danneggiati non era omogenea.
    C'era  innanzitutto quella dei cittadini che avevano subi'to danni
 nel territorio metropolitano, o nei territori  gia'  sottoposti  alla
 sovranita'  italiana,  o  comunque  in territori legati all'Italia da
 stretti vincoli giuridici. Si trattava di  cittadini  che  da  alcuni
 decenni  vivevano  in  terre  italiane  o  sotto  la  bandiera  e  le
 istituzioni dell'Italia, o infine in territori dove gli  insediamenti
 si  erano  verificati,  ed  erano  stati favoriti, a causa di stretti
 vincoli giuridici che legavano quelle terre all'Italia (Albania). Per
 tutti  costoro  era  ragionevole  la praesumptio hominis secondo cui,
 venendo meno la sovranita' e la protezione italiana a  seguito  della
 guerra  e  del  trattato  di  pace,  si  sarebbero ritirati sul suolo
 patrio, spesso anche per  sfuggire  a  persecuzioni  o  a  gravissime
 discriminazioni.
    In  tale  fondata prospettiva (in realta', largamente avveratasi),
 il  legislatore  non  ha  ritenuto  di  imporre  alcuna   particolare
 condizione  di garenzia, apparendo estremamente probabile che costoro
 avrebbero  impiegato  gli  indennizzi  per  il   loro   reinserimento
 nell'attivita'  economica  e  produttiva  del  Paese,  sotto  la  cui
 bandiera erano nati e vissuti e nel cui territorio si rifugiavano.
    Per  questi,  anzi, sciogliendo la riserva piu' sopra espressa, va
 ricordata l'eccezione che consentiva la ricostruzione degl'immobili -
 sempre,  pero',  a  domanda  e  a discrezione dello Stato - nel luogo
 stesso  dove  i  beni  erano   stati   distrutti.   Ma   quest'ultima
 disposizione  era  limitata  al  territorio  libero  di Trieste, alla
 Libia, all'Eritrea,  e  al  territorio  della  Somalia  lasciato  dai
 trattati   sotto  l'amministrazione  fiduciaria  italiana:  in  altre
 parole, a quelle zone o  sicuramente  italiane  (come  il  territorio
 libero  di Trieste, che ritorno' successivamente alla madrepatria), o
 dove gli insediamenti italiani si erano radicati da molti  decenni  e
 in  situazione  di  pacifica  integrazione,  in guisa che l'abbandono
 poteva  risultare  pregiudizievole   anche   agl'interessi   generali
 dell'Italia.
    5.  -  Ben  diversa,  invece,  era la situazione dei cittadini che
 avevano subi'to danni all'estero: vale a dire in  territori  che  non
 erano   mai   appartenuti   all'Italia,   ne'  erano  particolarmente
 all'Italia legati da stretti vincoli giuridici.  In  quelle  terre  i
 cittadini italiani si erano recati per autonoma determinazione, senza
 nemmeno  la  giustificazione  dell'espansione  del   Paese,   com'era
 avvenuto per le colonie e per il Dodecanneso.
    Per  di  piu' poi siffatte situazioni riguardavano prevalentemente
 danni subi'ti da cittadini italiani in altri Continenti  o  in  terre
 lontanissime,   giacche'  per  i  territori  europei,  o  per  quelli
 extraeuropei in consuetudine di rapporti  migratori,  si  applicavano
 speciali  accordi  o  convenzioni  internazionali, come espressamente
 risulta dalla riserva contenuta proprio nel denunciato art. 52, primo
 comma,  primo  inciso,  della  legge  impugnata.  Sicche'  non poteva
 esservi alcuna probabile prospettiva di rientro da parte di cittadini
 che da anni si erano insediati spontaneamente in terre lontane, fuori
 di ogni rapporto di sovranita'  o  di  diretta  protezione  da  parte
 dell'Italia,  e  vi avevano costituito imprese ed interessi del tutto
 estranei alle finalita' di ricostruzione del nostro Paese.
    Per   questi,  e'  parso  giusto  e  ragionevole  allo  Stato  non
 escluderli dai sostanziali benefici elargiti dalla legge,  ma  almeno
 condizionare  l'elargizione  ad  una presunzione di destinazione alle
 finalita' generali che s'appoggiasse, pero', su certezze  giuridiche,
 e  non soltanto su quelle di mero fatto come per i cittadini che alle
 sorti dell'Italia erano sempre rimasti affidati.
    Parve  opportuno  al  legislatore  ravvisare nella residenza e nel
 domicilio in Italia  di  tali  cittadini,  all'atto  dell'entrata  in
 vigore  della  legge, quella garenzia che rendeva piu' consistente la
 speranza   di   investimento   delle   elargizioni   ricevute   nella
 ricostruzione  economica  e  produttiva  del  Paese. Se colui che era
 emigrato in terre lontanissime, a circa  nove  anni  dalla  fine  del
 conflitto  non era ancora rientrato in Italia, era difficile ritenere
 che avrebbe qui' investito l'indennizzo per danni subi'ti laggiu'.
    La  condizione,  pertanto, non e' ne' arbitraria ne' irragionevole
 ed e' perfettamente  giustificato  che  non  sia  stata  apposta  per
 l'altra categoria di cittadini che versavano in situazione nettamente
 diversa.
    Che poi, quanto all'indennizzo, potesse verificarsi che, una volta
 incassato, taluno emigrasse all'estero, e' rischio  calcolato  e  non
 altrimenti  evitabile, se si voleva rispettare il principio di cui al
 secondo comma dell'art. 16 della Costituzione.
    6.  -  Assolutamente inconferente, infine, al caso di specie e' il
 pure invocato parametro di cui all'ultimo comma  dell'art.  35  della
 Costituzione.  Qui,  infatti,  si  verte  in  tema  di  contributi ed
 indennizzi per danni subi'ti da  cittadini  italiani  all'estero  nei
 loro beni mobili ed immobili, a causa di fatti bellici.
    L'ultimo  comma  dell'art. 35 della Costituzione, invece, inserito
 nel contesto dei  "Rapporti  economici",  si  riferisce  alla  tutela
 dell'attivita'  lavorativa dell'emigrante: nel senso dell'obbligo per
 la Repubblica di predisporre, da una parte, strumenti e organismi che
 facilitino  l'inserimento del lavoratore emigrante nel lavoro e nelle
 complessive situazioni di vita civile e sociale del Paese  straniero,
 e di intervenire, dall'altra, attraverso rapporti e convenzioni con i
 Paesi  di  immigrazione,  per  assicurare  al   lavoratore   italiano
 condizioni di reciprocita' negli istituti concernenti la previdenza e
 le assicurazioni sociali.