ha pronunciato la seguente
                                SENTENZA
 nei  giudizi  di  legittimita'  costituzionale  dell'art. 8, secondo,
 terzo ed ultimo comma, della legge 15 dicembre 1972,  n.  772  (Norme
 per  il  riconoscimento dell'obiezione di coscienza) quale sostituito
 dall'art. 2, della legge 24 dicembre 1974,  n.  695  (Modifiche  agli
 artt.  2  e 8 della legge 15 dicembre 1972, n. 772, recante norme per
 il  riconoscimento  dell'obiezione  di  coscienza)  e  dell'art.   27
 c.p.m.p.,  promossi  con  ordinanze  emesse  il  5 maggio 1988 (nn. 5
 ordd.), il 12 maggio 1988, il 29 giugno 1988 e il 14 luglio 1988  dal
 Tribunale  militare  di  Napoli, iscritte rispettivamente ai nn. 459,
 466, 467, 468, 469, 470, 471 e 472 del reg. ord.  1988  e  pubblicate
 nella  Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 39 prima serie speciale
 dell'anno 1988;
    Visto  l'atto  di  costituzione  di  Neri  Leonardo nonche' l'atto
 d'intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
    Udito nell'udienza pubblica del 13 giugno 1989 il Giudice relatore
 Renato Dell'Andro;
    Uditi  l'avv.  Mauro  Mellini per Neri Leonardo e l'Avvocato dello
 Stato Stefano Onufrio per il Presidente del Consiglio dei ministri;
                           Ritenuto in fatto
    1. - Con cinque ordinanze d'identico contenuto, emesse il 5 maggio
 1988 nei procedimenti penali a carico di  Neri  Leonardo  (Reg.  ord.
 n.459/88),  Abati  Marco  (Reg.  ord. n. 466/88), Mainardi Gian Marco
 (Reg. ord. n.  467/88),  Tripolini  Enzo  (Reg.  ord.  n.  468/88)  e
 Fortunato Antonio (Reg. ord. n. 469/88) tutti imputati del delitto di
 rifiuto del servizio militare di leva per motivi di coscienza di  cui
 all'art.  8  della  legge  15 dicembre 1972, n. 772, quale sostituito
 dall'art. 2 della legge  24  dicembre  1974,  n.  695,  il  Tribunale
 militare  di Napoli ha sollevato, in riferimento agli artt. 2, 3, 13,
 25, secondo comma, 27, primo e terzo  comma,  e  103,  ultimo  comma,
 Cost., questione di legittimita' costituzionale dell'art. 8, secondo,
 terzo ed ultimo comma, della citata legge n. 772/1972.
   In  primo  luogo,  il  giudice a quo ritiene che le norme impugnate
 contrastino con quel complesso di disposizioni costituzionali  (artt.
 2,  3,  25,  secondo  comma,  27,  primo  e  terzo  comma, Cost.) che
 consentirebbero di qualificare il diritto penale come  extrema  ratio
 di  tutela  della  societa',  oltreche' con l'art. 103, ultimo comma,
 Cost. Sulla base di tale  assunto,  l'incriminazione  penale  sarebbe
 consentita   solo   a   tutela   di   beni   giuridici  di  rilevanza
 costituzionale, rispettando il principio di proporzionalita' fra bene
 tutelato  e  bene  sacrificato dalla sanzione penale e sempre che sia
 accertata l'insufficienza degli altri strumenti di tutela  civile  od
 amministrativa. Invero, con l'entrata in vigore degli artt. 1 e segg.
 della gia' citata legge n. 772 del 1972 e dell'art. 2 della legge  24
 dicembre  1986,  n. 958, si sarebbe realizzata una rinuncia, da parte
 dell'ordinamento,  a  pretendere   dagli   obiettori   di   coscienza
 l'adempimento  dell'obbligo  del  servizio militare e pertanto non vi
 sarebbe piu' necessita' di tutela penale dello stesso obbligo.
    In  secondo  luogo,  la sanzione penale prevista dall'art. 8 della
 legge  n.  772  del  1972  non  avrebbe   piu'   alcuna   ragionevole
 giustificazione  sia  perche'  ormai  lo  Stato,  con  il riconoscere
 l'alternativa del servizio civile, mostra di non avere piu' interesse
 alla  prestazione  del  servizio militare da parte degli obiettori di
 coscienza, tanto piu' che questi ultimi, una volta scontata la  pena,
 sarebbero  affrancati  da quel servizio (terzo comma dell'art. 8) sia
 perche'  la  sanzione  penale  in  esame,  invece  di  tendere   alla
 rieducazione   del   condannato,   come   prevede   l'art.  27  della
 Costituzione, finirebbe con il fargli conseguire - a pena espiata  il
 risultato delittuoso che egli si era prefisso e cioe' il non prestare
 il servizio militare.
    Del resto, proseguono le ordinanze di rimessione, analoga sanzione
 penale,  che  andrebbe  mantenuta,  esiste  gia'  nel  codice  penale
 militare  di pace (art. 151) ma molto meno severa di quella di cui al
 secondo comma del citato  art.  8.  Di  qui  l'ulteriore  profilo  di
 incostituzionalita'   di   quest'ultima   sanzione   in   pregiudizio
 dell'obiettore di coscienza, che verrebbe trattato in modo diverso da
 un qualsiasi altro renitente.
    2.  -  Nel giudizio promosso con l'ordinanza n. 459 del 1988 si e'
 costituita la parte  privata  Neri  Leonardo,  che  ha  concluso  per
 l'accoglimento  della  questione,  sottolineando,  in particolare, il
 contrasto della disciplina sanzionatoria dettata  dalla  disposizione
 impugnata con l'art. 3 Cost.
