IL TRIBUNALE
    Ha  pronunciato  la  seguente ordinanza sulle istanze ed eccezioni
 delle parti.
                             O S S E R V A
    Vittorio  Emanuele  di  Savoia  nato a Napoli il 12 febbraio 1937,
 imputato nell'attuale procedimento del reato di diffamazione a  mezzo
 stampa in danno della parte civile costituita dott. Carlo Mastelloni,
 g. istruttore del tribunale di Venezia, e' figlio di Umberto  II,  re
 d'Italia  sino  all'esito  del  referendum  sulla forma istituzionale
 dello Stato.
    Nei   suoi   confronti   trova   pertanto   applicazione  la  XIII
 disposizione transitoria della Costituzione anche nella parte in  cui
 vieta  l'ingresso ed il soggiorno nel territorio nazionale agli ex re
 di Casa Savoia, alle loro consorti  ed  ai  loro  discendenti  maschi
 (secondo comma).
    Vittorio  Emanuele  di  Savoia  che  e'  venuto a conoscenza della
 fissazione del giudizio  direttissimo  che  lo  riguarda,  essendogli
 stato  notificato  il  18  novembre  1988  l'atto  di  citazione  nel
 domicilio eletto in Italia presso il difensore di fiducia, non si  e'
 presentato in giudizio.
    L'art.  497,  primo  comma, del c.p.p., nel testo modificato dalla
 legge 23 gennaio 1989, n. 22, stabilisce che quando l'imputato, anche
 se  detenuto,  non  si  presenta  all'udienza, ed e' provato o appare
 probabile che l'assenza  e'  dovuta  ad  assoluta  impossibilita'  di
 comparire  per  legittimo  impedimento,  il  giudice, salvo quanto e'
 disposto  dall'art.  88,  sospende  o  rinvia  anche   d'ufficio   il
 dibattimento,  prescrivendo  se  occorre  che  il  provvedimento  sia
 notificato all'imputato.
    L'art.  498  del  c.p.p. dispone, a sua volta, che, fuori dai casi
 previsti dal primo comma dell'art. 497, se l'imputato non si presenta
 all'udienza,  il  Presidente  da' lettura della relazione di notifica
 del decreto di  citazione  e  il  Giudice  procede  nella  contumacia
 dell'imputato medesimo, ove questi non abbia chiesto o consentito che
 il dibattimento si svolga in sua assenza.
    Se  non  puo'  procedersi  in  contumacia,  il  giudice  pronuncia
 ordinanza con la quale rinvia il dibattimento.
    L'ordinanza  dichiarativa della contumacia e' nulla se vi e' prova
 che l'assenza dell'imputato e' dovuta a legittimo  impedimento  (art.
 498, secondo comma, del c.p.p.).
    Nel  caso  di  specie, pertanto, la dichiarazione di contumacia di
 Vittorio  Emanuele  di  Savoia  sarebbe  atto  processuale  nullo   e
 invaliderebbe  il  giudizio  stesso,  in  quanto, in forza della XIII
 disposizione transitoria della Costituzione  (secondo  comma),  egli,
 essendogli   vietato   l'ingresso   nel   territorio   nazionale,  e'
 legittimamente  impedito  dal  presenziare  al  dibattimento  che  lo
 riguarda.
    Dottrina  e  giurisprudenza  concordano nel ritenere che il libero
 esercizio  da  parte  dell'imputato  della  facolta'  di  presenziare
 personalmente   al   dibattimento  e'  elemento  essenziale  del  suo
 inviolabile diritto ad una compiuta difesa in ogni stato e grado  del
 procedimento (art. 24, secondo comma, della Costituzione).
    Il  principio  e' di tale rilievo che la Corte costituzionale, con
 sentenza del 9 luglio 1974, n. 212,  ha  dichiarato  l'illegittimita'
 costituzionale  dell'art.  497, primo comma, del c.p.p. proprio nella
 parte  in  cui  non  prevede,  come   legittimo   impedimento   della
 comparizione in udienza, la detenzione all'estero dell'imputato.
    La  Corte  medesima, con la sentenza n. 213/1974, ha poi affermato
 che la presenza dell'imputato in udienza e' imposta non solo a tutela
 dei diritti della difesa, ma anche per la ricerca della verita'.
