Ricorso della regione Emilia-Romagna, in persona dell'assessore Giuseppe Gavioli, delegato dal presidente ad esercitare le funzioni e i poteri attribuiti dalla legge e dallo statuto al presidente della giunta regionale in forza del decreto del presidente della giunta Luciano Guerzoni n. 525, prot. n. 1112/SG del 21 luglio 1989, autorizzato con deliberazione della giunta regionale 21 agosto 1989, n. 4043, rappresentato e difeso dall'avv. prof. Valerio Onida, ed elettivamente domiciliato presso l'avv. Gualtiero Rueca, in Roma, Largo della Gancia, 1, come da mandato a margine del presente atto, contro il Presidente del Consiglio dei Ministri per la dichiarazione della illegittimita' costituzionale degli artt. 1, 2 e 3 del d.-l. 28 luglio 1989, n. 265, recante "Misure urgenti per la riorganizzazione del servizio sanitario nazionale", pubblicato nella Gazzetta Ufficiale, serie generale, n. 176 del 29 luglio 1989. Non molto tempo fa, nel concludere il giudizio sulla legge finanziaria 1984 relativamente alla parte sanitaria, questa Corte aveva affermato "l'esigenza che il Parlamento riconsideri organicamente l'ordinamento del servizio sanitario nazionale. Non basta, cioe' - proseguiva la Corte - che venga riformata e snellita - secondo lo schema predisposto dal Ministro della Sanita' - l'organizzazione interna delle unita' sanitarie locali. Occorre, del pari, che si faccia chiarezza nell'attuale intreccio delle competenze, spettanti ai vari tipi di apparati corresponsabili in materia, evitando in particolar modo l'eccessiva moltiplicazione dei centri di autonomia, sia pure attuata nel formale rispetto della Costituzione. Ed e' ben chiaro, d'altronde, che non servono allo scopo le leggi finanziarie, ne' gli altri provvedimenti di carattere urgente o comunque contingente: la' dove sono in gioco funzioni e diritti costituzionalmente previsti e garantiti, e' infatti indispensabile superare la prospettiva del puro contenimento della spesa pubblica, per assicurare la certezza del diritto ed il buon andamento delle pubbliche amministrazioni, mediante discipline coerenti e destinate a durare nel tempo (sentenza n. 245/1984)". Dopo quella sentenza, la spesa sanitaria ha continuato pero' ad essere incontrollata, il legislatore ha continuato ad emanare "riformette" o interventi "tampone", con cui spesso la Corte costituzionale ha dovuto cimentarsi; il Governo ha continuato ad emanare decreti-legge; ed ha continuato a farlo anche dopo il recente monito della Corte, contenuto nella sentenza n. 302/1988 e dopo le limitazioni apposte all'uso dei decreti-legge dell'art. 15 della legge n. 400/1988 (che vieta, tra l'altro, la reiterazione dei decreti-legge bocciati dalle Camere e la regolamentazione con d.-l. dei rapporti giuridici sorti sulla base di decreti non convertiti, e impone che il decreto-legge contenga misure di immediata applicazione e abbia contenuto specifico, omogeneo e corrispondente al titolo). Nonostante la sentenza n. 245/1984 e nonostante la legge n. 400/1988, ancora una volta, col provvedimento impugnato, con cui si e' reiterato il decaduto d.-l. n. 199/1989 (che a sua volta reiterava il d.-l. n. 111/1989), si e' fatto ricorso al cattivo strumento della decretazione d'urgenza per imporre una disordinata, poco pensata e comunque lesiva dell'autonomia regionale, serie di modifiche all'ordinamento del servizio sanitario nazionale. Non solo le conseguenze di questo decreto-legge sono gravi nell'impatto con la corretta organizzazione del servizio sanitario nazionale, e discutibili per quanto riguarda la tutela del diritto alla salute dei cittadini, ma le disposizioni in esso contenute sono costituzionalmente illegittime per il modo in cui i rapporti Stato-regioni sono regolati dagli artt. 1, 2 e 3 del decreto, sia per quanto riguarda la trasformazione dei meccanismi di finanziamento del servizio sanitario, sia per quanto riguarda la procedura di riforma che gli artt. 2 e 3 vorrebbero attivare. 