    3.  -  Con  altre tre ordinanze d'identico contenuto, emesse il 12
 maggio 1988 nel procedimento  penale  a  carico  di  Szumsky  Carmelo
 Vivian  (Reg.  ord.  n.  470/88)  il  29 giugno 1988 nel procedimento
 penale a carico di Gatelli Maurizio ed altri (Reg. ord. n. 471/88) ed
 il  14  luglio  1988  nel  procedimento  penale  a  carico  di Grillo
 Francesco ed altri (Reg. ord. n. 472/88) tutti imputati  del  delitto
 di  rifiuto  del servizio militare di leva di cui all'art. 8 legge n.
 772 del 1972, il  Tribunale  militare  di  Napoli  ha  sollevato,  in
 riferimento agli artt. 2, 3, 13, 25, secondo comma, 27, primo e terzo
 comma, questione identica a quella  gia'  sollevata  dalle  precitate
 ordinanze   di   rimessione   ed   altra  questione  di  legittimita'
 costituzionale, in  riferimento  all'art.  103  Cost.,  dell'art.  27
 c.p.m.p.
    4.  -  Nel  giudizio  promosso  con  ordinanza  n. 470 del 1988 e'
 intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e
 difeso  dall'Avvocatura  generale dello Stato, concludendo per la non
 fondatezza delle proposte questioni.
    L'Avvocatura  osserva  che  il  riferimento  all'art. 151 c.p.m.p.
 appare improponibile anche  sotto  il  profilo  della  disparita'  di
 trattamento. Tale norma punisce, infatti, la "mancanza alla chiamata"
 del militare di leva, ossia un evento che non ha relazione alcuna con
 il  caso  in  esame.  Invero l'obiettore rifiuta deliberatamente, per
 ragioni di coscienza, la prestazione di qualsiasi servizio ed assume,
 quindi,  una preclusiva posizione di principio. Viceversa, la recluta
 che non si presenta alla chiamata entro  il  quinto  giorno  potrebbe
 anche essere un perfetto soldato ed aver commesso quell'omissione per
 motivi che, pur non giustificandolo, in nulla contrastino con la  sua
 volonta'  d'adempiere  all'obbligo  di prestare il servizio militare.
 L'art.  151  c.p.m.p.  configura,  in  sostanza,  un  reato  militare
 formale,  la  cui  fattispecie non appare confrontabile, anche per la
 gravita' di gran lunga minore, con la fattispecie prevista  e  punita
 dall'art.  8  della  legge n. 772 del 1972. Quanto alle altre censure
 prospettate dal giudice a quo l'Avvocatura  rileva  che  debba  esser
 tenuto  presente il disposto dell'art. 52 Cost. non tanto nella parte
 in cui proclama che la  difesa  della  Patria  e'  sacro  dovere  del
 cittadino  quanto  laddove viene prescritto che "il servizio militare
 e' obbligatorio nei limiti e  nei  modi  stabiliti  dalla  legge...".
 Infatti, l'avere il legislatore previsto, negli artt. 1 e segg. della
 legge n. 772 del 1972, il servizio militare non armato ed il servizio
 sostitutivo  civile  non  equivale  ad  aver  rinunciato  alla tutela
 dell'obbligatorieta' del servizio militare di leva. E tale tutela e',
 appunto, assicurata dal secondo comma dell'art. 8 della stessa legge,
 attraverso la  sanzione  penale:  quest'ultima  e',  invero,  l'unica
 reazione  adeguata  alla violazione d'un interesse costituzionalmente
 rilevante.
                         Considerato in diritto
    1. - Le questioni sollevate dalle ordinanze di rimessione, essendo
 identiche od analoghe, possono, riuniti i procedimenti, essere decise
 con unica sentenza.
    2.  -  Le  predette  ordinanze,  nel  sottoporre  a  controllo  di
 legittimita' costituzionale l'art. 8, secondo, terzo ed ultimo comma,
 della  legge  n. 772 del 1972, fanno riferimento agli artt. 2, 3, 13,
 25, secondo comma, 27, primo e terzo comma, Cost. e,  cioe',  a  quel
 complesso  di  parametri  che  consentono  di  qualificare il diritto
 penale come extrema ratio di tutela della societa'.  L'incriminazione
 penale,  secondo  le  ordinanze  di  rimessione,  sarebbe  consentita
 soltanto a tutela di beni di  rilevanza  costituzionale,  secondo  un
 principio   di   proporzionalita'  fra  beni  tutelati  ed  interessi
 sacrificati  dalla   sanzione   penale,   allorche'   sia   accertata
 l'insufficienza   degli   altri   strumenti   di   tutela  civile  od
 amministrativa. Poiche' con gli artt. 2 della legge 24 dicembre 1986,
 n. 958 e 1 e segg. della legge 15 dicembre 1972, n. 772 si rinuncia a
 pretendere dagli obiettori di  coscienza  l'adempimento  dell'obbligo
 del  servizio  militare, non esisterebbe piu', nei confronti di tutti
 gli obiettori  di  coscienza,  e  quindi  anche  di  quelli  indicati
 dall'art.  2  della citata legge n. 772 del 1972, la necessita' della
 tutela dell'obbligatorieta' del servizio militare.
