IL TRIBUNALE DI SORVEGLIANZA Con decreto in data 9 dicembre 1988 il magistrato di sorveglianza di S. Maria Capua Vetere concedeva al detenuto Pietropaolo Antonio un permesso premiale ( ex art. 30- ter l.p.) della durata di giorni sei prescrivendogli "l'obbligo di presentarsi ai carabinieri del luogo per il visto arrivare e partire nonche' per il visto giornaliero delle ore 11,30 e 19,30 e di rincasare entro le ore 21". Il Pietropaolo, avviato in permesso alle ore 10,50 del 22 dicembre 1988 faceva rientro in istituto alle ore 9,10 del 28 dicembre 1988. Con decreto del 25 gennaio 1989 lo stesso magistrato, in conseguenza di una nota dei carabinieri, che riferivano di aver il Pietropaolo tenuto un comportamento arrogante e molesto nei confronti di alcuni vicini, comportamento culminato nella sera del 27 dicembre 1988 in un reato di danneggiamento, disponeva, a sensi dell'art. 53- bis della l.p., l'esclusione da computo della pena di sei giorni trascorso dal Pietropaolo in permesso. Avverso detto decreto proponeva tempestivo reclamo l'interessato. All'odierna udienza il p.g. e la difesa concludevano come da verbale. Prima dell'entrata in vigore della legge 10 ottobre 1986, n. 663, era ritenuto pacificamente in giurisprudenza che il tempo trascorso dal detenuto o dall'internato in permesso o licenza fosse computabile, ad ogni effetto, nella durata della misura restrittiva della liberta'. L'art. 53- bis della l.p., inserito dall'art. 17 della legge n. 663/1986, ha legislativamente affermato il principio. "Il tempo trascorso dal detenuto o dall'internato in permesso o licenza e' computato a ogni effetto nella durata delle misure restrittive della liberta'". Aggiunge che, in caso "di mancato rientro o di altri gravi comportamenti da cui risulta che il soggetto non si e' dimostrato meritevole del beneficio", il magistrato di sorveglianza puo' decidere l'esclusione dal computo di tale tempo con decreto motivato. Avverso il decreto e' ammesso reclamo al tribunale di sorveglianza che provvede con ordinanza in camera di consiglio entro dieci giorni. Il procedimento si svolge con la partecipazione del difensore e del p.g. mentre all'interessato e' riconosciuta la sola facolta' di presentare memorie (art. 14- ter l.p. inserito dall'art. 2 della legge n. 663/1986). L'istituto, cosi' come legislativamente strutturato, sembra presentare aspetti, sia sotto il profilo sostanziale che procedurale, di dubbia costituzionalita'. La premessa e' che il tempo trascorso dal soggetto in permesso o in licenza non e' tempo vissuto in liberta'. Permesso e licenza non interrompono l'esecuzione della pena. Per i permessi (artt. 30 e 30- ter l.p.) il magistrato di sorveglianza deve adottare le cautele del caso (art. 61 regolamento e art. 61-bis, inserito dall'art. 17 del d.P.R. 18 maggio 1989, n. 248) che prevedono, tra l'altro, la possibilita' che il detenuto o l'internato sia scortato per tutto o parte del tempo del permesso e, nel caso di permesso di durata superiore alle dodici ore, che gli venga imposto l'obbligo di trascorrere la notte in un istituto penitenziario. Di norma, i magistrati di sorveglianza prescrivono al detenuto di tenere contatti piu' o meno costanti con la forza pubblica e di non allontanarsi dal domicilio almeno per alcune ore della giornata, come nel caso in esame. Sicche' il tempo trascorso in permesso puo' oscillare tra una forma di detenzione domiciliare (permesso con divieto assoluto di allontanarsi dal domicilio durante l'intera durata del permesso); di semiliberta' (obbligo di trascorrere la notte in un istituto penitenziario); di liberta' vigilata (permesso con divieto di allontanarsi dal domicilio durante alcune ore e di tenere costanti contatti con le autorita' di pubblica sicurezza). E' evidente che ciascuna di tali situazioni e' piu' prossima, se non proprio corrispondente, a quella di una misura limitativa della liberta' che a quella della liberta', senza con