    I  suddetti  principi  sono stati confermati anche da piu' recenti
 pronuncie della Corte.
    La   Convenzione   per  la  salvaguardia  dei  diritti  dell'uomo,
 introdotta nel nostro ordinamento con legge 4 agosto  1955,  n.  848,
 all'art.  6,  n.  3,  stabilisce  che  ogni  accusato  ha  diritto di
 difendersi personalmente, oltre che a mezzo di un  difensore  di  sua
 scelta.
    L'assunto ha trovato specifica conferma nella sentenza della Corte
 costituzionale n. 109 del 23 aprile 1974 (citata dal difensore  della
 parte  civile  nelle  sue  deduzioni  scritte)  con la quale e' stata
 ritenuta non fondata -  in  riferimento  agli  artt.  3  e  24  della
 Costituzione  -  la  questione  di  legittimita' costituzionale degli
 artt.  150  e  151  del  regio  decreto  18  giugno  1931,  n.   773,
 limitatamente  all'ipotesi in cui lo straniero, espulso per motivi di
 ordine pubblico, debba rispondere in Italia di un reato, e  si  trovi
 ostacolato   nell'esercizio   del   suo   diritto   di  difesa  dalla
 subordinazione del suo rientro nel  territorio  dello  Stato  ad  una
 speciale autorizzazione da parte del Ministero dell'interno.
    La  Corte  ha  ritenuto, nel caso di specie, l'insussistenza della
 lesione del diritto di difesa, esprimendo l'avviso  che  la  p.a.,  a
 fronte  di  una  richiesta  dell'interessato  in  tal senso, non puo'
 esercitare alcun potere discrezionale e  deve  invece  ammettere  una
 tantum  lo  straniero  in  Italia,  al  solo  fine di consentirgli di
 presenziare al dibattimento, per esercitare la difesa personale.
    E', pertanto, legittima la deduzione che non e' ammesso nel nostro
 ordinamento lo svolgimento di un giudizio penale nei confronti di chi
 non  sia  in  condizione di comparire davanti al giudice italiano per
 difendersi.
    La  XIII  disposizione  transitoria  della  Costituzione  (secondo
 comma)  e',  dunque  l'ostacolo  che,  allo  stato,  impedisce   alla
 celebrazione  del  giudizio  nei  confronti  di  Vittorio Emanuele di
 Savoia.
    Tale   norma   trae  origine  da  esigenze  storiche  e  politiche
 all'epoca, l'Assemblea costituente avverti' come  essenziali  per  il
 mantenimento  della  democrazia  repubblicana;  si tratta di norma di
 grado e valore costituzionale.
    Cio'  importa  che  potrebbe  essere  rimossa  solo  da  una legge
 costituzionale sopravvenuta che,  adottato  il  procedimento  di  cui
 all'art. 138 della Costituzione, la abroghi.
    Orbene,  le  piu'  recenti disposizioni della Corte costituzionale
 (sentenza  n.  18/1982)  e  la  dottrina   costituzionalistica,   pur
 ammettendo  - a determinati fini - la possibilita' di una graduazione
 delle varie norme  costituzionali,  con  l'attribuire  ad  alcune  di
 queste  il  superiore  rango  di "principi supremi dell'ordinamento",
 negano l'ammissibilita' di un sindacato  di  costituzionalita'  sulla
 legge   fondamentale   (vertendo   semmai   il   dubbio  sulle  leggi
 costituzionali sopravvenute) con la sola eccezione  di  vizi  formali
 inerenti alla deliberazione di quest'ultima.
    E' questo uno dei principi cardine della gerarchia delle fonti del
 diritto vigente, che non pare al tribunale superabile.
    Il  divieto  di  ingresso  e  soggiorno nel territorio dello Stato
 imposto ai discendenti maschi di Casa  Savoia  si  presenta  peraltro
 come comando assoluto, non prevedendo eccezioni di sorta.
    Deve  pertanto  escludersi  che  una legge ordinaria, un ordine, o
 un'autorizzazione di qualsiasi autorita' statuale (anche  quella  del
 Governo  della  Repubblica,  in  analogia  al caso dello straniero in
 precedenza descritto) possano legittimamente consentire  qualsivoglia
 deroga al divieto.