    Nel  prendere in esame le argomentazioni ora riportate va premesso
 che le medesime arbitrariamente unificano tre distinti  principi:  il
 primo,  indicato  di recente da autorevole dottrina, secondo il quale
 non sono  legittime  incriminazioni  penali  a  tutela  di  beni  non
 espressivi  di valori costituzionalmente rilevanti (o significativi);
 il secondo, enunciato come principio di proporzionalita' (valido  per
 l'intero  diritto pubblico) a termini del quale la scelta dei mezzi o
 strumenti, da parte dello Stato, per raggiungere i  propri  fini  "va
 limitata  da  considerazioni razionali rispetto ai valori": nel campo
 del diritto penale, il principio equivale a negare legittimita'  alle
 incriminazioni  che,  anche  se  presumibilmente idonee a raggiungere
 finalita' statuali di prevenzione,  producono,  attraverso  la  pena,
 danni  all'individuo  (ai suoi diritti fondamentali) ed alla societa'
 sproporzionatamente maggiori dei vantaggi ottenuti (o da ottenere) da
 quest'ultima  con  la  tutela dei beni e valori offesi dalle predette
 incriminazioni; ed il terzo principio, di sussidiarieta' del  diritto
 penale (quest'ultimo considerato come extrema ratio) secondo il quale
 e' legittimo ricorrere alla sanzione penale  soltanto  allorche'  gli
 altri  rami  dell'ordinamento non offrano adeguata tutela ai beni che
 s'intendono garantire. I predetti principi, benche' collegati (ad es.
 la  non  legittimita' dell'incriminazione di fatti lesivi di beni non
 costituzionalmente rilevanti equivale anche a  ridurre  l'ambito  del
 penalmente  rilevante,  come sancito dal principio di sussidiarieta')
 sono  fra  loro  autonomi,  indipendenti  (ad  es.,  non  basta   che
 l'incriminazione  attenga ad un bene costituzionalmente rilevante per
 totalmente adempiere al principio di  sussidiarieta',  giacche',  ove
 gli  altri  rami siano in grado d'offrire adeguata tutela allo stesso
 bene, non e' legittimo che quest'ultimo sia penalmente garantito, non
 essendo  l'incriminazione  del fatto lesivo del predetto bene extrema
 ratio).
    3.  -  In  ordine  al primo dei principi ora ricordati, ed a parte
 ogni  questione  relativa  alla  censurabilita'  (od  ai  limiti   di
 censurabilita') in questa sede delle norme ordinarie violatrici dello
 stesso principio, non sorge alcun dubbio  sulla  significativita'  (o
 rilevanza) costituzionale dell'obbligatorieta' del servizio militare:
 le stesse ordinanze di rimessione, infatti, non  contestano  (e  come
 potrebbero?)  che  sia  costituzionalmente  garantito,  con  espressa
 dichiarazione, l'obbligatorieta' del servizio militare.
    Le   ordinanze   in   esame   sostengono,   invece,  che,  poiche'
 l'amministrazione militare, ai sensi degli  artt.  1  e  segg.  della
 legge  15 dicembre 1972, n. 772, rinuncia a pretendere la prestazione
 del servizio militare da parte degli  obiettori  di  coscienza,  allo
 stesso modo dovrebbe comportarsi nei confronti degli obiettori di cui
 all'art. 8, secondo  comma,  della  predetta  legge,  mancando  anche
 nell'ipotesi   di  cui  al  citato  comma  l'interesse  a  pretendere
 l'adempimento dell'obbligo del servizio militare; tanto piu'  che,  a
 pena espiata, il condannato viene esonerato, ai sensi del terzo comma
 dello stesso art. 8, dalla prestazione del servizio militare di leva.
    L'assunto, ora riportato, non e' condividibile.
    Anzitutto,  le  situazioni di cui agli artt. 1 e segg. della legge
 in esame sono certamente diverse da quelle di cui  al  secondo  comma
 dell'art.  8  della  stessa  legge.  Vale  appena  ricordare  che  la
 dottrina, sotto la generica etichetta di  "obiezione  di  coscienza",
 distingue  varie  specie  (obiezione  assoluta  e  relativa, totale e
 particolare, ecc.)  e  che  la  figura  dell'obiettore  di  coscienza
 prevista  dagli  artt. 1 e segg. della legge in discussione e' quella
 di chi, pur adducendo gli stessi motivi "di coscienza"  previsti  dal
 secondo  comma  dell'art. 8 (quest'ultimo comma, in ordine al movente
 del rifiuto ivi indicato, rinvia, infatti, ai motivi di cui  all'art.
 1) fa domanda, ai sensi del primo comma dell'art. 2, d'essere ammesso
 (cfr. art. 5) a prestare servizio  militare  non  armato  o  servizio
 alternativo  civile.  Or  la  situazione  di chi e' contrario all'uso
 personale delle armi per imprescindibili motivi di coscienza ma nello
 stesso tempo richiede ed ottiene d'essere ammesso a prestare servizio
 militare non armato o servizio alternativo civile e'  diversa  e  non
 comparabile  con l'ipotesi di chi, pur adducendo gli stessi motivi di
 coscienza, totalmente rifiuta, in tempo di pace,  prima  d'assumerlo,
 il  servizio  militare  di  leva,  rifiutandosi, cosi', d'adempiere a
 doveri di solidarieta' sociale sanciti dall'art. 2 Cost.
    Ne'   e'   accoglibile  l'assunto  secondo  il  quale  quanto  qui
 sostenuto, se vale nei confronti di coloro che non propongono domanda
 di   prestare   servizio   militare  non  armato  o  servizio  civile
 alternativo (soltanto la non presentazione di tale domanda indurrebbe
 a  ritenere  che  l'obiettore  di  coscienza,  nell'ipotesi di cui al
 secondo comma dell'art. 8, totalmente rifiuti il servizio militare di
 leva  ed insieme ogni tipo di servizio militare, anche non armato, ed
 ogni servizio alternativo  civile,  cosi'  dimostrando  avversione  a
 doveri  di solidarieta' sociale di cui all'art. 2 Cost.) non varrebbe
 nei confronti degli obiettori che la predetta domanda presentano, non
 ottenendo, tuttavia, d'essere ammessi al servizio militare non armato
 od al servizio civile alternativo.
