ha pronunciato la seguente SENTENZA nei giudizi di legittimita' costituzionale degli artt. 2 e 16 della legge 13 aprile 1988, n. 117 (Risarcimento dei danni cagionati nell'esercizio delle funzioni giudiziarie e responsabilita' civile dei magistrati), degli artt. 533, 534 e 536 del codice di procedura penale e degli artt. 1, 2, 5, 7 e 8 della legge n. 117 del 1988 cit., promossi con le seguenti ordinanze: ordinanza emessa il 2 giugno 1988 dalla Corte di cassazione nel procedimento penale a carico di Gigliozzi Alberto, iscritta al n. 557 del registro ordinanze 1988 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 43, prima serie speciale, dell'anno 1988; ordinanza emessa il 12 maggio 1988 dal Tribunale amministrativo regionale della Lombardia sul ricorso proposto da Triaca Fabrizi Filippo ed altri contro Comune di Besozzo ed altri, iscritta al n. 579 del registro ordinanze 1988 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 45, prima serie speciale, dell'anno 1988; Visti gli atti di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri; Udito nell'udienza pubblica del 7 marzo 1989 il Giudice relatore Francesco Saja; Udito l'Avvocato dello Stato Giorgio Azzariti per il Presidente del Consiglio dei ministri. Ritenuto in fatto 1. - Nel corso di un procedimento penale a carico di Alberto Gigliozzi la Corte di cassazione con ordinanza del 2 giugno 1988 (reg. ord. n. 557 del 1988) sollevava, in riferimento agli artt. 3 e 101 Cost., questione di legittimita' costituzionale degli artt. 2, terzo comma, lett. b e c e 16, primo e terzo comma, l. 13 aprile 1988 n. 117, sulla responsabilita' civile dei magistrati. Notava anzitutto il collegio rimettente che il citato art. 2, terzo comma, nel configurare quali ipotesi di colpa grave, e quindi di fonte di responsabilita' civile dei magistrati, l'affermazione (lett. b), o la negazione (lett. c), determinate da negligenza inescusabile, di fatti incontestabilmente esclusi o, rispettivamente, risultanti dagli atti processuali, non specificava, con riferimento al giudizio di cassazione, la necessita' che tali fatti emergessero dal provvedimento impugnato e fossero a base di una censura di vizio di motivazione. Specificazione necessaria - ad avviso del collegio al fine di distinguere debitamente la posizione del giudice di legittimita' da quella del giudice di merito. Per di piu' l'impugnato art. 2, insieme all'art. 16 (che disciplinava i presupposti della responsabilita' civile dei componenti gli organi giudiziari collegiali), non distinguevano, come sarebbe stato necessario per rispettare il principio di eguaglianza, tra il collegio penale, da una parte, e, dall'altra, il giudice monocratico ed il collegio civile. Infatti il giudice monocratico decideva e motivava previa completa conoscenza degli atti di causa, mentre il collegio civile esternava la propria decisione, dopo approfondita e meditata valutazione degli atti, solo col deposito in cancelleria ai sensi dell'art. 133 cod. proc. civ. Al contrario nel collegio penale, ed in ispecie in quello di cassazione, il relatore designato dal presidente (art. 534, primo comma, cod. proc. pen.), e percio' incaricato di riferire in dibattimento (art. 536, quarto e quinto comma, stesso cod.), era il solo - secondo l'ordinanza di rimessione - a poter avere una completa conoscenza del processo, cio' che attribuiva agli altri componenti del collegio il rischio di dover rispondere in sede civile per fatto altrui. La sottoscrizione della sentenza da parte dei soli presidente ed estensore, ai sensi degli artt. 6 e 7 l. n. 532 del 1977, escludeva, per il resto del collegio, qualsiasi possibilita' di controllo successivo sulla decisione. Altra differenza del collegio penale di cassazione rispetto a quello civile era la necessita' di pubblicare la sentenza in udienza subito dopo la deliberazione, mediante lettura del dispositivo (art. 537, secondo comma, cod. proc. pen.), cio' che riduceva ulteriormente l'effettivo apporto dei componenti diversi dal relatore e rendeva percio' ancor piu' irrazionale l'addebito per eventuali