    Va  disattesa,  percio', la tesi, prospettata in principalita' dal
 p.m. di udienza, di  rivolgere  un  interpello  alla  Presidenza  del
 Consiglio dei Ministri in tal senso.
    Il rimedio si paleserebbe in ogni caso come inefficace.
    La   ratio  che  ispira  la  XIII  disposizione  transitoria  dela
 Costituzione (in particolare  il  secondo  comma)  si  propone  -  in
 stretta  connessione  con l'art. 139 della Costituzione, che sancisce
 la non modificabilita' in perpetuo del nuovo ordine repubblicano - di
 precludere  senza  limiti  di  tempo  l'ingresso  e la permanenza nel
 territorio italiano di soggetti che  il  costituente  ha  considerato
 particolarmente  capaci, in quanto possibili pretendenti al trono, di
 divenire punto di riferimento di temute iniziative restauratrici.
    Il  Consiglio  di  Stato,  in  un parere reso di recente sul punto
 (Adunanza generale n. 31 del 10 dicembre 1987), ha ricordato come  la
 collocazione  della disposizione XIII fra le norme transitorie non fu
 dovuta al suo carattere provvisorio, ma venne giustificata, nel corso
 dei  lavori preparatori, con la natura singolare e non generale delle
 sue prescrizioni, che riguardavano esclusivamente singoli soggetti  e
 non direttamente l'intera collettivita'.
    La norma, per contro - come si e' visto - fu diretta attuazione di
 uno dei principi  fondamentali  dell'ordinamento  costituzionale:  il
 mantenimento della forma repubblicana di governo.
    L'obiettivo  di  difesa  del  sistema costituzionale delineato dal
 combinato disposto dagli artt. 139 e  XIII  disposizione  transitoria
 della  Costituzione induce il tribunale nella convinzione che non sia
 infondato l'orientamento  dottrinale  che  nella  disposizione  XIII,
 anziche'  riconoscere  una  autorottura  dell'ordine  costituzionale,
 individua una conferma del sistema stesso, che rappresenta una deroga
 consapevole  ad  alcuni  principi fondamentali (artt. 3, 16, 24, 41 e
 112 della Costituzione) intesa  a  prevenire  eventi  che  potrebbero
 mettere in discussione la esistenza della Costituzione.
    Di  identico  avviso  e'  stato  il  Consiglio di Stato nel parere
 appena citato, nel quale si  e'  sottolineato  come  la  disposizione
 XIII,  rivestendo  carattere  eccezionale, non e' suscettibile di una
 qualsiasi correzione interpretativa.
    Non  e'  consentito  al tribunale rilevare che il rispetto di tale
 precetto produce un'antinomia normativa, lesiva del diritto di difesa
 dell'imputato   (art.   24,   secondo   comma,  della  Costituzione);
 l'antinomia, infatti, per i motivi or ora esposti, appare come voluta
 dal costituente, a garanzia di superiori principi la cui salvaguardia
 e' ritenuta evidentemente di primaria e prevalente importanza.
    Una   questione   di   legittimita'   costituzionale   della  XIII
 disposizione transitoria, deve, pertanto, ritenersi improponibile.
    La  difesa  dell'imputato  ha  chiesto  in  via  principale che il
 tribunale pronunci, ai sensi dell'art. 152 del  c.p.p.,  sentenza  di
 non doversi procedere nei confronti di Vittorio Emanuele di Savoia in
 quanto  l'azione  penale  non  avrebbe  potuto  essere  iniziata  ne'
 proseguita.
    Il tribunale non puo' accogliere tale istanza.
    Non  e'  contestabile  che,  nel  caso  di  specie, ci si trovi in
 presenza di una stasi processuale non  superabile  con  gli  ordinari
 mezzi di procedura.
    Ma  la  stasi non e' stata determinata ne' da un erroneo esercizio
 dell'azione penale, ne' da un vizio dipendente dalla  inesistenza  di
 una  condizione  di  procedibilita' richiesta dalla legge processuale
 per la prosecuzione del giudizio a carico dell'imputato.
