ha pronunciato la seguente SENTENZA nel giudizio di legittimita' costituzionale dell'art. 39 del codice penale militare di pace, promosso con un ordinanza emessa il 27 ottobre 1988 dal Tribunale militare di Padova, nel procedimento penale a carico di Pavan Emanuele, iscritta al n. 811 del registro ordinanze 1988 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica, n. 3, prima serie speciale, dell'anno 1989; Visto l'atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri; Udito nella camera di consiglio del 12 aprile 1989 il Giudice relatore Ettore Gallo; Ritenuto in fatto 1. - Con ordinanza 27 ottobre 1988, il Tribunale militare territoriale di Padova sollevava questione di legittimita' costituzionale dell'art. 39 codice penale militare di pace con riferimento agli artt. 2, 3, 13, 25, secondo comma, e 52, terzo comma, della Costituzione. Riferiva il Tribunale nell'ordinanza che tale Emanuele Pavan, giostraio, era stato tratto a giudizio sotto l'imputazione di mancanza alla chiamata aggravata (art.151, primo comma, codice penale militare di pace) perche', chiamato alle armi mediante manifesto per adempiere al servizio di leva, aveva omesso, senza giusto motivo, di raggiungere, come prescritto, il 23 agosto 1987, il Distretto militare di Udine, rendendosi assente arbitrario fino al 25 aprile 1988, data in cui veniva tratto in arresto dai carabinieri di Piove di Sacco. Al dibattimento il giovane, confermando quanto aveva detto nell'istruttoria, si era discolpato assumendo che, sulla base del precedente di due suoi fratelli maggiori, che si erano presentati alle armi a seguito di cartolina-precetto, si era fatta convinzione di dovere rispondere alla chiamata soltanto a seguito della notifica della detta cartolina. Non aveva, percio', prestato attenzione al manifesto, in quanto ignorava che, indipendentemente dalla cartolina, egli si sarebbe comunque dovuto presentare, per la data predetta, al suo Distretto militare, sulla base dell'ordine contenuto nel manifesto stesso. Di cio' dato atto, rileva pero' il Tribunale che l'ignoranza invocata dall'imputato non puo' avere alcun riflesso sull'elemento soggettivo del reato data la categorica disposizione dell'art. 39 del codice penale militare di pace. Per essa, "il militare non puo' invocare a propria scusa l'ignoranza dei doveri inerenti al suo stato militare", e la relazione, anzi, precisa che la disposizione fu introdotta proprio nell'intento di "eliminare tutte le dubbiezze e perplessita' giurisprudenziali... in tema di conoscenza dei manifesti di chiamata alle armi", ribadendo cosi' "l'inutilita' di ogni indagine sulla effettiva conoscenza dei doveri inerenti alle molteplici manifestazioni del servizio militare ai fini della determinazione del dolo". Vero e' che - osserva l'ordinanza - questa Corte ha dichiarato la parziale illegittimita' dell'art.5 del codice penale, con la sentenza n. 364 del 1988, cosi' com'e' pur vero che recenti orientamenti giurisprudenziali, formatisi proprio sul tema in esame, disattendono relazione e lavori preparatori, e ritengono che possa essere valorizzato, agli effetti del dolo, il contenuto dell'errore, almeno nei limiti di cui all'art. 47, primo comma, del codice penale. Ma, ad avviso del Tribunale, l'art. 39 del codice penale militare di pace, in quanto norma speciale, opera sicuramente in deroga tanto all'art. 5 (cosi' come risultante dalla declaratoria di parziale illegittimita' costituzionale di questa Corte) e 47, terzo comma, del codice penale, quanto all'art.47, primo comma, stesso codice. Dev'essere, percio', rinnovata la questione di legittimita' costituzionale dell'art. 39, codice penale militare di pace, in riferimento a tutti i richiamati parametri costituzionali. All'art. 3, innanzitutto, perche' viene cosi' a determinarsi un diverso trattamento fra civili e militari in ordine all'art. 5 del codice penale senza che sussista una giustificazione razionale; ma anche all'art. 27, primo comma della Costituzione, perche', legittimando la responsabilita' sulla base di un dolo fittizio, si elude il valore piu' pregnante del detto principio costituzionale che implica, nella personalita' della responsabilita', il principio di colpevolezza: il che varrebbe anche per il parametro di cui all'art. 25, secondo comma, della Costituzione. D'altra parte, cosi' alterando il concetto di responsabilita' personale verrebbe ad inquinarsi la stessa funzione della pena (art. 27, terzo comma della Costituzione) che, assumendo puro carattere di esemplarita', apparirebbe "inadeguata alla dignita' della persona umana" (artt. 2 e 52, secondo comma della Costituzione), ed al valore riconosciuto alla liberta' personale (art. 13 della Costituzione). Tutti principi fondamentali che non potrebbero, comunque, essere sacrificati a garanzia degl'interessi di difesa della Patria. 