LA CORTE D'APPELLO
    Ha pronunciato la seguente ordinanza nella causa civile iscritta a
 ruolo in data 10 novembre 1987 al n. 633/1987  r.g.  e  promossa  con
 atto  di  citazione  in appello notificato in data 3 novembre 1987 da
 Tschigg  Filomena,  rappresentata  e  difesa  dagli  avvocati   Dante
 Migliucci   di   Bolzano   e   Bonifacio   Giudiceandrea  di  Trento,
 quest'ultimo  domiciliatario,  per  delega  a  margine  dell'atto  di
 citazione  d'appello,  appellante,  contro Zublasing Heinrich, Erika,
 Carmen, Hannelore, rappresentati e  difesi  dagli  avvocati  Reinhart
 Volgger  di  Bolzano  e  Gianni  Giovannini  di  Trento, quest'ultimo
 domiciliatario, per delega  a  margine  della  comparsa  di  risposta
 d'appello,  appellata,  con  l'intervento  del  p.m.  di questa corte
 d'appello, oggetto: separazione coniugale.
    Appello  avverso la sentenza del tribunale di Bolzano n. 839/1987.
    Causa  ritenuta  in decisione all'udienza collegiale del 20 giugno
 1989.
                               F A T T O
    Il  tribunale  di  Bolzano,  con  sentenza  7  agosto 1987, n. 839
 (notificata 5 ottobre 1987) ha pronunciato la  separazione  personale
 dei   coniugi:   con   "addebito"   alla   convenuta  moglie,  e  con
 "affidamento"  dei  figli  minori  all'attore  marito.  Con  atto  di
 citazione  di  appello notificato 3 novembre 1987 (iscrizione a ruolo
 depositata il 10 novembre 1987) la soccombente convenuta ha  proposto
 impugnazione  avanti  a questa corte d'appello. Ha chiesto l'addebito
 ad entrambi i coniugi e l'affidamento ad essa, del minore, od  almeno
 il  diritto  di visita; ha chiesto altresi' la corresponsione, previa
 consulenza  tecnica,  di  meta'  dell'attuale   valore   dell'azienda
 familiare;  ha  chiesto  infine  la  corresponsione  di un assegno di
 mantenimento. Il c.i. visti gli artt. 8 e  23  della  legge  6  marzo
 1987,  n.  74,  ha  disposto la restituzione degli atti al presidente
 della sezione, il quale ha fissato udienza collegiale  in  camera  di
 consiglio.
    Alla  stessa,  il  p.m.,  intervenutovi,  ha  chiesto  denuncia di
 incostituzionalita'.
                             D I R I T T O
    Questa  corte d'appello ha gia' avuto occasione, in altre cause di
 separazione personale (Pirhofer-Janser n. 334/1988 r.g.: ordinanza 17
 febbraio  1989;  Odorizzi-Da  Roit  n.  633/1987: ordinanza 24 aprile
 1989) di denunciare di incostituzionalita' le  norme  suddette  della
 legge  n.  74/1987,  laddove  esse  stabiliscono  che  l'appello deve
 decidersi in camera di consiglio.
    In  questa  causa,  la  corte si e' riservata, in esito alla detta
 udienza collegiale camerale (come tale non pubblica) la decisione.
    Il  contenuto della presente decisione e' pero' condizionato dalla
 validita' (costituzionale) o meno, delle citate norme. Se  esse  sono
 valide,  devesi entrare nel merito della causa e su di esso decidere;
 se esse non sono valide, devesi, a pena  di  nullita'  dell'emittenda
 sentenza,  disporre  la rinnovazione della udienza collegiale, ma non
 piu' in forma camerale, bensi' in quella pubblica di discussione.  La
 questione di costituzionalita' e' quindi "rilevante" in causa.
    Distintamente  osservasi  che  esiste  un altro autonomo motivo di
 rilevanza in causa.
    Infatti,  le  impugnazioni,  col  rito  camerale, vanno introdotte
 mediante ricorso (depositato nel termine) e  non  mediante  citazione
 (notificata nel termine).
    Nella  specie,  l'appellante  Tschigg  Filomena  ha  depositato il
 proprio  atto  di  citazione  (ammettesi:  l'atto  di  citazione   e'
 "conservabile" come ricorso e l'iscrizione a ruolo vale come deposito
 di esso) oltre il termine predetto cioe' oltre il  trentesimo  giorno
 dalla notificazione della sentenza (cfr. date sopra).