    Il  reato  contestato,  previsto  e  punito dagli artt. 595, terzo
 comma, e 13 della legge 8 febbraio 1948, n.  47  (e'  noto)  richiede
 necessariamente  la  trattazione  con  il rito direttissimo (art. 21,
 terzo comma, della legge citata).
    Il   p.m.  pertanto,  esclusa,  nel  caso  di  specie,  l'assoluta
 infondatezza  della  notitia   criminis,   non   sussistendo   alcuna
 necessita'  di  procedere - per esigenze di rito - all'interrogatorio
 dell'imputato, ha correttamente presentato quest'ultimo al tribunale,
 utilizzando la notifica del decreto di citazione nel domicilio da lui
 eletto.
    E'  stata  la  non  comparizione di Vittorio Emanuele di Savoia al
 dibattimento a creare il blocco dell'iter processuale, blocco che  si
 e'  concretato  nell'obbligo  del  tribunale di disporre reiterati ed
 indefiniti rinvii del processo  a  tempo  indeterminato  senza  poter
 conoscere  del  merito  della  causa, e senza mai poter dichiarare la
 contumacia, in costanza di un  legittimo  impedimento  dell'imputato,
 costituzionalmente sancito.
    La  singolare  stasi  assoluta  del giudizio non e', ad avviso del
 collegio, riconducibile ad una delle ipotesi previste  dall'art.  152
 del c.p.p.
    Le  cause  di  improcedibilita'  e  di  non  proseguibilita'  sono
 condizioni   tipiche   del   nostro   ordinamento   processuale   cui
 eccezionalmente   la   legge   subordina   il   promuovimento   o  il
 proseguimento dell'azione penale in deroga espressa al  principio  di
 obbligatorieta'  dell'azione  penale  (art.  112 della Costituzione),
 nonche' a quelli di pubblicita', officialita' ed irretrattibilita' di
 cui  quest'ultima  e' fornita, sanciti dal codice di rito (art. 1 del
 c.p. e 75 del c.p.p.).
    La  legge  processuale  -  in  sostanza  -  pur  lasciando al p.m.
 titolare dell'azione penale, il compito di iniziarla  ed  esercitarla
 in  base  alla  notizia  di  reato,  subordina  in alcuni casi ad una
 manifestazione  della  parte  offesa,  o  di   altro   soggetto,   il
 promuovimento, od il proseguimento di quest'ultima.
    Il  c.p.p.  prevede rispettivamente agli artt. 6, 7 e 9 l'istanza,
 la  richiesta  di  procedere  e  la  querela,  come   condizioni   di
 procedibilita';  prevede,  invece,  all'art.  15,  l'autorizzazione a
 procedere come unica ipotesi di  non  prosegiuibilita'  della  azione
 penale.
    Il  nostro  sistema  non  conosce  altri  casi, che prescindano da
 valutazioni di merito, ad  esclusione  di  alcune  eccezionali  cause
 soggettive di non procedibilita' cui si accennera' oltre.
    Vigente,     pertanto,     il    principio    dell'obbligatorieta'
 dell'esercizio   dell'azione   penale   e   l'irretrattabilita'    di
 quest'ultima,  non  e'  consentito  al  tribunale  ammettere  in  via
 interpretativa  l'esistenza  di  condizioni   di   procedibilita'   o
 preseguibilita'   non   codificate;   per  questa  via,  infatti,  si
 provocherebbe un vulnus inammissibile al principio generale che vuole
 realizzata la pretesa punitiva ogni qual volta vi sia fondata notitia
 criminis  e   non   siano,   per   contro,   ravvisabili   cause   di
 giustificazione del reato, cause soggettive di esclusione del reato o
 della pena, ovvero condizioni soggettive ed oggettive che  escludano,
 in  ragione  di un interesse normativamente tutelato, la possibilita'
 di applicare la pena medesima.
    Fra  le  condizioni  soggettive  di  non  procedibilita', fondate,
 cioe', esclusivamente su  alcune  prerogative  del  soggetto,  assume
 rilievo  nel  nostro  sistema,  sebbene in via del tutto eccezionale,
 l'istituto dell'immunita'.
    Quest'ultima  e'  ammessa  nel  nostro  ordinamento  in  forza del
 richiamo espresso sancito dall'art. 3, secondo comma, del  c.p.  come
 limite  dell'obbligatorieta' della legge penale derivante da norme di
 diritto internazionale.