1. - Sul finanziamento della spesa sanitaria. L'art. 1 del decreto-legge e' incostituzionale, in primo luogo, per violazione degli artt. 3, 32, 77, 81, 97, 117 e 119 della Costituzione. L'art. 1 pone chiaramente a carico delle regioni la spesa sanitaria, senza garantire risorse adeguate e soprattutto senza attribuire alcuno strumento per il controllo dei fattori della spesa medesima. Il primo comma trasforma il fondo sanitario nazionale (esplicitamente soppresso dal diciottesimo comma) in fondo sanitario interregionale. Il fondo e' alimentato, per la parte corrente, dal gettito dei contributi di malattia al lordo delle quote eventualmente fiscalizzate; da stanziamenti integrativi a carico del bilancio dello Stato determinati per ciascun triennio dalla legge finanziaria e successive modificazioni anche per assicurare l'assistenza agli indigenti, le funzioni di igiene pubblica, prevenzione collettiva e sanita' pubblica veterinaria, e gli obiettivi del piano sanitario nazionale, nonche' da ogni altra entrata ad esso destinata; per la parte in conto capitale, da stanziamenti annuali a carico del bilancio dello Stato. La ripartizione del fondo e' effettuata da una commissione (prevista dal primo comma) composta da sette rappresentanti delle regioni e province autonome e da cinque rappresentanti dello Stato (due ciascuno in rappresentanza dei Ministri della sanita' e del tesoro, e uno per il Ministro del bilancio), sulla base di un sistema di coefficienti parametrici determinati dalla commissione su proposta del Ministro della sanita', tendenti ad un graduale riequilibrio nazionale nell'impiego delle risorse (i coefficienti parametrici devono tener conto di una serie di elementi indicati alle lettere a ) ed f) del terzo comma). Si precisa infine all'ottavo comma che "le quote del fondo sanitario interregionale di parte corrente assegnate alle regioni a statuto ordinario confluiscono nel fondo comune regionale con parte indistinta e concorrono a comporre il bilancio regionale di cui fanno parte integrante; ma non concorrono ai fini della determinazione del tetto massimo di indebitamento". Questo meccanismo dovrebbe sostituire quello previsto dall'art. 51 della legge n. 833/1978, come modificato dall'art. 1, della legge 23 ottobre 1985, n. 595. In questo modo, facendo confluire le quote regionali nel fondo comune, che rappresenta la quota di risorse genericamente a disposizione della regione per far fronte alle proprie spese (il d.l. n. 111/1989 definiva tali quote, riduttivamente, come "l'apporto finanziario centrale alla spesa sanitaria": pur se tale formulazione manca nel decreto-legge impugnato, si e' sostanzialmente di fronte alla stessa situazione), il decreto-legge impugnato fa gravare sulle regioni l'onere della spesa sanitaria eccedente le quote del fondo assegnato anno per anno (v. art. 1, nono e decimo comma): sulle regioni ricade in definitiva la responsabilita' della spesa sanitaria, cui esse dovrebbero far fronte riducendo altri interventi regionali (come poi possa cio' avvenire, essendo la finanza regionale quasi esclusivamente finanza derivata, non e' dato sapere), senza pero' che le regioni medesime abbiano la disponibilita' dei necessari strumenti di governo e di controllo della spesa sanitaria. La regione infatti non ha poteri sul personale, che e' regolato da accordi stipulati in sede centrale; non poteri sugli organici, che sono definiti e vincolati da provvedimenti statali; non poteri sugli standards dei servizi sanitari, che sono fissati al centro. Il processo di centralizzazione del governo della spesa sanitaria, sviluppato ed esasperato dalla farraginosa legislazione degli ultimi anni, e' estremizzato dal decreto-legge impugnato, che, contraddittoriamente, affida a determinazioni centrali l'individuazione di criteri e principi piu' o meno vincolanti su una serie estremamente ampia di oggetti (persino sulle procedure del controllo di gestione: art. 1, diciassettesimo comma). Attribuire alle regioni la responsabilita' della spesa, senza fornire ad esse i mezzi finanziari, e soprattutto senza attribuire loro alcuno strumento di governo e di controllo del settore, significa pero' evidentemente violare il principio di cui