danni civili al medesimo titolo. Infine il sistema predisposto dagli artt. 2 e 16 l. n. 117 del 1988 comprometteva, secondo la Sezione penale della Cassazione rimettente, l'imparzialita' del collegio decidente, sottoponendolo a facili pressioni delle parti in causa e cosi' contrastando con l'art. 101 Cost. 2. - Con la stessa ordinanza la Cassazione sollevava questione di legittimita' costituzionale degli artt. 533, 534, 536, cod. proc. pen., in riferimento all'art. 24, secondo comma, Cost. La Corte faceva riferimento, ad abundantiam, anche agli artt. 532, 91, 92, 93, 94, 101, 102, 106 dello stesso codice. Essa rilevava che nel processo penale in corso si era regolarmente costituita la parte civile e che la costituzione non era stata mai revocata. Il fatto che negli artt. 533, 534 e 536 cit. non fosse previsto alcun obbligo di informativa alla medesima circa l'esistenza del ricorso per cassazione dell'imputato e la data fissata per l'udienza sembrava ledere il diritto di difesa in giudizio della parte stessa. 3. - Interveniva la Presidenza del Consiglio, la quale chiedeva preliminarmente dichiararsi inammissibili le questioni aventi ad oggetto la l. n. 117 del 1988, giacche', la Corte rimettente non specificava come le norme impugnate fossero applicabili al caso di specie. La Presidenza del Consiglio sosteneva anche la non fondatezza delle questioni stesse. E infatti le limitazioni, pretese dal collegio rimettente, alle disposizioni dell'art. 2 l. cit. in relazione al giudizio di legittimita', ben potevano trarsi dalle norme del codice di procedura penale concernenti il giudizio medesimo. Quanto alla posizione dei componenti del collegio diversi dal relatore, nessuna disposizione, ne' della legge n. 117 del 1988 ne' del codice di rito, impediva loro di informarsi pienamente sugli atti di causa rilevanti ai fini della loro decisione, alla quale essi partecipavano in posizione di parita' rispetto al relatore. Finalmente, circa l'informativa alla parte civile del ricorso per cassazione e della relativa udienza essa era dovuta alla stregua della giurisprudenza della stessa Cassazione penale e percio' nessuna lesione del diritto di difesa poteva ravvisarsi. 4. - Nel corso di un procedimento promosso da Filippo Triaca Fabrizi per l'annullamento della procedura di adozione ed approvazione di un piano regolatore generale il Tribunale amministrativo regionale della Lombardia con ordinanza del 12 maggio 1988 (reg. ord. n. 579 del 1988) sollevava questione di legittimita' costituzionale degli artt. 1, 2, 7 e 8 l. n. 117 del 1988, in riferimento agli artt. 103, primo comma, 113 e 125, secondo comma, Cost. Il Tribunale precisava di impugnare i detti articoli nella parte in cui essi devolvevano al giudice ordinario il giudizio sull'ammissibilita' della domanda di risarcimento del danno anche nei casi in cui il danno stesso fosse derivato da una pronuncia del magistrato amministrativo. Secondo l'ordinanza di rimessione, la previsione della responsabilita' aquiliana per danni derivanti da provvedimenti del giudice amministrativo, istituzionalmente investito della cognizione di controversie aventi ad oggetto interessi legittimi, comportava che il medesimo dovesse sostanzialmente rispondere per danni derivati da lesione di tali situazioni giuridiche soggettive. Considerato che secondo l'"attuale ordinamento" la pubblica amministrazione non rispondeva di questo tipo di lesione, le norme impugnate imponevano ai giudici amministrativi - secondo il TAR della Lombardia - una responsabilita' non configurabile, per identico tipo di lesione, a carico dei pubblici funzionari, cosi' violando l'autonomia e l'indipendenza dei primi. Sempre sul presupposto che, ai sensi della l. n. 117 del 1988, il giudice amministrativo dovesse rispondere per lesione di interessi legittimi, il collegio rimettente riteneva che l'attribuzione al giudice civile della competenza a verificare l'ammissibilita' della domanda di risarcimento ledesse il criterio di riparto delle giurisdizioni canonizzato negli artt. 103, primo comma, 113 e 125, secondo comma, Cost. La detta verifica di ammissibilita' infatti non poteva prescindere "dalla cognizione, sia pure sommaria, della vicenda amministrativa (sostanziale e processuale) in cui si compenetra l'errore del magistrato". 