cio' prendere posizione sul quesito portato di recente all'esame della Corte costituzionale, sul se il permesso premiale sia esso stesso una misura alternativa e, quindi, come tale un modo sostitutivo di esecuzione della pena (Ord. trib. sorveglianza Brescia del 22 novembre 1988). Per quanto riguarda le licenze ai semiliberi ed agli internati, il discorso e' ancora piu' semplice perche' il condannato e l'internato durante la licenza sono sottoposti al regime della liberta' vigilata, secondo comma art. 52 e quarto comma art. 53 l.p. Per il codice Rocco la pena aveva uno scopo precipuamente retributivo. Il terzo comma dell'art. 27 della Costituzione ha evidenziato il fine rieducativo. Dalla norma la Corte costituzionale (sentenza n. 12/1966) ha fatto discendere l'obbligo per il legislatore di tenere costantemente di mira tale finalita' e di disporre tutti i mezzi idonei a realizzarla. L'espiazione, pertanto, si risolve in una forma di rieducazione concorrente con la funzione afflittiva. Esiste un dovere dello Stato di rieducare al quale e' correlato un diritto alla rieducazione che se realizzato avra' influenza sul successivo svolgimento della esecuzione. Il contenuto centrale della pena detentiva, a ben vedere, e' costituito dall'isolamento del condannato dai consociati, isolamento che opera direttamente sul diritto alla libera circolazione sul territorio come fatto di elezione di dimora e con conseguente divieto di electio amici ed electio societatis. Tutte le altre rimozioni di liberta', alle quali il condannato e' soggetto, sono conseguenza di una stretta connessione che il divieto di libera amotio ha con le modalita' operative necessarie per l'esercizio dei relativi diritti. Tra le liberta' indirettamente compresse ve ne sono alcune che sono ritenute dallo stesso legislatore utili alla rieducazione quali, ad esempio, l'affectio familiare, gli interessi culturali e di lavoro. Il problema e' quello di armonizzare la risposta punitiva con la finalita' rieducativa che sembrano contrastanti e che per certi aspetti appaiono inconciliabili. Sull'affermato diritto al riconoscimento dell'effetto positivo del grado di rieducazione raggiunto, il legislatore ha costruito il sistema delle misure alternative o sostitutive della pena mediante il quale e' consentito il recupero di livelli di liberta', ab initio con la pena compressi, come conseguenza del livello di rieducazione sortito. Da qui la distinzione tra misure privative e misure limitative della liberta' (vedi titolo della legge penitenziaria). Le prime misure che consentono al condannato di recuparere quote di liberta' sono i permessi, le licenze, l'ammissione al lavoro all'esterno. Questa categoria di provvedimenti favorisce il riacquisto, per prime, di quote di quelle liberta' che il legislatore ritiene utili ai fini della rieducazione. Colui che ne usufruisce permane pero', in uno status di esecuzione, in uno status nel quale l'afflittivita' della pena e' piu' limitata rispetto alla detenzione piena ma integra pur sempre un modo sia pure diverso, di espiazione. Tanto premesso, deve concludersi che nel momento in cui il magistrato di sorveglianza, ed eventualmente, in sede di reclamo il tribunale, accertato "il mancato rientro" o "altri gravi comportamenti dai quali risulta che il soggetto non si e' dimostrato meritevole del beneficio" devono determinare quale parte del periodo di tempo trascorso in permesso od in licenza non deve essere computato come pena espiata. In altri termini devono accertare in quale momento si e' interrotta l'esecuzione della pena inflitta, esecuzione, e' bene ricordare, che continua ininterrotta nel corso dei permessi, licenze, misure alternative e quindi, stabilire la durata dell'interruzione che va aggiunta alla scadenza prefissata. Ha ripetutamente affermato la Corte costituzionale (vedi per ultima sentenza n. 282/1989) che "non e' consentito, in sede esecutiva, superare l'entita' della