all'art. 81, quarto comma, della Costituzione. Proprio su questo necessario raccordo tra governo del settore e responsabilita' della spesa la Corte si e' esplicitamente pronunziata, dichiarando l'illegittimita' costituzionale dell'art. 29, secondo comma, n. 1, della legge n. 730/1983, nella parte in cui prevedeva che, per ripianare il disavanzo delle unita' sanitarie locali, le regioni fossero tenute - anziche' facoltizzate - a prelevare i fondi necessari dalla quota del fondo comune di cui all'art. 8 della legge n. 281/1970, quanto alle regioni a statuto ordinario, e dalle corrispondenti entrate di parte corrente previste dai rispettivi ordinamenti, quanto alle regioni a statuto speciale ed alle province autonome (sentenza n. 245/1984). L'illegittimita' rilevata dalla Corte in quell'occasione riguardava dunque lo stesso meccanismo che si vorrebbe ora nuovamente e in forma piu' radicale introdurre col decreto-legge impugnato: un meccanismo che obbliga le regioni a coprire i disavanzi di gestione del servizio sanitario ricorrendo al fondo comune, cioe' alla propria finanza ordinaria (v. di nuovo il nono e decimo comma dell'art. 1). Per giungere alla dichiarazione di illegittimita' dell'art. 29 della legge n. 730/1983, la Corte affermo' che le competenze regionali in materia sanitaria non bastano "a far concludere. . . che le amministrazioni regionali portino. . . l'effettiva responsabilita' degli eventuali disavanzi delle uu.ss.ll.". "Assunti del genere - continuo' la Corte - sono oltretutto smentiti dalla considerazione che la parte essenziale della spesa sanitaria ed ospedaliera non puo' non gravare sullo Stato. . . per l'evidente ragione che il diritto alla salute spetta egualmente a tutti i cittadini e va salvaguardato sull'intero territorio nazionale. Non e' pertanto casuale che la spesa in questione sia prevalentemente rigida e non si presti a venire manovrata, in qualche misura, se non dagli organi centrali di governo. E' appunto l'esigenza di pari trattamento, sottesa all'intera riforma sanitaria, che spiega per quali motivi le singole regioni non possano - almeno di regola - incidere sulla spesa farmaceutica e sugli altri oneri derivanti dalle prescrizioni mediche, sui ricoveri ospedalieri, sullo stato giuridico ed economico del personale dipendente dalle unita' sanitarie locali, sul regime del personale a rapporto convenzionale, sugli stessi acquisti dei beni e dei servizi indispensabili per il funzionamento delle unita' sanitarie locali". Gia' allora - a proposito della finanziaria 1984 - si discuteva di tickets: e la Corte ricordo' che soltanto lo Stato dispone "della potesta' di circoscrivere in tal senso la spesa, per mezzo dell'introduzione di tickets o con il ricorso ad altre analoghe misure di contenimento". La Corte costituzionale riconobbe esplicitamente che "gran parte della spesa sanitaria si forma indipendentemente dalle scelte regionali (e dalle stesse deliberazioni degli organi di gestione delle unita' sanitarie locali)": l'incostituzionalita' dell'allora impugnato art. 29 dipese proprio dal fatto che esso "di questo dato. . . non tiene il minimo conto, imponendo comunque alla regione il ripiano del disavanzo, quali che siano i fattori che lo abbiano prodotto". La stessa censura non puo' non colpire l'impugnato art. 1 del d.-l. n. 265/1989. Dalle posizioni ricordate la Corte non si e' discostata nemmeno nella propria successiva giurisprudenza, in tutte le occasioni in cui le si sono posti problemi variamente attinenti al finanziamento del servizio sanitario. Nella decisione sul contestatissimo criterio della "spesa storica", la Corte ha ribadito "il carattere peculiare del fondo sanitario ( ex art. 51, secondo comma, della legge n. 833/1978), che. . . e' stato istituito al fine di garantire livelli minimi di prestazioni in modo uniforme su tutto il territorio nazionale " (sentenza n. 212/1988). Nella decisione sulla legge finanziaria 1986, ancora, la Corte salvo' alcuni strumenti di centralizzazione del controllo e del governo della spesa sanitaria, affermando che "tanto le finalita' quanto le