    L'istituto,  in  ogni  caso,  non  concerne  Vittorio  Emanuele di
 Savoia, in quanto, allo  stato,  non  sono  rinvenibili  disposizioni
 pattizie  cui  il  nostro  paese abbia aderito, che giustifichino una
 rinuncia da parte  dello  Stato  all'esercizio  o  alla  prosecuzione
 dell'azione penale nei suoi confronti.
    E'  opportuno segnalare, tuttavia, come l'imputato, allo stato, si
 trovi in una singolare condizione di immunita' non giuridica, ma  "di
 fatto",  che  e'  diretta  conseguenza del blocco processuale che qui
 viene registrato.
    Tale  condizione  si  pone  in  contrasto  con lo scopo della XIII
 disposizione transitoria della Costituzione, in quanto reati che,  in
 ipotesi,  fossero  commessi all'interno, o al di fuori del territorio
 nazionale (art. 7 del c.p.), eventualmente piu' gravi  di  quello  di
 diffamazione  contestato  (il  reato  per  cui  si  procede - e' bene
 precisarlo - si e'  consumato  in  Italia,  essendosi  verificato  in
 Torino  l'evento  antigiuridico  costituito  dalla  pubblicazione sul
 quotidiano "La Stampa"  delle  dichiarazioni  rese  dall'imputato  in
 forma  di  intervista  al  giornalista Giovanni Bianconi), parrebbero
 privi della possibilita' di essere verificati nella loro  sussistenza
 con  un  regolare  giudizio  proprio  in  ragione del fatto che siano
 perpetrati da discendenti maschi di Casa Savoia.
    Non   esistono,   dunque,   condizioni   oggettive   o  soggettive
 riconducibili alla previsione dell'art. 152 del c.p.p. dal  quale  va
 pertanto esclusa l'applicabilita' dedotta dal suo difensore.
    Questi,  in  via  subordinata,  ha chiesto venga elevato conflitto
 funzionale di competenza presso  la  Corte  di  cassazione  ai  sensi
 dell'art. 51, secondo comma, ultima parte, del c.p.p.
    La   Corte,  e'  noto,  ha  individuato  da  tempo  nel  conflitto
 anzidetto,  cosiddetto  improprio  e  analogo,  un  rimedio  volto  a
 sottoporre   al  suo  giudizio  regolatore  qualsiasi  situazione  di
 contrasto sul  contenuto  delle  attribuzioni  spettanti  ai  singoli
 organi  del  processo penale da cui derivi una stasi del procedimento
 non altrimenti eliminabile.
    Il  conflitto  analogo di competenza e' stato ammesso anche quando
 il caso, in qualche misura abnorme, non sia in  effetti  preveduto  o
 prevedibile dall'ordinamento.
    Secondo  l'avviso  del  tribunale,  nel  caso  di  specie,  non e'
 ravvisabile alcun contrasto ne', tantomeno, un conflitto  fra  organi
 del  medesimo procedimento. Cio', sia perche' l'esercizio dell'azione
 penale era atto proprio della procura della Repubblica di Torino  sia
 perche'  questo  tribunale,  per i motivi gia' esposti, e' il giudice
 naturale del processo.
    D'altro canto non v'e' singolo atto processuale sulla cui adozione
 vi sia conflitto, anche solo virtuale, fra la posizione del p.m., che
 non  ha  chiesto sia dichiarata la contumacia dell'imputato, e quella
 del tribunale.
    Al  contrario  -  come  si  e' visto - il collegio ha aderito alle
 conclusioni del  p.m.  e  della  parte  civile  che  hanno  ravvisato
 nell'obbligo  di  procedere  ad  un  rinvio a tempo indeterminato del
 processo una immunita' di fatto, non  prevista  ne'  prevedibile  dal
 nostro attuale ordinamento.
    Il  conflitto  di  competenza,  pertanto,  non  sussiste  ed e' in
 conseguenza improponibile.