    Anzitutto,  l'amministrazione  militare  dello  Stato non puo' non
 premunirsi contro eventuali frodi: ed all'uopo  la  legge  predispone
 strumenti  idonei  a  raccogliere  e verificare gli elementi utili ad
 accertare la fondatezza e sincerita' (cfr. art. 3, primo comma  e  4,
 terzo  comma,  della  legge  n.  772  del  1972)  dei  motivi addotti
 dall'obiettore  di  cui  al  primo  comma  della  stessa  legge   (la
 composizione  delle  commissioni all'uopo istituite e' specificamente
 tecnica):  e  d'altra  parte  la  dottrina,   nel   sottolineare   la
 discrezionalita'  puramente  tecnica  delle  predette commissioni, e'
 dell'avviso che al Ministro della difesa spetti  il  solo  potere  di
 controllo  sulla  legittimita' formale dell'operato delle commissioni
 stesse e sostiene che la non vincolativita' del parere delle predette
 commissioni  nei  confronti del Ministro (che decide sulla domanda di
 cui al primo comma dell'art. 3 della legge n. 772 del 1972)  riguardi
 soltanto la scelta tra l'assegnazione al servizio militare non armato
 ovvero a quello civile (qualora l'interessato non abbia esercitato la
 facolta'  di "optare" per il secondo) e ricorda anche che, per quanto
 la  legge  nulla  espressamente  disponga   sugli   eventuali   mezzi
 d'impugnazione   del   citato   decreto  ministeriale,  il  medesimo,
 trattandosi  di  atto  amministrativo,  e'  impugnabile,  secondo   i
 principi  generali  della  giustizia amministrativa, con ricorso agli
 organi di giurisdizione amministrativa o con ricorso straordinario al
 Presidente della Repubblica.
    Le  situazioni  di  cui  agli artt. 1 e segg. della legge in esame
 sono diverse da quelle di cui al secondo  comma  dell'art.  8,  anche
 perche', in queste ultime (non esiste, infatti, alcun controllo sulla
 fondatezza e sincerita' dei motivi addotti per il rifiuto di  cui  al
 precitato  comma) l'allegazione dei motivi vale sia per asseverare il
 rifiuto globale di prestare, in ogni  caso,  servizio  militare  (pur
 esistendo  la possibilita' di prestare servizio civile o militare non
 armato) sia per escludere dal trattamento di cui al secondo  e  terzo
 comma dell'art. 8 coloro che, a giustificazione del rifiuto, adducano
 motivi politici.
    E, certo, chi rifiuta d'adempiere a doveri di solidarieta' sociale
 costituzionalmente  sanciti  non  e'  equiparabile  a  chi,   invece,
 nell'atto  in cui dichiara d'essere contrario all'uso personale delle
 armi  per  imprescindibili,  giuridicamente  controllati,  motivi  di
 coscienza, quei doveri di solidarieta' puntualmente adempie chiedendo
 (ed ottenendo, essendo  fondati  e  sinceri  gli  addotti  motivi  di
 coscienza)  d'essere  ammesso  al  servizio militare non armato od al
 servizio civile alternativo.
    In  base  alle  precedenti considerazioni, va disatteso l'assunto,
 innanzi ricordato, secondo il quale il legislatore ordinario, per non
 aver  tutelato  il  bene  di cui al secondo comma dell'art. 52 Cost.,
 nelle ipotesi previste dagli artt. 1 e segg. della legge n.  772  del
 1972, avrebbe completamente rinunciato alla tutela dello stesso bene.
    Anzitutto,  il  legislatore  ordinario  non  puo' mai "sminuire" o
 "rinunciare" alla tutela di valori costituzionalmente  rilevanti  (e,
 perdippiu',  come  nella  specie, espressamente enunciati dalla Carta
 fondamentale). Ma e' lo stesso legislatore costituzionale a  sancire,
 nel  secondo  comma  dell'art. 52 Cost., che "il servizio militare e'
 obbligatorio nei limiti e modi stabiliti  dalla  legge".  L'avere  il
 legislatore  ordinario,  con  le  disposizioni  di cui agli artt. 1 e
 segg. della legge n.  772  del  1972,  subordinato  la  tutela  della
 prestazione del servizio militare armato, di cui all'art. 52, secondo
 comma,  Cost.,  alla  tutela  d'altro  bene,  pur  costituzionalmente
 rilevante,  la  liberta'  di  coscienza, nella situazione di cui agli
 stessi  articoli  (nella  quale,  si  ripete,  vengono   puntualmente
 realizzati  i doveri di solidarieta' sociale di cui all'art. 2 Cost.)
 non   equivale,   certo,    a    totale    rinuncia    alla    tutela
 dell'obbligatorieta' del servizio militare di cui al predetto secondo
 comma  dell'art.  52  Cost.:  tale  obbligatorieta'   e',   pertanto,
 legittimamente   tutelata   nell'ipotesi  di  cui  al  secondo  comma
 dell'art. 8 della legge n. 772 del 1972.
    4.   -   In   relazione   ai  precitati  altri  due  principi,  di
 "proporzionalita'"  e  "sussidiarieta'"  del   diritto   penale,   va
 precisato  che  soltanto il richiamo al principio di proporzionalita'
 risulta fondato, nel ristretto senso, come si avra'  modo  di  notare
 fra  poco, che risulta sproporzionata e manifestamente irrazionale la
 quantita' di pena comminata dal contestato secondo comma dell'art.  8
 della  legge  in  esame  per l'ipotesi delittuosa ivi prevista mentre
 infondato appare il richiamo al principio di "sussidiarieta'", almeno
 nei  limiti in cui tal richiamo puo' esser preso in considerazione in
 questa sede.