esigenze sopra descritte sono correlate strettamente allo scopo essenziale del servizio sanitario, cioe' a quello che consiste nella tutela della salute umana. . . e nel rendimento, anche mediante il riequilibrio di situazioni strutturali locali, di servizi sanitari uniformi a tutti i cittadini secondo i predetti standards nazionali" (sentenza n. 64/1987). Eguali argomenti, infine, si ritrovano anche nelle sentenze nn. 177 e 294 del 1986. E ancora, nella recentissima sentenza n. 452/1989 la Corte costituzionale, nel dichiarare incostituzionale la disposizione della legge n. 37/1989 che escludeva di porre a carico dello Stato le spese eventualmente eccedenti il tetto fissato dalla stessa disposizione, ha sottolineato che la garanzia dell'autonomia finanziaria delle regioni e delle province autonome "comporta che non possano essere addossati al bilancio regionale (o provinciale) gli oneri derivanti da decisioni non imputabili alla regione stessa (o alla provincia autonoma) o che, comunque, dipendono dall'esigenza di tutelare interessi pubblici o diritti costituzionali dei cittadini, la cui cura e' affidata dalla Costituzione soltanto in parte - e non certo quella essenziale - alla regione". Ha ricordato infatti la Corte in questa recentissima sentenza come la disciplina legislativa intervenuta successivamente alle norme di legge giudicate con la piu' volte richiamata sentenza n. 245/1984 non abbia in alcun modo "spostato a favore delle regioni la responsabilita' della spesa sanitaria". La garanzia di servizi sanitari adeguati e uniformi per tutti i cittadini rende rigida e largamente vincolata la spesa sanitaria e ne permette un governo centralizzato: ma, se cosi' e', non si possono accollare alle regioni i disavanzi della gestione sanitaria. Il decreto-legge impugnato, che vorrebbe invece scaricare sul fondo comune tutta la spesa sanitaria non coperta dal fondo sanitario (nazionale o interregionale) e' dunque costituzionalmente illegittimo: a) per violazione dell'art. 81, quarto comma, della Costituzione, e dell'art. 27 della legge n. 478/1978, in quanto impone alle regioni nuove spese senza fornire ad esse i mezzi per farvi fronte; b) per violazione degli artt. 117 e 119 della Costituzione, in quanto non tiene minimamente conto delle esigenze di coordinamento della spesa statale con la spesa regionale, e scarica sulla finanza regionale spese che non possono essere sostenute alle regioni, con evidenti ripercussioni negative anche sulle capacita' operative delle regioni nelle altre materie di loro competenza; c) per violazione degli artt. 3 e 32 della Costituzione, poiche' - in contrasto con l'esigenza di parita' di trattamento dei cittadini in materia sanitaria - forma le condizioni per una ingiustificata differenziazione, anche profonda, dei servizi garantiti; d) per violazione, ancora, degli artt. 77 e 97 della Costituzione. Per quest'ultimo profilo di violazione, ci si puo' richiamare al passo ricordato in apertura del presente ricorso della gia' citata sentenza n. 245/1984. A cinque anni di distanza da quella sentenza, il ricorso al decreto-legge assume il sapore di una beffa, o forse e' la testimonianza di una palese incapacita' di governare il settore sanitario. La regione ricorrente, comunque, non puo' non sottolineare come il ricorso alla decretazione di urgenza in materia di competenza regionale, da un lato, sia lesivo della sua posizione costituzionalmente garantita, impedendo ad essa, cosi' come alle altre regioni, di attivare quei canali di partecipazione alla decisione politica che il procedimento legislativo, pur in materia imperfetta, prevede e garantisce; dall'altro, sia continua fonte di difficolta' amministrative, che si riverberano nella violazione dell'art. 97 della Costituzione. 