    Il  che,  se  e'  valida  la normativa suddetta che impone il rito
 camerale  (rito  che  sarebbe  assurdo  restringere  alla  sola  fase
 collegiale  finale,  dappoiche'  non si vedrebbe lo scopo utile della
 innovazione),   comporterebbe   inammissibilita'    dell'impugnazione
 dell'Oddorizzi.
    Passando  ora  all'esame  della  "non manifesta infondatezza della
 questione", osservasi  che  la  pubblicita'  dell'udienza  collegiale
 (rif.   art.  101,  primo  comma,  della  Costituzione)  puo'  essere
 rinunciata, dal legislatore ordinario, soltanto eccezionalmente:  per
 obbiettiva   e   razionale  giustificazione  (cfr.  da  ultimo  Corte
 costituzionale 16 febbraio 1989, n. 50). Non sembra a  questa  corte,
 che,  nella  materia  delle separazioni personali e dei divorzi, tali
 giustificazioni  esistessero.  Le  necessita'  di  sollecitudine  non
 bastano:  altri infatti sono i mezzi processuali idonei a dar luogo a
 corsie  preferenziali:  ad  es.   codificazione   di   priorita'   di
 trattazione, oppure procedure contenziose particolari.
    Lo  stesso  fatto  che,  per  il  primo  grado,  sia  risultato al
 legislatore ancora necessaria la forma  contenziosa,  contraddice  la
 non  necessita'  di essa per il secondo grado. Tanto piu' che poi, in
 grado di Cassazione, il processo torna ad essere contenzioso. E tanto
 piu'  che appare irrazionale che le maggiori garanzie del contenzioso
 vengano meno proprio nel grado ultimo della cognizione  in  punto  di
 fatto, e cioe' nel grado piu' incisivo di "merito".
    Distintamente osservasi che tali rilievi finiscono col riflettersi
 sull'intera scelta del rito camerale  in  luogo  di  quello  naturale
 contenzioso  d'appello,  fatta  dal  legislatore (rif. artt. 3, primo
 comma, 24, secondo comma, della Costituzione). Ferma,  di  principio,
 la  facolta'  del legislatore di trasferire alla trattazione camerale
 anche materie di  contenuto  contenzioso,  ritiensi  che  l'esercizio
 della  facolta'  stessa non possa essere privo di limiti. Ora, sembra
 al collegio che la scarna normativa del camerale sia insufficiente  a
 ricevere  e  regolare  processi  tipicamente altamente conflittuali e
 complessi quale quello in cui si debbano accertare  "addebitabilita'"
 di   separazione   personale   ecc.   Tanto   piu'  se  un  grado  e'
 disarticolato, per il diverso rito, dall'altro.
    La  formula  "Il  giudice  puo'  assumere  informazioni" contenuta
 nell'art. 738, terzo comma, del c.p.c. e'  idonea  (se  non  mediante
 evidente  forzatura")  a "consentire il normale esercizio di facolta'
 di prova": la Corte costituzionale  lo  ha  gia'  detto  rispetto  ad
 analoga  formula  contenuta in altra legge (cfr. Corte costituzionale
 10 luglio 1975, n. 202).
    L'art. 4 mod. dodicesimo comma in esame, non solo non introduce la
 piena facolta' di ordinaria  prova  (e  non  estende,  con  razionale
 conseguente  parallelismo,  anche  al  primo  grado  la  facolta'  di
 atipiche  "informazioni")   ma   neppure   stabilisce   quali   norme
 procedurali    debbano    governare    questi    processi   d'appello
 (rilevabilita' o no  d'ufficio  dei  motivi,  specificita'  di  essi,
 impugnazione  incidentale, preclusioni varie sia in ordine alle nuove
 prove che alle nuove incombenze varie).
    Se  la  introduzione del rito camerale in appello significasse che
 le norme ivi da applicarsi  rimangono  quelle  del  rito  contenzioso
 salva  solo  la  fase  finale del grado, ripetesi che non si vedrebbe
 quale utilita' pratica possa avere indotto il legislatore ad una tale
 riforma  la  quale  praticamente  finirebbe soltanto con l'abolire la
 precisazione delle conclusioni  e  la  pubblicita'  della  successiva
 discussione.
    Se,  invece,  come  ritiensi,  ora  deve  intendersi  che le norme
 procedurali da  applicarsi  in  appello  non  sono  piu'  quelle  del
 contenzioso,  constatasi che non si dice, nel dodicesimo comma, quali
 esse siano; e questa  appare  una  genericita'  tale  da  non  essere
 ordinatamente  colmabile con l'interpretazione (cioe' una genericita'
 tale da produrre vizio di costituzionalita' della norma).