pena detentiva determinata dalla sentenza di condanna". Percio', il tribunale di sorveglianza, nel revocare la liberazione condizionale o l'affidamento in porva al servizio sociale e' tenuto a quantificare la "residua" pena; deve sottrarre, dalla pena detentiva inflitta in sede di cognizione, il concreto carico afflittivo subito dal condannato durante l'espiazione della misura alternativa, prima della verificazione della causa della revoca. "E' quasi superfluo aggiungere che, a seconda che la causa di revoca sia intervenuta poco dopo l'inizio o quasi al termine del prestabilito periodo deve variare, con la determinazione del concreto peso limitativo della liberta' subito dal condannato, la quantita' di pena detentiva da sottrarre dalla durata della stessa pena stabilita dalla sentenza di condanna". Corte costituzionale n. 282/1989. Il problema che dal collegio viene sollevato non differisce da quello risolto cosi' lucidamente dalla Corte. Il soggetto in licenza - semilibero o internato - nel periodo trascorso in licenza e' sottoposto alla liberta' vigilata; il detenuto in permesso e', di norma, sottoposto ad un regime ancora piu' restrittivo. L'automatismo della norma (art. 53- bis) che esclude dal computo della pena, per il mancato rientro o per il verificarsi di altri gravi comportamenti, tutto il periodo trascorso in permesso od in licenza senza che si possa tener conto del carico di afflittivita' imposto e sopportato, e del momento in cui e' intervenuto il fatto che ha provocato l'interruzione della pena, finisce per dare luogo ad un aumento della sanzione penale, determinata in sede di cognizione che "non puo', in nessun caso, essere oltrepassato (spostato verso l'alto) per fatti realizzatisi ex post" (Corte costituzionale sentenza n. 282/1989). Per le ragioni esposte questo tribunale ritiene, non manifestamente infondata l'opinione che il citato art. 53- bis l.p. - inserito dall'art. 17 della legge 10 ottobre 1986, n. 663 -, nella parte in cui non consente alla magistratura di sorveglianza di determinare quanta parte del periodo trascorso in permesso o in licenza debba ritenersi come pena espiata, sia in contrasto con gli artt. 3 e 13 della Costituzione. I dubbi di costituzionalita' che il collegio nutre sulla struttura dell'istituto, non si limitano alle disposizioni di merito ma, investono anche il rito. Il procedimento di sorveglianza e' regolato dal capo II bis della legge penitenziaria n. 354/1975, aggiunto dall'art. 10 della legge 12 gennaio 1977, n. 1, e modificato dalla legge n. 663/1986. E' un procedimento dalla indiscussa natura giurisdizionale (vedi, tra le altre, Cass. 14 maggio 1984, Romano in Giust. pen. 1983', III c. 293 m. 281; Cass. 21 febbraio 1984, Didona, in Giust. pen. 1984, c. 554, Cass. 11 marzo 1983 in Riv. pen. 1983, p. 1015; Cass. 6 aprile 1988, Zaccaria, in Giust. pen. 1988, III, c. 296) che si svolge con le garanzie del contraddittorio e si conclude con un provvedimento soggetto ad impugnazione. L'oggetto principale, nei giudizi davanti al tribunale, riguarda la modifica e la estinzione di una situazione afflittiva cui il soggetto e' sottoposto in esecuzione di una condanna a pena detentiva. E' diretto, pertanto, a modificare lo status del soggetto consentendogli di riacquistare quote di liberta' in rapporto ai gradi di rieducazione raggiunti. Si articola: in un invito, che indicata l'oggetto del procedimento, all'interessato ad esercitare la facolta' di nominare un difensore; alla nomina di un difensore di uffico se non viene nominato quello di fiducia; alla notificazione di un avviso, all'interessato, al p.g. e al difensore del giorno della trattazione. All'udienza, che si svolge con il rito camerale, l'interessato ha diritto di intervenire personalmente, assistito dal difensore e puo' concorrere all'acquisizione dei documenti ed all'assunzione delle prove. Per effetto di poteri attribuitigli (art. 71-bis, terzo comma, l.p. "... necessari