2. - Sulla riorganizzazione delle strutture del servizio sanitario. Il decreto-legge impugnato vi'ola l'autonomia regionale anche sotto altri profili. Con il primo comma dell'art. 2 si impone alla legge regionale o provinciale di disciplinare, entro sei mesi dalla data di entrata in vigore della legge di conversione del decreto, una serie di oggetti relativi all'organizzazione del servizio sanitario, e in particolare: a) "l'istituzione di un apposito organismo con il compito di provvedere alla ripartizione delle risorse alle aziende unita' sanitarie locali e ospedaliere (...), esercitando funzioni di impulso, di direzione tecnica, di vigilanza e di controllo di gestione e con il compito altresi' di consolidare i bilanci a livello regionale"; b) la delimitazione delle uu.ss.ll. secondo ambiti di popolazione o territoriali; c) l'attribuzione alle uu.ss.ll. della natura di azienda di servizi con personalita' giuridica e con autonomia organizzativa, amministrativa, patrimoniale e contabile; d) l'individuazione degli organi delle unita' sanitarie locali (consiglio di amministrazione, presidente, direttore generale, collegio dei revisori); e) norme sull'amministrazione straordinaria delle uu.ss.ll.; f) norme transitorie sul trasferimento dei rapporti alle nuove uu.ss.ll. A differenza del d.-l. n. 111/1989 che, con scarsissima sensibilita' istituzionale, affidava addirittura ad un atto di indirizzo e coordinamento l'individuazione delle linee di riforma organizzative e finanziarie delle uu.ss.ll., l'art. 2 del d.-l. n. 265 detta direttamente alcuni criteri relativi agli organi di governo delle uu.ss.ll. e in particolare al direttore generale, di cui al terzo comma prevede le modalita' di nomina e il quarto comma i poteri. La stessa legge regionale o provinciale, prevista dall'art. 2, primo comma, dovra', ai sensi dell'art. 3 del decreto-legge altresi' prevedere la trasformazione degli istituti di ricovero e cura a carattere scientifico di diritto pubblico, degli ospedali pubblici di alta specializzazione, di quelli di grandi dimensioni con almeno seicento posti letto e dotati di un complesso di almeno sedici divisioni e servizi a direzione apicale alla data del 28 febbraio 1989, nonche' degli ospedali clinicizzati, in aziende ospedaliere con struttura amministrativa ed organizzativa autonoma, con al vertice un direttore generale, sempre secondo i criteri dettati dal secondo comma dell'art. 2. Ad un atto di indirizzo e coordinamento rinvia l'art. 1, sedicesimo comma, per l'indicazione del "quadro dei criteri per adottare norme di contabilita' atte ad individuare e responsabilizzare i centri di spesa delle aziende sanitarie locali e ospedaliere". La mancata approvazione della legge regionale o provinciale nei termini previsti autorizza il Governo a provvedere in via sostitutiva (art. 2, quinto comma, e 3, quarto comma: in quest'ultima disposizione si usa una formula leggermente diversa, per cui e' lo "Stato", e non il "Governo", a provvedere in via sostitutiva, "sentita la regione"). Al potere sostitutivo si ricorre altresi' qualora la regioni e le province autonome non provvedano, nel termine di quattro mesi dalla data di entrata in vigore del decreto, alla emanazione di un regolamento concernente le modalita' per l'esercizio della libera professione all'interno degli ospedali e delle strutture ambulatoriali (art. 3, sesto comma). Non si sa bene per quale ragione, in questo caso non si parla specificatamente di potere sostitutivo dello Stato, ma si richiama l'art. 6, secondo comma, della legge 23 ottobre 1985, n. 595, che recita: "In caso di persistente inattivita' degli organi regionali nell'esercizio delle funzioni in materie sanitarie, qualora si tratti di adempimenti da svolgersi entro termini perentori previsti da leggi o risultanti dalla natura degli interventi da realizzare, il Consiglio dei Ministri, su proposta del Ministro della Sanita', dispone il compimento degli atti relativi in sostituzione dell'amministrazione regionale". La formulazione e' sicuramente piu' meditata di quella contenuta nel decreto-legge di cui trattasi, ma la sostanza e' sempre la previsione del potere sostitutivo: non si capisce allora se il richiamo all'art. 6 della legge n. 595/1985 serva ad evitare di ricorrere ancora una volta alla formula "in via sostitutiva", o nasconda una qualche intenzione di differenziare i primi due casi di intervento