2. - Pubblicata, comunicata e notificata ritualmente l'ordinanza in esame, e' intervenuto nel giudizio innanzi a questa Corte il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura Generale dello Stato. Questa, facendo riferimento alle ordinanze n. 221 del 1987 e 151 del 1988 di questa Corte, e rilevando che l'attuale questione si presenterebbe negli stessi termini gia' esaminati con le predette ordinanze di manifesta inammissibilita', chiede che essa venga dichiarata manifestamente infondata. Considerato in diritto 1. - Il Tribunale militare di Padova dubita ancora una volta della legittimita' costituzionale dell'art. 39 del codice penale militare di pace, denunziandolo in riferimento agli stessi parametri invocati nelle precedenti ordinanze. Non e' esatto, pero', che la questione si presenti negli stessi termini, come afferma l'Avvocatura Generale: nel qual caso, comunque, la conseguenza sarebbe stata analoga declaratoria di manifesta inammissibilita', e non d'infondatezza come da essa viene richiesto. In realta', qui si tratta di un giostraio che, aggirandosi con la sua modesta carovana per le piazze di vari paesi, ha sicuramente notato - e, del resto, non lo nega - il manifesto che dispone la chiamata alle armi della sua classe. Egli sostiene, pero', di non avere soffermato l'attenzione su di esso a causa dei precedenti concernenti i suoi due fratelli maggiori, ai quali era stata notificata la cartolina-precetto. Egli nutriva, percio', ragionevole convinzione che solo da questo momento decorresse l'obbligo di presentarsi al Corpo designato. Questa volta, dunque, a differenza dei casi esaminati in precedenza, l'ignoranza, e l'errore ad essa conseguente, venivano a cadere proprio su quei doveri inerenti al proprio stato che l'art. 39 del codice penale militare di pace dichiara irrilevanti come scusanti dell'illecito perpetrato. Ritiene, peraltro, il Tribunale militare che la norma impugnata, essendo norma speciale, deroghi tanto all'art. 5 del codice penale - cosi' come dichiarato parzialmente illegittimo dalla citata sentenza di questa Corte - quanto all'art.47, primo e terzo comma del codice penale: anche perche' l'ordinanza mostra di non condividere un certo recente favorevole orientamento giurisprudenziale che disattende il rigore interpetrativo dei lavori preparatori e della relazione al codice penale militare di pace. Di qui, la nuova denunzia a questa Corte. 2. - Occorre tenere distinti nella questione, cosi' come sollevata, il profilo che si riferisce all'art. 5 del codice penale, da quello che ha riguardo all'errore nei sensi di cui all'art. 47, primo e terzo comma del codice penale. Sotto il primo profilo, infatti, se e' vero che la sentenza 23 marzo 1988 n. 364 di questa Corte ha aperto un ambito di rilevanza scusante dell'errore, e' pur vero, pero', che lo ha posto in funzione dell'inevitabilita' dell'errore stesso, additando tutta una serie di indicazioni di principio che consentono di delineare con sufficiente certezza l'ambito stesso. Essenzialmente - secondo la sentenza - l'errore inevitabile e' riferito, sul piano soggettivo, ai doveri strumentali di diligenza, fra cui sopratutto quelli d'informazione. In altri termini, inevitabile - e quindi escludente la colpevolezza - e' soltanto quell'errore che non si e' potuto evitare nemmeno adempiendo ai doveri strumentali d'informazione e conoscenza: doveri peraltro mediati dalla normale socializzazione degli individui e dal funzionamento delle varie fonti sociali d'informazione, alle quali chi e' tenuto ad attingere puo', di fatto e di regola, attingere. Orbene, un'eventuale delegittimazione dell'art. 39 citato sotto questo riflesso - (in quanto, cioe', non contempla