5. - La Presidenza del Consiglio dei ministri, intervenuta, sostenenva l'inammissibilita' della questione, stante l'inapplicabilita' delle norme denunciate nel giudizio a quo. Nel merito, essa negava che a carico del giudice amministrativo fosse configurabile una responsabilita' con estensione piu' ampia rispetto a quella incombente negli altri giudici, ferma restando comunque la riserva alla giurisprudenza comune dei criteri di delimitazione della responsabilita' per lesione di interessi legittimi. Considerato in diritto 1. - Entrambe le ordinanze di rimessione attengono al medesimo tema della responsabilita' civile del giudice: pertanto i relativi giudizi vanno riuniti e decisi con unica sentenza. 2. - Come accennato in narrativa, la Presidenza del Consiglio dei ministri eccepisce preliminarmente l'irrilevanza e quindi l'inammissibilita' delle proposte questioni, in quanto nessuna delle denunciate norme della legge 13 aprile 1988 n. 117 dovrebbe trovare diretta applicazione nei giudizi a quibus, i quali hanno l'oggetto sopra rispettivamente indicato. L'eccezione non puo' pero' essere accolta poiche', come gia' chiarito dalla giurisprudenza di questa Corte (da ult. sent. n. 18 del 1989), debbono ritenersi influenti sul giudizio a quo anche le norme che, pur non direttamente applicabili per la decisione della controversia che ne costituisce oggetto, tuttavia attengono allo status del giudice e in genere ai suoi doveri nonche' alle relative garanzie, e incidono quindi su un elemento fondamentale del processo, quale l'indipendenza dell'organo giurisdizionale. 3. - Relativamente alla prima questione dedotta, la Corte di cassazione dubita della legittimita' costituzionale dell'art. 2, terzo comma, lettere b e c, della cit. legge n. 117 del 1988, il quale dispone che costituisce colpa grave del giudice l'affermazione o la negazione, determinate da negligenza inescusabile, di un fatto la cui esistenza e', rispettivamente, negata o esclusa dagli atti del procedimento. Ritiene la Cassazione che, non potendo il giudizio di legittimita' estendersi ad accertamenti di fatto, la disposizione denunciata riserverebbe ai magistrati di cassazione un trattamento irrazionalmente deteriore rispetto agli altri giudici e percio' contrastante con l'art. 3 Cost., in quanto non specificherebbe che i fatti inescusabilmente ignorati o presupposti debbano emergere dalla sentenza impugnata o dal ricorso. La questione non e' fondata, risultando chiaramente implicita nelle vigenti disposizioni la volonta' normativa di cui il collegio rimettente pretende l'esplicita enunciazione. E' evidente infatti che non potrebbe attribuirsi al giudice una responsabilita' che non derivi da azioni od omissioni concernenti le funzioni istituzionalmente attribuitegli. E poiche' alla Corte di cassazione e' riservato il solo controllo di legittimita' dei provvedimenti impugnati, esperibile attraverso l'esame dei medesimi nonche' degli atti e documenti relativi, soltanto la colpa grave in cui i giudici siano incorsi nell'esercizio di detta attivita' di controllo puo' avere rilievo ai fini della loro responsabilita' civile: fermo restando peraltro che le valutazioni di fatto possono avere rilievo quanto agli errores in procedendo. Non sussiste dunque la denunciata violazione del principio di eguaglianza. 