    Ai soli fini di una completa trattazione dell'argomento, e' d'uopo
 sottolineare  come  l'identificazione  da  parte   della   Corte   di
 cassazione della competenza di uno solo dei due organi giudiziari non
 sarebbe mezzo idoneo a modificare il corso degli  eventi  processuali
 che  percorrerebbero  nuovamente le varie fasi, sino all'accertamento
 dell'assoluto   impedimento   dell'imputato   ed   alla   correlativa
 impossibilita' per questo tribunale di dichiararne la contumacia.
    Elevare   conflitto   improprio  funzionale  presso  la  Corte  di
 cassazione e' pertanto soluzione  giuridica  improponibile;  in  ogni
 caso, viziata dall'impossibilita' di ottenere un risultato di rilievo
 pratico.
    Il  tribunale ritiene dunque che l'art. 497 del c.p.c. non preveda
 ne'  espressamente  ne'  implicitamente   l'ipotesi   cui   la   XIII
 disposizione   transitoria   della   Costituzione   (secondo   comma)
 conferisce allo stato autonomo rilievo: cioe',  il  caso  in  cui  un
 discendente  maschio  di  Casa  Savoia,  imputato  in un procedimento
 penale da celebrarsi in Italia,  sia  legittimamente  e  in  perpetuo
 impedimento   dal   comparire   in  giudizio  per  difendersi:  cosi'
 costituendo in suo favore l'immunita' di fatto gia' descritta.
    Giova  ripetere  che  tale situazione contrasta con lo scopo della
 XIII  disposizione  transitoria  della  Costituzione   che   non   ha
 perseguito  nei  confronti  dei  discendenti maschi di Casa Savoia (e
 delle loro consorti) un trattamento processuale  di  favore  rispetto
 alla giurisdizione penale.
    D'altro  canto,  l'assenza  di una previsione espressa dal caso e'
 carente   di   giustificazione    razionale    poiche'    contraddice
 contemporaneamente  sia all'esigenza dello Stato di realizzare la sua
 pretesa punitiva (art.  112  della  Costituzione)  sia  all'interesse
 dell'imputato  accusato di un reato di fruire di un regolare processo
 (art. 24 della Costituzione).
    Il   legislatore  ordinario,  in  sostanza,  in  presenza  di  una
 antinomia costituzionale che regola per definizione la posizione  dei
 discendenti  maschi di Casa Savoia in modo diverso da tutti gli altri
 cittadini, avrebbe avuto l'obbligo di  adeguare  il  contenuto  della
 norma  di cui all'art. 497 del c.p.p. alle esigenze manifestate dalla
 fonte di diritto primaria (XIII  disposizione  transitoria)  pena  la
 violazione  del principio fondamentale di uguaglianza che - e' noto -
 cosi' come esige trattamento  identico  in  posizioni  obiettivamente
 simili,  allo  stesso  modo,  -  secondo gli orientamenti consolidati
 dalla Corte costituzionale - richiede norme differenziate laddove  le
 situazioni  siano  obiettivamente  diverse  (per  tutte  sentenze nn.
 8/1962 e 7/1963 della Corte costituzionale).
    Il  tribunale,  per  queste  ragioni,  ritiene  non manifestamente
 infondata la questione di legittimita' costituzionale  dell'art.  497
 del  c.p.p.,  avanzata nel presente processo dalla parte civile e dal
 p.m., in relazione agli artt. 3, 24, 112,  139  e  XIII  disposizione
 transitoria  della  Costituzione,  nella parte in cui la disposizione
 del rito penale non prevede  che  l'inapplicabilita'  ai  discendenti
 maschi  di Casa Savoia del giudizio contumaciale - in conseguenza del
 legittimo impedimento per loro discendente  dalla  XIII  disposizione
 transitoria  della  Costituzione  -  produce,  in  forza  dei  rinvii
 indefiniti del dibattimento che il giudice e' costretto a dichiarare,
 una   deroga  al  principio  costituzionale  che  vuole  obbligatorio
 l'esercizio, nonche' la prosecuzione dell'azione penale,  nonche'  al
 principio che la pretesa punitiva si realizzi in un regolare processo
 nel quale qualsiasi imputato sia posto nella condizione di esercitare
 le facolta' inerenti al suo personale ufficio difensivo.
    La  questione  proposta  oltre che non manifestamente infondata e'
 rilevante, in quanto il tribunale non puo' esimersi dall'applicare la
 norma suddetta nel presente giudizio.