    Non   v'e'   dubbio,   infatti,   che   il   legislatore   non  e'
 sostanzialmente arbitro delle sue scelte criminalizzatrici  ma  deve,
 oltre  che  ancorare ogni previsione di reato ad una reale dannosita'
 sociale, circoscrivere, per quanto possibile, tenuto conto del  rango
 costituzionale  della  (con  la pena sacrificata) liberta' personale,
 l'ambito del  penalmente  rilevante  ma  e'  anche  indubbio  che  le
 valutazioni,  dalle  quali  dipende  la  riduzione  del  numero delle
 incriminazioni, attengono a considerazioni generali  (sulla  funzione
 dello Stato, sul sistema penale, sulle sanzioni penali) e particolari
 (sui danni sociali contingentemente provocati dalla stessa  esistenza
 delle  incriminazioni,  dal  concreto  svolgimento dei processi e dal
 modo d'applicazione delle sanzioni penali) che, per loro natura, sono
 autenticamente  ideologiche  e politiche e, pertanto, non formalmente
 controllabili in questa sede.  La  non  applicazione,  da  parte  del
 legislatore  ordinario, dei criteri informatori di politica criminale
 (quale   quello   di    "sussidiarieta'"    del    diritto    penale)
 costituzionalmente  sanciti,  possono,  infatti,  essere censurati da
 questa Corte solo per violazione del criterio di ragionevolezza e per
 indebita   compressione   del   diritto   fondamentale   di  liberta'
 costituzionalmente riconosciuto.
    L'aver  il  legislatore  ordinario  usato la sanzione penale della
 reclusione per il recupero alla comunita' nazionale di chi,  sia  pur
 adducendo  motivi  di coscienza, rifiuta d'adempiere agli obblighi di
 solidarieta'  sociale,  quale  quello  sancito  dal   secondo   comma
 dell'art.  52  Cost.,  non solo non e' manifestamente irrazionale ma,
 data la particolare gravita'  del  fatto  di  cui  al  secondo  comma
 dell'art.  8  della  legge  n. 772 del 1972, appare, nei limiti delle
 valutazioni qui operabili, sufficientemente giustificato. Ne' esiste,
 nell'incriminazione  di  cui  al  comma  da  ultimo  citato, indebita
 compressione del diritto fondamentale di liberta'  costituzionalmente
 riconosciuto,   giacche'   tale   compressione   viene   operata  per
 equilibrare la grave lesione ad un bene,  espressamente  riconosciuto
 dalla  Costituzione  e,  pertanto,  di  rilevanza  e significativita'
 costituzionale.
    Anche  se il legislatore avesse presunto per "fondati e sinceri" i
 motivi addotti dal soggetto attivo del  delitto  di  cui  al  secondo
 comma  dell'art.  8  della  legge  n.  772  del  1972,  non  erano  a
 disposizione dello  stesso  legislatore  altre  "impensabili"  misure
 sanzionatorie, quali, ad es. un assurdo, coatto servizio militare non
 armato od un, del pari assurdo, coatto servizio  civile  alternativo:
 non  rimaneva,  dunque,  per  il  recupero del soggetto attivo che il
 ricorso alla sanzione penale detentiva. Ed e' del tutto inaccoglibile
 l'assunto  secondo  il  quale,  nell'ipotesi  in  esame, una sanzione
 pecuniaria  avrebbe  potuto  raggiungere  lo   stesso   scopo   della
 reclusione, giacche' (a parte ogni questione relativa alla disparita'
 di posizioni, rispetto alla sanzione pecuniaria, degli  obbligati  al
 servizio  di  leva) come s'e' gia' avvertito, la gravita' del delitto
 importa, nella specie, tenuto anche conto  della  particolarita'  dei
 soggetti  attivi,  una  rieducazione  adeguata  ai  singoli devianti,
 realizzata   attraverso   "trattamenti"   carcerari    specificamente
 individualizzati.
    5. - Le ordinanze di rimessione contestano da un canto che la pena
 possa  favorire  il  condannato  (e  cio'  avverrebbe,   nell'ipotesi
 contestata, giacche', espiata la pena, il condannato e' esonerato dal
 servizio militare) e dall'altro che la stessa pena possa  raggiungere
 finalita' rieducative allorche', come nella specie, lo Stato promette
 all'autore  del   delitto,   in   conseguenza   dell'espiazione,   di
 raggiungere  lo  scopo  delittuoso,  e  cioe'  l'esonero dal servizio
 militare.
    Si   e'  gia',  innanzi,  dimostrato  che  il  ricorso  alla  pena
 detentiva, per il delitto di cui al secondo comma dell'art.  8  della
 legge  n.  772  del  1972,  non  e'  manifestamente irrazionale e non
 comprime arbitrariamente il diritto  di  liberta'  dell'autore  dello
 stesso  delitto:  non  e', pertanto, il caso di ripetere quanto si e'
 gia' osservato.
    Conviene,   tuttavia,  svelare  l'equivoco  nel  quale  cadono  le
 ordinanze  di  rimessione  nel  considerare,  ex   ante,   all'inizio
 dell'espiazione  della pena detentiva, quel che potra' accadere, alla
 fine dell'espiazione stessa, nelle sole ipotesi in  cui  l'esecuzione
 della pena non abbia raggiunto il recupero sociale del condannato.
    Questa  Corte  osserva  che  anche  nella  situazione prevista dal
 secondo comma dell'art. 8 della legge in  discussione  la  pena  deve
 perseguire,   come  di  regola,  il  recupero,  alla  comunita',  del
 deviante: anzi, il fatto che, ai sensi del precitato art. 8,  quarto,
 quinto,  sesto  e  settimo  comma, il condannato possa, anche durante
 l'esecuzione  della  pena  detentiva,   proporre   domanda   d'essere
 arruolato  nelle forze armate o d'essere ammesso al servizio militare
 non armato o ad un servizio sostitutivo civile e  che  l'accoglimento
 delle predette domande, nell'estinguere il reato, fa cessare, se v'e'
 stata condanna, l'esecuzione della  pena,  dimostra  che  l'interesse
 dello  Stato  al  "recupero",  alla "rieducazione" del reo, e', nella
 situazione in esame, realmente ed intensamente perseguito.