4. - La Corte di cassazione, con altra complessa censura, dubita altresi' del contrasto degli artt. 2 e 16 (quest'ultimo relativo alla responsabilita' dei componenti gli organi collegiali) l. cit. con il principio di eguaglianza, stante che essi non distinguono tra collegio penale, da una parte, e, giudice monocratico e collegio civile, dall'altra. Secondo l'ordinanza di rimessione, il disposto degli impugnati artt. 2 e 16 comprometterebbe anzitutto l'imparzialita' del collegio decidente, attribuendo alle parti uno strumento di pressione idoneo ad influenzarne le decisioni. Le indicate disposizioni violerebbero ancora il principio di eguaglianza perche' alla completa conoscenza degli atti di causa da parte del giudice monocratico ed alla possibilita' di controllare l'esattezza della deliberazione, da parte dei componenti non relatori del collegio civile, non corrisponderebbe un'analoga possibilita' di controllo, da parte dei componenti non relatori del collegio penale, sia sul dispositivo, pubblicato in udienza subito dopo la deliberazione, sia sulla motivazione della sentenza, sottoscritta soltanto dal presidente e dal relatore. Specificamente il collegio rimettente lamenta che il principio di immediatezza della decisione, sancito per la cassazione penale dall'art. 537 c.p.p., nonche' la completa conoscenza degli atti di causa unicamente da parte del presidente e del relatore, che sottoscrivono il provvedimento, porrebbero i giudici non relatori in posizione anomala, chiamandoli sostanzialmente a rispondere di errori od omissioni altrui. Sotto il primo profilo l'inconsistenza della censura in esame e' stata gia' ritenuta da questa Corte con la citata sentenza n. 18 del 1989, dalla quale non sussiste alcun motivo per discostarsi. Per vero, in essa si e' chiarito come la limitatezza e tassativita' delle fattispecie in cui e' ipotizzabile una colpa grave del giudice, nonche' la specifica e circostanziata descrizione delle ipotesi di responsabilita', non consentano di ritenere in pericolo la serenita' e l'imparzialita' del giudizio. Ma anche sotto l'altro profilo e cioe' l'asserito deteriore trattamento dei membri del collegio penale, che non siano relatori, la censura e' certamente infondata. In sostanza la Corte rimettente da' per presupposto che la decisione collegiale possa da essa venire adottata con un diverso grado di conoscenza della causa da parte dei vari componenti, come se alcuni di loro vi partecipassero a diverso titolo, senza quella piena informazione che costituisce invece il requisito indispensabile per una corretta e responsabile formazione del giudizio; ne' la sottoscrizione del provvedimento da parte soltanto del presidente ed estensore permette di dubitare della fondamentale esigenza di approfondita conoscenza da parte di tutti i componenti del collegio giudicante. L'esercizio della funzione giurisdizionale esige imprescindibilmente che tutti i giudici conoscano a fondo gli elementi del processo, poiche' soltanto cosi' viene, da un lato, assolto un essenziale loro dovere e, dall'altro, risulta tutelata la posizione del cittadino. La validita' di questa affermazione non e' minimamente attenuata dalle caratteristiche del giudizio penale: il principio di immediatezza della decisione - operante peraltro in tutti i gradi e talvolta anche al di fuori del processo penale, come ad esempio nel rito del lavoro - e' correlato alle esigenze di concentrazione e di sollecita definizione del procedimento ed al particolare contenuto della decisione stessa; ma non implica certo che alcuni dei decidenti possano conoscere in minor misura, o superficialmente, gli atti di causa. Ne' alcuna delle norme di rito, indicate con una certa approssimazione nell'ordinanza di rimessione, riserva al presidente del collegio, o al relatore, l'esclusiva o maggiore disponibilita' degli atti medesimi, ovvero la possibilita' di esaminarli: che' anzi, per la sua posizione e la maggiore esperienza, spetta al primo di curare che tutti i giudici conoscano adeguatamente gli atti processuali e di adottare i provvedimenti necessari a tale scopo. 5. - Parimenti non fondata e' la terza questione di costituzionalita', relativa agli artt. 533, 534 e 536 cod. proc. pen., i quali, secondo l'ordinanza di rimessione, non imporrebbero di informare la parte civile del ricorso dell'imputato e della data fissata per l'udienza, cosi' ledendo il diritto, sancito dall'art. 24 Cost., alla difesa in giudizio della parte suddetta. Per contro, secondo la giurisprudenza della stessa Corte di cassazione, l'art. 534 cit. va interpretato secundum Constitutionem, nel senso che nel giudizio di legittimita' la parte civile deve essere informata e messa in condizione di partecipare al dibattimento, sia pure soltanto mediante avviso al difensore. Tale essendo lo stato della giurisprudenza, va ritenuta non fondata anche la terza ed ultima questione sollevata con la predetta ordinanza di rimessione. 