sostitutivo da quest'ultimo³ Il decreto-legge impugnato si prefigge dunque di riorganizzare una parte fondamentale del servizio sanitario, cosi' come previsto dalla legge n. 833/1978, per il tramite di una procedura, a dir poco, peculiare, a causa della abnorme previsione di poteri sostitutivi nel caso di mancata approvazione della legge regionale o provinciale. L'impugnazione del precedente decreto n. 111 ha fatto si' che venissero eliminati alcuni profili di palese incostituzionalita' (a dir poco aberrante era la previsione per cui i criteri che le regioni avrebbero dovuto rispettare nell'emanazione delle leggi di riforma sarebbero stati posti con un atto di indirizzo e coordinamento): rimangono purtuttavia alcune previsioni gravemente lesive dell'autonomia regionale. Infatti, oltre all'eccessivo dettaglio di alcune disposizioni (v. ad esempio art. 2, quarto comma, il decreto-legge continua ad essere viziato a causa di una abnorme utilizzazione del potere sostitutivo. Con disposizione davvero sconcertante, l'art. 2, quinto comma, del decreto-legge impugnato prevede che "qualora la regione o la provincia non provvedano all'approvazione della legge di cui al primo comma, nel termine ivi previsto, il Governo provvede in vis sostitutiva". Una previsione simile e' contenuta anche nell'art. 3, quarto comma; e l'esercizio di un potere sostitutivo e' previsto altresi' dall'art. 3, sesto comma. Ora, di poteri sostitutivi, com'e' noto, si e' negli anni piu' recenti parlato frequentemente, e la stessa giurisprudenza costituzionale e' stata piu' volte chiamata ad esprimersi in proposto (v. sentenze nn. 151, 177 e 294 del 1986). Una recente sentenza ha infine tentato di precisare in modo sistematico i limiti cui questa forma di intervento extra ordinem deve essere sottoposta (sentenza n. 177/1988). Ha precisato anzitutto la Corte che "quando e' previsto nei rapporti tra Stato e regioni in relazione alle materie proprie di queste, il controllo sostitutivo, pur conservando i suoi caratteri essenziali, assume connotazioni particolari, legate al fatto che, nel caso, tale potere ha di fronte a se' un'autonomia politica e amministrativa costituzionalmente definita e garantita". Tali caratteri sono stati cosi' precisati dalla Corte: "Innanzitutto, si tratta di un potere collegato a posizioni di controllo o di vigilanza, ovviamente esulanti da relazioni di tipo gerarchico, che puo' essere esercitato dallo Stato soltanto in relazione ad attivita' regionali sostanzialmente prive di discrezionalita' nell' an (anche se non necessariamente nel quid o nel quomodo), ora perche' sottoposte per legge (o norme equiparate) a termini perentori, ora per la natura degli atti da compiere, nel senso che la loro omissione risulterebbe tale da mettere in serio pericolo l'esercizio di funzioni fondamentali ovvero il perseguimento di interessi essenziali che sono affidati alla responsabilita' finale dello Stato. In secondo luogo, il controllo sostitutivo nei confronti di attivita' proprie delle regioni puo' essere legislativamente previsto a favore dello Stato soltanto come potere strumentale rispetto all'esecuzione o all'adempimento di obblighi ovvero rispetto all'attuazione di indirizzi o di criteri operativi, i quali siano basati su interessi tutelati costituzionalmente come limiti all'autonomia regionale (v. sentenze nn. 177 e 294 del 1986, 64 e 304 del 1987). Solo in tali ipotesi, infatti, possono riscontrarsi interessi in grado di permettere allo Stato, quando ricorrano le necessarie condizioni di forma e di sostanza per un intervento sostitutivo, di superare eccezionalmente la separazione di competenza tra lo Stato stesso e le regioni stabilita dalla Costituzione (o dagli statuti speciali) nelle materie attribuite all'autonomia regionale (o provinciale). In terzo luogo, il potere sostitutivo puo' essere esercitato nei confronti delle regioni (o delle province autonome) soltanto da un'autorita' di Governo, nello specifico senso di cui all'art. 92 della Costituzione..... Infine, l'esercizio del controllo sostitutivo nei rapporti tra Stato e regioni (o province autonome) dev'essere assistito da garanzie, sostanziali e procedurali, rispondenti ai valori fondamentali cui la Costituzione informa i predetti rapporti e, specialmente, al principio della 'leale cooperazione'. . . (v. sentenze nn. 153 e 294 del 1986). E fra queste garanzie deve considerarsi inclusa l'esigenza del rispetto di una regola di proporzionalita' tra i presupposti che, nello specifico caso in considerazione, legittimano l'intervento sostitutivo e il contenuto e l'estenzione del relativo potere, in mancanza della quale quest'ultimo potrebbe ridondare in un'ingiusta compressione dell'autonomia regionale (v. sentenze nn. 177 e 294 del 1986)" (v. ancora recentemente in questo senso sentenza n. 101/1989). Nella specie, non si tratta di sostituire un adempimento regionale la cui omissione potrebbe mettere in pericolo il perseguimento di interessi essenziali affidati allo Stato, ma di sostituire il legislatore regionale nella realizzazione di una vera e propria riforma istituzionale delle uu.ss.ll. Ne' si potrebbe invocare l'interesse dello Stato a che i principi' fondamentali da esso stabiliti non rimangano lettera morta per l'inerzia dei legislatori regionali, posto che a questo fine altri sono gli strumenti giuridici previsti dal nostro ordinamento, dall'effetto abrogativo della nuova legge statale di principi' sulle leggi regionali preesistenti in contrasto con i principi' medesimi (art. 10 della legge n. 62/1953), alla facolta', per il legislatore statale, di dettare normative di dettaglio "cedevoli" da valere fino all'entrata in vigore delle norme regionali conformi ai nuovi principi' (sentenza n. 214/1985). Per la stessa ragione non puo' qui invocarsi il fondamento del potere sostitutivo consistente nella necessita' di tutelare interessi che si configurino come limiti all'autonomia regionale. Non e' nemmeno possibile, poi, discorrere del rispetto del principio di "leale cooperazione", rivolgendosi il potere statale addirittura a sostituire l'esercizio della potesta' legislativa regionale. In realta', peraltro, non e' neanche il caso di porsi il problema se i requisiti indicati dalla Corte siano stati nella specie rispettati. E' sufficiente sottolineare appunto che con il decreto-legge impugnato si pretende che il Governo eserciti il potere sostitutivo nei confronti della legge regionale. La gravita' e l'incongruita' di tale previsione appaiono palesi. Anche chi fosse poco sensibile agli aspetti teorici del rapporto tra autonomie regionali e potere esecutivo, e poco attento ai dati sistematici da cui emerge che il controllo sulla legge regionale deve avvenire nelle sole forme dell'art. 127 della Costituzione, mentre la sanzione estrema nei confronti dell'autonomia regionale e' lo scioglimento del consiglio regionale; anche chi volesse ignorare la stessa giurisprudenza costituzionale in tema di funzione legislativa regionale (v. la sentenza n. 70/1985, secondo cui il giudice penale non puo' "giudicare l'omesso o intempestivo esercizio della funzione legislativa dato che essa costituisce estrinsecazione delle scelte politiche - e percio' libere - della regione, con le quali si determina, nella materia medesima, l'indirizzo politico regionale" e di autonomia regionale in genere (v. la recente dichiarazione di incostituzionalita' del potere governativo di annullamento straordinario di atti della regione: sentenza n. 229/1989), non potrebbe non arrestarsi di fronte al problema: con quali strumenti il Governo provvederebbe in via sostitutiva nel caso di mancata approvazione della legge regionale? In realta', strumenti di tal fatta in mano al Governo non ve ne sono e non potrebbero esserci, per la decisiva ragione che in atto non legislativo del Governo non puo' mai, per definizione, sostituire la legge regionale. La ipotetica "sostituzione" del legislatore regionale inadempiente potrebbe avvenire solo ad opera del legislatore statale (che a questo fine potrebbe dettare norme "cedevoli", secondo il modello di cui alla sentenza n. 214/1985 di questa Corte). Ma le disposizioni in esame non possono