    Cio'  che  avviene, dopo l'espiazione della pena, nelle ipotesi in
 cui la rieducazione ed il recupero alla solidarieta' sociale del  reo
 non  sono  stati raggiunti (giacche' il condannato non ha proposto le
 domande sopracitate) non attiene  alla  finalita'  rieducativa  della
 pena:  quest'ultima,  sia  nel momento della comminatoria legislativa
 sia in quello dell'inflizione in sede giudiziaria  come  nel  momento
 dell'esecuzione  penitenziaria, tende, nel caso in esame, a suscitare
 nel reo l'esigenza d'adempiere ai prescritti doveri  di  solidarieta'
 innanzi  indicati  e,  in  particolare,  all'obbligo  di  prestare il
 servizio militare od altro servizio equiparato.
    Non  v'e'  dubbio,  fra  l'altro,  che  anche  la criticata, dalle
 ordinanze  di  rimessione,  previsione  dell'estinzione  del   reato,
 dell'esecuzione  della condanna, delle pene accessorie e d'ogni altro
 effetto penale (di cui all'ultimo comma dell'art. 8  della  legge  in
 discussione)  tende  ad  ulteriormente  stimolare la rieducazione (il
 ritorno alla solidarieta' sociale del reo): non  puo'  disconoscersi,
 infatti,  che  incentivo  notevole  a  proporre le domande per essere
 arruolati nelle  forze  armate  o  per  essere  ammessi  al  servizio
 militare non armato o ad un servizio civile alternativo e' costituito
 dalla promessa estinzione, appena  accolte  le  citate  domande,  del
 reato e d'ogni altro effetto penale della condanna.
    La  valutazione  che  il  legislatore  compie,  a  pena totalmente
 espiata, nelle ipotesi, e nelle  sole  ipotesi,  in  cui  l'integrale
 esecuzione  della  pena  e  gli  incentivi  ora ricordati non abbiano
 raggiunto la  finalita'  rieducativa,  ha  nulla  a  che  vedere  con
 quest'ultima,  che  deve essere perseguita durante tutta l'esecuzione
 della pena.
    Nelle citate ipotesi di mancata rieducazione, dopo l'esecuzione di
 tutta la pena, il legislatore ordinario non ha, in mancanza di  altre
 sanzioni idonee allo scopo, che un'alternativa: o una nuova condanna,
 con la tragica spirale delle "condanne  a  catena"  o  l'esonero  dal
 servizio  militare.  Il  terzo comma dell'art. 8 della legge in esame
 sceglie quest'ultima strada: tale scelta appare a  questa  Corte  non
 irrazionale, tenuto conto che, quand'anche potessero profilarsi altri
 obblighi, per il legislatore ordinario, di penalizzazione  per  fatti
 violativi di valori particolarmente significativi, costituzionalmente
 rilevanti, certo e' che non risulta costituzionalmente sancito  alcun
 obbligo  di  penalizzazione  per le violazioni all'interesse tutelato
 dal secondo comma dell'art. 52 Cost.  E  poiche'  l'accoglimento,  da
 parte del Ministro della difesa, delle domande di cui al quarto comma
 dell'art. 8 della legge in esame e' condizionata dal procedimento  di
 cui  all'art.  4 della stessa legge (quest'ultimo procedimento, si e'
 gia' sottolineato, non lascia spazio ad alcuna  discrezionalita'  non
 tecnicamente vincolata e, comunque, l'eventuale rigetto delle domande
 stesse e' soggetto alle normali impugnazioni stabilite, per principio
 generale,  nei  confronti  di  tutti  gli atti amministrativi; per le
 domande d'essere arruolati nelle forze armate, di cui al quinto comma
 dell'art.    8,   non   si   prospettano   particolari   ipotesi   di
 discrezionalita', a parte le disposizioni legislative che  prevedono,
 in  ogni  caso,  normali  ipotesi  d'esonero  dal  servizio militare)
 neppure puo' fondatamente sostenersi, come assumono le  ordinanze  di
 rimessione,  che  il giudice venga ridotto, nei casi d'estinzione del
 reato per  l'accoglimento  delle  domande  piu'  volte  citate  o  di
 prosecuzione  dell'esecuzione  della  pena  nelle  ipotesi di rigetto
 delle domande stesse, a far  da  notaio  all'accordo  Ministro  della
 difesa - obiettore di coscienza. Nessun accordo di tal genere risulta
 previsto nelle leggi qui  in  esame:  l'estizione  del  reato  viene,
 infatti,   condizionata   dalla   proposizione  delle  domande  sopra
 ricordate, che testimoniano, gia' per se stesse, l'avvenuto  recupero
 del   condannato   ai  doveri  di  solidarieta'  sociale  piu'  volte
 sottolineati, nonche' dall'accoglimento  delle  domande  stesse,  una
 volta    accertata,    attraverso    procedimenti    legislativamente
 disciplinati, la fondatezza e la sincerita' dei  motivi  addotti  dal
 richiedente,  per  i  casi  di  cui al quarto comma dell'art. 8 della
 legge n. 772 del 1972.
    E   certamente   non   irrazionale  appare  anche  l'ultima  parte
 dell'ultimo comma dell'impugnato art. 8 della legge n. 772 del  1972.