l'inevitabilita' dell'errore nei limiti di cui sopra) - postulerebbe che il Tribunale rimettente avesse motivato, agli effetti della rilevanza, sul punto relativo all'inevitabilita' dell'errore del Pavan. E' questo, infatti, il dato da cui nasce l'imprescindibilita' di un giudizio della Corte ai fini della decisione di merito, in quanto, allo stato, nell'art. 39 del codice penale militare di pace non sarebbe appunto previsto - almeno secondo l'interpetrazione dell'ordinanza - quell'ambito di rilevanza scusante dell'errore che la Corte ha riconosciuto nell'art. 5 del codice penale. Ma sul punto il Tribunale non si e' pronunziato, limitandosi a dare atto che il Pavan era caduto in errore sulla portata imperativa del manifesto di chiamata, senza precisare se lo ritenga eventualmente inevitabile, e per quali motivi. Sotto tale riflesso, percio', la questione e' inammissibile. 3. - Non cosi', invece, per quanto si riferisce all'art. 47 del codice penale. Ferma restando l'inescusabilita' dell'errore sul la norma incriminatrice (non piu' interessano qui i limiti posti dalla piu' volte richiamata sentenza), l'errore nel quale e' incorso il Pavan non cade sulla norma penale (l'ordinanza riferisce, infatti, che egli era ben consapevole dell'obbligo di rispondere alla chiamata) ma sul suo dovere di presentarsi alle armi per effetto del manifesto, quand'anche non gli fosse pervenuta la cartolina-precetto. Errore, percio', che cade sui doveri che promanano da un atto amministrativo, quale il manifesto di chiamata alle armi: piu' precisamente, errore derivato da ignoranza della fonte amministrativa da cui il dovere promana. Ora, e' ben vero che dai passi delle relazioni della Commissione reale (n. 40) e della Commissione ministeriale (n. 41) appare evidente che il legislatore dell'epoca, attraverso l'art. 39 del codice penale militare di pace, intendesse estendere la portata dell'art. 5 del codice penale a qualsiasi errore sui doveri militari, derivato da ignoranza od erronea interpetrazione, qualunque fosse la fonte da cui il dovere derivava. Cosi' come e' vero che, obbedienti a tale "mens legislatoris", dottrina e giurisprudenza militare hanno in passato pressoche' costantemente interpetrato l'art. 39 del codice penale militare di pace nel senso che ivi sarebbe posta una limitazione - in relazione ai doveri militari all'efficacia scusante dell'errore su legge extra penale di cui all'art. 47, ultimo comma, del codice penale. Senonche' una tale interpetrazione certamente rispondente all'ideologia degli autori del codice, non e' piu' oggi giustificabile, sia perche' contraria ai principi fondamentali del diritto penale (che sono principi di civilta'), sia perche' nel nuovo ordinamento democratico, anche militare, quei principi sono collegati all'ispirazione di fondo della Costituzione che rende ormai anacronistica quella interpetrazione. In realta', "ignoranza dei doveri", secondo il linguaggio comune della scienza e della pratica del diritto, sta a significare "ignoranza dei doveri in astratto", vale a dire "ignoranza delle fonti normative dei doveri". Ma gli atti amministrativi che condizionano il dovere in concreto sono "fatti" od "atti" (come il manifesto) che rendono operanti il dovere in astratto disciplinato dalla norma giuridica, e percio' si ricollegano al principio di cui alla prima parte dell'art. 47 del codice penale. Su questa piu' moderna linea si e' posta, del resto, ormai notevole parte della giurisprudenza militare, la quale ha appunto ritenuto che l'errore sulla portata del manifesto, vertendo su un atto amministrativo, e' in realta' errore sul presupposto storico per l'attuazione del dovere in concreto. Errore di fatto, dunque, che incide sul dolo, secondo i principi del diritto penale militare ex art. 16 del codice penale, rendendo rilevante questo errore anche nell'area dell'art. 39 del codice penale militare di pace. In tali sensi, e cioe' aderendo ad una interpetrazione che, nell'adeguarsi ai principi ispiratori della Costituzione, evita di punire comportamenti che, al piu', possono essere qualificati come colposi, non puo' considerarsi fondata, nemmeno sotto questo profilo, la questione di legittimita' costituzionale sollevata sotto i vari parametri enunciati in epigrafe.