accertamenti...") l'organo di sorveglianza puo' tra l'altro, assumere informazioni, acquisire documenti, ascoltare testimoni, procedere a perizie, ispezioni, ricognizioni, confronti esperimenti giudiziali, nel rispetto delle garanzie proprie del processo di cognizione. Il procedimento in esame, invece, e' introdotto dal magistrato di sorveglianza che, con decreto motivato (art. 53- bis) dispone la non computabilita' nella pena scontata del periodo di tempo trascorso in permesso o licenza. Avverso il decreto l'interessato puo' produrre reclamo al tribunale nel termine di giorni dieci. Il tribunale provvede nell'ulteriore termine di giorni dieci. Il procedimento si svolge con la partecipazione del difensore e del p.g. L'interessato puo' presentare memorie; non ha diritto di partecipare all'udienza. Il magistrato di sorveglianza che ha emesso il decreto, non fa parte del collegio che decide sul reclamo (art. 14- ter l.p.). Nel raffronto tra le due procedure si riscontrano numerose differenze, alcune delle quali di rilevante spessore. Il procedimento generale, di norma (fatta eccezione per le ipotesi di revoca) e' finalizzato al riacquisto da parte dell'interessato di quote di liberta', se non proprio della liberta' (liberazione anticipata). Potrebbe percio' dirsi che tendenzialmente e' predisposta alla emanazione di provvedimenti a favore. Il secondo, invece, consente l'interruzione dell'esecuzione e quindi, sostanzialmente e' diretto a prolungare il termine di scadenza dell pena. Tende ad un provvedimento in danno. Il procedimento di sorveglianza generale si configura (eccetto sempre le ipotesi di revoca) come un procedimento sul detenuto, il procedimento de quo e' invece ed anzitutto un procedimento sul fatto cioe', sui comportamenti che il magistrato di sorveglianza ritiene abbiano dato causa alla interruzione della esecuzione. L'oggetto del procedimento, pertanto, e' per molti versi simile al procedimento di cognizione. Da cio' l'attribuzione al giudice di un ampio potere discrezionale sia nell'assunzione che nella valutazione dei mezzi di prova. Ebbene, a fronte di tali premesse e' proprio colui che viene sottoposto ad un giudizio che puo' sfociare in una decisione restrittiva della sua liberta' che incontra limitazioni nell'esercizio del diritto di difesa garantito dall'art. 24, secondo comma, della Costituzione. Non diversamente da quello generale, e' un procedimento giurisdizionale anche se, come il primo, e' temperato dal rigore camerale. E' un procedimento camerale che si conclude con atto decisionale, che pu' assumere il carattere della definitivita' potenzialmente destinato a produrre effetti limitativi sulla liberta' personale. La circostanza che trattasi di procedimento camerale che si conclude con atto "decisionale" e non "interlocutorio" rende obbligatorio, secondo la giurisprudenza consolidata (vedi, in particolare, quella relativa al procedimento per l'applicazione delle misure di sicurezza, che puo' ritenersi l'istituto il piu' prossimo a quello in esame, Cass. pen., prima sezione, 7 ottobre 1987, in giust. pen. 1988, p. III pag. 88, Cass. penale, sezione prima 14 aprile 1986, giust. pen. 1987 p. III, pag. 307, Cass. pen. prima sezione sentenza 17 aprile 1986 Giust. pen. 1987, p. III pag. 307; sentenza prima sezione pen. Cass. 24 maggio 1984 in giust. pen. 1985 p. III pag. 94) il rispetto del pieno contraddittorio. Invero, solamente nei procedimenti camerali che si concludono con decisioni interlocutorie puo' riscontrarsi un contraddittorio attenuato. Il contraddittorio pieno presuppone: il decreto di citazione la contestazione dei fatti, la possibilita' per l'interessato di partecipare all'udienza e di concorrere all'assunzione della prova. Come abbiamo gia' detto, il procedimento e' promosso con decreto motivato del magistrato di sorveglianza nel quale vengono esposti i fatti che giustificano la decisione di interruzione della esecuzione