 Non  e'  irrazionale,  nel momento stesso in cui il condannato, ormai
 rieducato, presenta domanda d'essere arruolato nelle forze  armate  o
 d'essere  ammesso  al  servizio  militare non armato o ad un servizio
 civile, disporre che il tempo trascorso in stato  di  detenzione  sia
 computato   in  diminuzione  della  durata  prevista  per  i  servizi
 richiesti con la precitata domanda. La disposizione  in  esame,  dopo
 tutto quanto si e' innanzi precisato, non autorizza a ritenere che la
 detenzione equivalga al  servizio  militare  e  che  il  legislatore,
 nell'art.  8,  secondo  comma,  della  legge in esame, sostituisca la
 detenzione  al  (mancato)  servizio  militare.  Servizio  militare  e
 detenzione  sono,  nelle  rispettive  ragioni,  contenuti e fini, del
 tutto non comparabili: la detenzione prescritta  dal  citato  secondo
 comma   dell'art.   8  della  legge  in  esame  e'  normale  reazione
 dell'ordinamento  al  delitto  di  rifiuto  (totale)  d'adempiere  al
 servizio  militare  e  tende,  come  s'e'  chiarito,  a  rieducare il
 condannato,  ad  incentivarne  il   ritorno   alla   normalita'.   La
 valutazione,   secondo   la   quale   (a  termini  dell'ultima  parte
 dell'ultimo comma dell'art. 8 della gia'  piu'  volte  citata  legge)
 considerato   che   il   condannato  ha  offerto  concreti  segni  di
 ravvedimento e' sembrato al legislatore opportuno tener  conto  delle
 limitazioni  alla  liberta'  che  la detenzione comporta, ha, invece,
 nulla a che vedere con la legittima  detenzione  per  il  delitto  in
 esame.
    Non  risultano, dunque, nelle contestate disposizioni della legge,
 tranne quanto verra' dichiarato nel paragrafo successivo,  violazioni
 degli  artt.  2,  3,  13,  25 secondo comma, 27, primo e terzo comma,
 Cost. e neppure, per le considerazioni dianzi  precisate,  del  terzo
 comma dell'art. 103 Cost.
    6.  - Fondata e', invece, l'impugnativa, sollevata dalle ordinanze
 di rimessione e sulla quale ha particolarmente  insistito  la  difesa
 privata, relativa alla sproporzione della pena comminata, dal secondo
 comma dell'art. 8  della  legge  in  esame,  per  la  fattispecie  di
 rifiuto,  in  tempo di pace, prima d'assumerlo, del servizio militare
 di leva, adducendo i motivi di cui all'art.  1,  rispetto  alle  pene
 comminate per la fattispecie prevista dall'art. 151 del c.p.m.p.
    Questa  Corte  ha  gia'  piu'  volte  osservato  che  il principio
 d'uguaglianza, di cui all'art. 3, primo comma, Cost.,  esige  che  la
 pena  sia  proporzionata al disvalore del fatto illecito commesso, in
 modo  che  il  sistema  sanzionatorio  adempia,  nel  contempo,  alla
 funzione  di  difesa  sociale  ed  a quella di tutela delle posizioni
 individuali; ed ha aggiunto che le  valutazioni  all'uopo  necessarie
 rientrano  nell'ambito  del  potere discrezionale del legislatore, il
 cui  esercizio  puo'  essere  censurato,  sotto  il   profilo   della
 legittimita'  costituzionale,  soltanto nei casi in cui non sia stato
 rispettato il limite della ragionevolezza (cfr., ad es., le  sentenze
 (5  maggio)  25 maggio 1979, n. 26; (8 maggio) 20 maggio 1980, n. 72;
 (20 maggio) 27 maggio 1982, n. 103; (9 febbraio) 16 febbraio 1989, n.
 49).
    La  sanzione della reclusione da due a quattro anni, comminata dal
 secondo comma dell'art. 8 della legge in esame, per  il  delitto  ivi
 previsto, risulta, tenuto conto della disciplina sanzionatoria di cui
 all'art.  151  c.p.m.p.,  manifestamente  irrazionale.   Per   quanto
 subiettivamente  diversificati,  i  delitti  di  rifiuto del servizio
 militare per motivi di coscienza e di mancanza alla chiamata ex  art.
 151  c.p.m.p.  ledono,  con  modalita' oggettive analoghe, uno stesso
 interesse, quello ad una regolare incorporazione degli  obbligati  al
 servizio di leva nell'organizzazione militare. La notevole diversita'
 di trattamento  penale  tra  il  militare  che  rifiuta  il  servizio
 militare  adducendo  motivi  di  coscienza  (pena  edittale  da due a
 quattro  anni)  ed  il  militare   che,   mancando   alla   chiamata,
 sostanzialmente  rifiuta  lo  stesso  servizio  militare  senza alcun
 motivo o per motivi futili (pena edittale da sei  mesi  a  due  anni)
 apertamente   comporta   arbitraria,   sproporzionata  severita'  nei
 confronti del militare che adduce, a giustificazione del suo delitto,
 motivi di coscienza.
    Come,  nel  confronto  tra  le situazioni previste dagli artt. 1 e
 segg. e quelle di cui al secondo comma dell'art.  8  della  legge  in
 esame, si e' innanzi sottolineato non soltanto la diversita' ma anche
 la gravita' delle situazioni individuate  dal  citato  secondo  comma
 dell'art.  8, cosi', nel confronto tra la fattispecie tipica prevista
 dallo stesso secondo comma e quella di cui all'art. 151 c.p.m.p., pur
 nella   diversita'   (subiettiva)   delle  medesime  (che  e'  causa,
 unitamente alle altre ragioni  d'opportunita'  gia'  poste  in  luce,
 della  particolare  disposizione  di cui al terzo comma dell'art. 8 e
 cioe' dell'esonero dalla prestazione del  servizio  militare  a  pena
 espiata:  disposto  che  non  si rinviene nell'art. 151 c.p.m.p.) non
 puo' non sottolinearsi la lesione, con analoghe modalita'  oggettive,
 da parte di entrambi i fatti delittuosi, d'uno stesso bene giuridico.