6. - Prendendo in considerazione il provvedimento del Tribunale amministrativo regionale della Lombardia, rileva la Corte che con esso si deduce come gli artt. 1, 2, 7 e 8 cit. l. n. 117 del 1988, prevedendo in generale la responsabilita' civile per dolo o colpa grave degli appartenenti a tutte le magistrature, imporrebbero a carico dei giudici amministrativi una responsabilita' per lesione di interessi legittimi, in quanto tali posizioni giuridiche soggettive costituiscono di norma l'oggetto del processo amministrativo. Rilevato che in linea generale questa responsabilita' non graverebbe sulla pubblica amministrazione, e quindi sui funzionari ad essa appartenenti, ne risulterebbe, ad avviso del Tribunale, un trattamento in violazione dell'art. 103 Cost. Inoltre l'art. 5 l. cit., attribuendo al giudice civile il compito di verificare l'ammissibilita' della domanda di risarcimento dei danni proposta contro i giudici amministrativi e percio' conferendo sostanzialmente la competenza a conoscere la lesione di interessi legittimi, violerebbe, secondo la predetta ordinanza, il riparto della giurisdizione stabilito dagli artt. 103, 113 e 125, secondo comma, Cost. La prima censura, il cui contenuto si riflette, come si vedra', sulla seconda, non e' fondata. Anzitutto va osservata l'eccessiva ampiezza con cui essa e' formulata, in quanto anche la posizione di diritto soggettivo puo' formare oggetto del processo amministrativo, come si verifica nei casi di giurisdizione esclusiva: il che, gia' di per se', rileva l'imprecisa formulazione della doglianza. Ma, oltre a cio', va rilevato che il presupposto della questione sollevata dal Tribunale regionale e' costituito dalla considerazione che la responsabilita', gravante sul giudice ai sensi della legge n. 117 del 1988, sia intimamente ed esclusivamente collegata alla situazione giuridica sostanziale oggetto del processo principale. Ma tale presupposto non puo' essere condiviso. Esso infatti confonde la posizione soggettiva dedotta in giudizio con il rapporto processuale instaurato mediante l'esercizio dell'azione, che resta invece ben distinto. Il processo, per vero, da' luogo ad un rapporto giuridico autonomo rispetto a quello che forma la materia della pretesa, in quanto ha un oggetto diverso e intercorre anche con soggetti, gli organi giurisdizionali, estranei per definizione alla situazione sostanziale: esso ha proprie caratteristiche e conseguentemente va considerato nella sua autonomia, anche se funzionalmente e' innegabile un'incidenza strumentale. Precisamente, la situazione giuridica processuale, di cui sono titolari le parti, costituisce un diritto soggettivo perfetto, anzi un diritto fondamentale, al quale e' correlato il dovere degli organi giudiziari di rendere effettiva la tutela giurisdizionale. Non puo' pertanto esser dubbio che il mancato o inesatto adempimento di questo dovere integri la lesione del detto diritto soggettivo, al quale e' estranea e quindi indifferente la posizione, eventualmente di interesse legittimo, di cui si chiede la tutela giurisdizionale. La responsabilita' civile di cui alla l. n. 117 del 1988 nasce dunque in ogni caso dalla lesione di un diritto soggettivo perfetto, anche quando oggetto del giudizio amministrativo sia un interesse legittimo: dal che discende l'inesattezza della premessa da cui muove la questione ora esaminata. In base alle anzidette considerazioni non puo' trovare accoglimento neppure la seconda censura che, a parte qualsiasi altro rilievo, avrebbe, secondo l'ordinanza di rimessione, nella fondatezza della prima questione il necessario presupposto. In conclusione, tutte le censure formulate dal Tribunale amministrativo regionale per la Lombardia si rivelano prive di fondamento.