certo essere lette come se prescrivessero (con efficacia giuridica del tutto inesistente) un futuro intervento legislativo dello Stato. Resta, allora, la previsione di un potere sostitutivo "impossibile" ad esercitarsi, a meno che davvero i redattori del decreto-legge impugnato non abbiano immaginato di poter conferire al Governo il potere di emanare atti amministrativi che tengano luogo della legge regionale nel disciplinare la struttura delle uu.ss.ll. in una singola regione ipoteticamente inadempiente. Ma in questo caso l'enormita' della rottura del sistema costituzionale delle fonti e delle competenze, nonche' della lesione ai principi' di autonomia, appare davvero tale, da non richiedere ulteriori parole per essere dimostrata. Ne' meno palese e' l'illegittimita' della disposizione del sesto comma dell'art. 3, in cui si configura l'esercizio del potere sostitutivo del Governo, previsto in generale dall'art. 6, secondo comma, della legge n. 595/1985, nei riguardi di una potesta' regolamentare delle regioni, e cioe' nel caso in cui queste non stabiliscano entro il "termine perentorio" di quattro mesi, con "proprio regolamento", le modalita' per l'esercizio della libera professione all'interno delle strutture sanitarie pubbliche. Il riferimento all'art. 6, secondo comma, della legge n. 595/1985 e' palesemente improprio, poiche' tale disposizione prevede il compimento da parte del Governo di atti "in sostituzione dell'amministrazione regionale", mentre qui si tratterebbe si sostituire la regione non gia' nell'esplicazione di funzioni dell'amministrazione, bensi' nell'esplicazione della potesta' normativa regolamentare, spettante fra l'altro al consiglio regionale ai sensi dell'art. 121 della Costituzione. Anche la potesta' regolamentare, come quella legislativa, e' esplicazione di autonomia normativa e pertanto non potrebbe essere supplita se non attraverso l'esplicazione di una potesta' egualmente normativa dello Stato. Ma nella specie non e' nemmeno ipotizzabile che sia un regolamento statale a sostituire quello regionale mancante, sia perche', nel vigente sistema delle fonti, nelle materie di competenza regionale non sussiste una potesta' regolamentare del Governo (cfr. infatti l'art. 17, primo comma, lett. b), della legge n. 400/1988, che esclude l'esercizio della potesta' regolamentare di attuazione e integrazione delle leggi recanti norme di principio nelle "materie riservate alla competenza regionale"); sia perche' comunque gli atti previsti dall'art. 6, secondo comma, della legge n. 595/1985, cui rinvia l'art. 3, quinto comma, del decreto-legge impugnato, non sono e non possono essere in nessun caso atti normativi regolamentari, non essendo, oltre tutto, formati secondo le procedure proprie di questi ultimi, disciplinate dall'art. 17 della legge n. 400/1988 (parere del Consiglio di Stato, delibera del Consiglio dei Ministri e decreto del Presidente della Repubblica, ovvero determinazione di uno o piu' ministri, previo parere del Consiglio di Stato, per i regolamenti ministeriali o interministeriali). Anche in questo caso ci si trova dunque di fronte ad un potere sostitutivo improprio, "impossibile" e lesivo di fondamentali principi' costituzionali sul sistema delle fonti e sull'autonomia regionale. La verita' e' che "riforme cosi' importanti come quella del settore sanitario non si avviano con atti poco pensati, emanati da Governi perennemente sull'orlo della crisi o appena entrati nell'esercizio delle loro funzioni, senza una seria preparazione politica e istituzionale: nella seconda reiterazione si sono evitati gli aspetti piu' rozzi, del primo decreto-legge, si e' modificato qualche aspetto della imposizione dei tickets; ma certo rimane la sensazione di trovarsi ancora una volta ad un atto che mai sara' in grado nemmeno di avviare una seria riforma; e che i primi articoli, che proclamano riforme, minacciando le regioni inadempienti di interventi sostitutivi, servano solo a fornire una copertura alla volonta' di "trovar soldi" da qualche parte per finanziare un settore sanitario e perennemente in crisi.