 D'altra parte, il rimprovero di colpevolezza che si muove al soggetto
 attivo del delitto previsto dal secondo comma dell'art. 8 della legge
 in  esame,  non  potendo,  certo,  esser  quello  d'aver  addotto,  a
 giustificazione  (o  spiegazione)  del  delitto  commesso,  motivi di
 coscienza, risulta identico (od almeno analogo)  a  quello  mosso  al
 militare che manca alla chiamata ex art. 151 c.p.m.p., e cioe' quello
 d'aver   dolosamente   leso   l'interesse   statale   alla    normale
 incorporazione   nell'organizzazione   militare.  Va,  pertanto,  qui
 ribadito che l'adduzione di motivi di coscienza (come, del resto,  di
 qualsiasi  scelta ideologica) non puo', in nessun caso, condurre alla
 davvero sproporzionata (rispetto  a  quella  ex  art.  151  c.p.m.p.)
 sanzione  penale  di  cui al secondo comma dell'art. 8 della legge n.
 772 del 1972.
    Si  tenga  conto  che  e'  il  legislatore  che, nel codice penale
 militare di  pace,  ha  liberamente  e  discrezionalmente  scelto  la
 disciplina  sanzionatoria adeguata al disvalore del fatto di cui allo
 stesso articolo; disciplina applicabile a tutti i  soggetti  e  quali
 che  siano  i  moventi,  i motivi dell'azione delittuosa. Non puo' lo
 stesso legislatore, nell'art. 8, secondo comma, della  legge  n.  772
 del  1972,  irrazionalmente  contraddire la valutazione in precedenza
 operata (in generale e  senza  tener  tipicamente  conto  dei  motivi
 dell'azione  criminosa)  e  valutare  in  maniera  tanto  diversa  il
 disvalore dello  stesso  (od  analogo)  fatto  sol  perche'  commesso
 adducendo uno specifico motivo: quello di coscienza.
    E  non  si  manchi di riflettere che questa Corte, nel riferire la
 sanzione penale di cui al secondo comma dell'art. 8 della piu'  volte
 citata  legge  a  quella  edittalmente prevista per il delitto di cui
 all'art. 151 c.p.m.p., non fa che vincolatamente attuare,  anche  per
 il   fatto  di  cui  al  ricordato  secondo  comma  dell'art.  8,  la
 valutazione che il legislatore opera in  ordine  al  disvalore  dello
 stesso (od analogo) fatto di cui all'art. 151 c.p.m.p.
    Ne' si obietti che, mentre l'espiazione della pena inflitta per il
 delitto di rifiuto del servizio militare ex art.  8,  secondo  comma,
 della legge in discussione, comporta l'esonero dal servizio militare,
 non altrettanto avviene a seguito dell'espiazione della pena ex  art.
 151 c.p.m.p. Gia' innanzi si e' chiarito che la pena, qualsiasi pena,
 come non puo' essere inflitta per "favorire" il reo tanto  meno  puo'
 esser assurdamente sproporzionata al disvalore dell'illecito commesso
 sol perche', ad espiazione avvenuta, consente al  reo  l'esonero  dal
 servizio militare. Tal esonero, si e' gia' chiarito a sufficienza, ha
 nulla a che vedere con le finalita' della pena che, anche  in  questo
 caso,  dovendo  essere adeguata al disvalore del fatto commesso, deve
 tendere, come tutte le sanzioni penali, a  rieducare,  ai  sensi  del
 terzo   comma   dell'art.  27  Cost.,  il  condannato.  L'esonero  in
 discussione,  conseguenza  d'una  libera,  discrezionale  scelta  del
 legislatore  non appare violare la Carta fondamentale (non essendo lo
 stesso legislatore costituzionalmente vincolato da alcun  obbligo  di
 criminalizzazione   dei  fatti  lesivi  dell'interesse  tutelato  dal
 secondo comma dell'art. 52 Cost.) ne'  e'  irrazionale:  non  essendo
 ipotizzabili  altre  sanzioni  adeguate  al  caso particolarissimo in
 discussione, il legislatore ritiene d'interrompere la  spirale  delle
 "condanne  a catena", nella presunzione che, ormai, anche la sanzione
 penale non puo' piu'  raggiungere  gli  effetti  rieducativi  di  cui
 all'art. 27, terzo comma, Cost.
    In  conclusione,  l'art.  8, secondo comma, della legge n. 772 del
 1972, nella parte  attinente  alla  disciplina  sanzionatoria,  viola
 l'art. 3, primo comma, Cost.
    A  seguito delle precedenti considerazioni la pena edittale per il
 delitto di cui al secondo comma dell'art. 8 della legge  n.  772  del
 1972 va fissata, tenuto conto della pena edittale comminata dall'art.
 151 c.p.m.p., nella misura di sei mesi nel minimo e di due  anni  nel
 massimo.
    7.  - Alcune ordinanze di rimessione, come ricordato in narrativa,
 propongono anche questioni di legittimita'  costituzionale  dell'art.
 27 c.p.m.p., in riferimento all'art. 3 Cost.
    La questione non e' fondata. L'art. 27 c.p.m.p. non risulta lesivo
 dell'art. 3 Cost. Non e' irrazionale che alla pena  della  reclusione
 (non  militare)  inflitta  o  da  infliggere  a  militari,  per reati
 militari, sia sostituita la pena della reclusione militare  di  egual
 durata:  ne'  e' irrazionale l'eccezione, stabilita dallo stesso art.
 27  c.p.m.p.,  per  l'ipotesi   della   condanna   che   importi   la
 degradazione.
    Va  aggiunto  che  la  maggioranza  della  dottrina  fa  leva  sul
 meccanismo dell'art. 27 c.p.m.p.  per  riequilibrare  quello  che,  a
 parere   della   stessa  dottrina,  costituirebbe  una  "svista"  del
 legislatore: questi, infatti, commina, nel secondo comma dell'art.  8
 della  legge  in  esame, la pena della reclusione comune per un reato
 militare  commesso  da  militare.  Comunque,  quali  che   siano   le
 conclusioni   in   ordine   a   quella   che,  secondo  la  dottrina,
 costituirebbe "svista" del legislatore nel secondo comma dell'art. 8,
 certo e' che l'art. 27 c.p.m.p. non e' manifestamente irrazionale.