con la conseguente non computazione, come pena espiata, di tutto il periodo di tempo trascorso in permesso o licenza. Avverso il decreto l'interessato puo' proporre reclamo al collegio. La norma sembra configurare un tipo di procedimento con contraddittorio differito ed eventuale nel quale si riscontra la particolarita' che il contraddittorio eventuale non si costituira' davanti allo stesso giudice bensi' davanti al collegio al quale e' attribuita, in unico grado di merito, la competenza funzionale ad emettere provvedimenti che influiscono su una pena detentiva in esecuzione. L'idoneita' del decreto a divenire definitivo e l'incompatibilita' del magistrato che lo ha prununziato a far parte del tribunale chiamato a decidere sul reclamo (nel rispetto del principio secondo il quale lo stesso giudice non puo' concorrere a pronunziare due giudizi di merito sullo stesso fatto, vedi art. 61 c.p.p.), convalidano l'opinione che trattasi di procedimento giurisdizionale fin dalla prima fase. All'interessato, pero', e' negato il diritto di partecipare all'udienza, che si svolge alla presenza del difensore e del p.g. Deve limitarsi a presentare memorie. In sostanza, nel giudizio sul reclamo viene garantita la piena difesa tecnica, non quella materiale. La Corte di cassazione, sezione prima, sentenza 2341 del 12 novembre 1988 (cc. 24 ottobre 1988) Riv. 179663, ha giustificato la norma ed ha dichiarato "manifestamente infondata la questione di legittimita' costituzionale dell'art. 14- ter l.p., in relazione all'art. 24 della Costituzione, nella parte in cui non permette l'autodifesa dell'interessato mediante la sua comparizione personale davanti al tribunale. Tale diritto, invero - aggiunge - non e' precluso dalla disciplina in esame la quale consente la presentazione di memoria da parte del difensore e del detenuto personalmente. Si verte, quindi, in un caso di disciplina delle modalita' di esercizio del diritto di difesa che il legislatore in relazione alla peculiarita' del procedimento puo' discrezionalmente stabilire". La citata decisione, emessa in relazione ad un procedimento avente per oggetto un provvedimento di sorveglianza particolare, non sembra posssa ritenersi estensibile ed appagante nel caso che ci interessa. Oggetto del procedimento e' l'accertamento di un "fatto". L'interessato puo' contestare il "fatto" nel reclamo e nelle memorie. Orbene, non si puo' escludere che nel roso dell'udienza sopravvenga l'opportunita', la necessita' di assumere informazioni o prove ad integrazione o riscontro degli elementi gia' acquisiti. In simili eventualita' (nel caso in esame leggi controllo sulle informazioni dei carabinieri) l'assenza dell'interessato, che e' l'uico in grado di contestare circostanze che lo riguardano personalmente, si traduce in una sostanziale negazione del diritto di difesa. E non ci riesce di intravedere nell'istituto aspetti "peculiari" atti a giustificare un'attenuazione del contraddittorio che si traduce nel divieto per l'interessato di concorrere all'assunzione di una prova in grado di provocare l'alterazione del principio della continuita' della esecuzione e quindi, l'aggravamento della pena. Il sistema, importa la violazione: dell'art. 24, secondo comma, della Costituzione che garantisce il diritto di difesa in ogni stato e grado del procedimento anche in quelli che attengono all'esecuzione (e' principio indiscusso); dell'art. 3 della stessa Costituzione che garantisce la parita' dei cittadini davanti alla legge, laddove si consideri che il procedimento di sorveglianza generale che, come sopra esposto, e' diretto all'emissione di provvedimenti in favore, garantisce all'interessato (che puo' presenziare alla udienza e quindi, puo' partecipare all'assunzione della prova) un piu' ampio diritto di difesa di quello che l'art. 14- ter - in relazione all'art. 53- bis l.p. - garantisce all'interessato nel corso di un procedimento che e' finalizzato in danno.