IL GIUDICE CONCILIATORE
    Ha pronunciato la seguente ordinanza nella causa promossa dal sig.
 Mangano Enrico  col  procuratore  Maurizio  Scheggi  contro  il  sig.
 Viviani  Alfio,  in  proprio  e  quale  presidente  dell'Unione degli
 imprenditori commerciali pisani, con procuratore avv. Enrico Marroni,
 iscritta  al  n.  485/1989 ruolo generale, il giudice conciliatore di
 Pisa, sciogliendo la riserva di cui  al  verbale  di  udienza  del  6
 luglio 1989.
    Dichiara  rilevante  e non manifestamente infondata l'eccezione di
 incostituzionalita' proposta dal convenuto.
                            FATTO E DIRITTO
    Il  sig.  Mangano  Attilio,  titolare  dell'esercizio  commerciale
 "Punto Reflex" sito in Pisa, lungarno Mediceo n. 27, ha convenuto  in
 giudizio  il  sig.  Viviani  Alfio,  in  proprio  e  quale presidente
 dell'Unione  degli  imprenditori  commerciali,  con  sede  in   Pisa,
 chiedendo che venisse condannato al pagamento della tassa Iciap di L.
 300.000, dovuta da esso Mangano, o a dare a questi la medesima  somma
 di L. 300.000.
    La  singolare  richiesta  e' cosi' motivata dall'attore: "venuto a
 conoscenza  di  un'iniziativa  Unicom  (Unione   degli   imprenditori
 commerciali),  la  quale  ha  promosso una campagna di sottoscrizioni
 promettendo di accollarsi le imposte comunali dell'anno in corso,  il
 sottoscritto  si  e'  associato  ed  ha  pagato  la relativa quota di
 iscrizione al sindacato.
    Questo,   quando   il   sottoscritto  ha  comunicato  la  suddetta
 estensione di mq 36 del proprio esercizio commerciale "Punto Reflex",
 al  fine  di provvedere al pagamento dell'Iciap pari a L. 300.000, ha
 respinto la richiesta adducendo trattasi di tassa ingiusta e, quindi,
 non dovuta".
    Di qui l'azione promossa dal sig. Mangano.
    Si  e'  costituito  in giudizio il convenuto Viviani Alfio, sia in
 proprio che quale presidente dell'Unicom, Unione  degli  imprenditori
 commerciali  pisani,  contestando la domanda attrice e chiedendone il
 rigetto.
    Il  convenuto  osserva  che  e'  vero  che  l'Unicom  ha aperto la
 campagna di tesseramento  1989  con  la  iniziativa  promozionale  di
 pagare  le imposte comunali legittime a chi si associa, e che il sig.
 Mangano si e' iscritto al Sindacato e ha  diritto  di  usufruire  dei
 benefici  previsti  dalla  promozione,  ma  questa  "non  puo' essere
 invocata in questo caso  dell'imposte  Iciap,  trattandosi  di  tassa
 illegittima",  per  cui non puo' ritenersi valido qualunque patto che
 preveda il pagamento di somme illegittimamente pretese o dovute.
    Il  convenuto  passa,  quindi,  a  contestare  la suddetta imposta
 (Iciap) per l'esercizio di arti, professioni e  imprese  per  duplice
 violazione degli artt. 3 e 53 della Costituzione, concludendo perche'
 il giudice conciliatore di Pisa, a norma dell'art. 23 della legge  11
 marzo  1953,  n.  87, ordini l'immediata trasmissione degli atti alla
 Corte costituzionale per il giudizio costituzionale del d.-l. 2 marzo
 1989,  n.  66,  convertito in legge con modificazioni, dalla legge 24
 aprile 1989, n. 144 (Gazzetta Ufficiale 26 aprile 1989, n. 96).
    Il  convenuto  conclude in via principale chiedendo che il giudice
 dichiari non dovuto il pagamento  richiesto  in  citazione  dal  sig.
 Mangano.
    Il  convenuto  deduce  i  seguenti  motivi  a  sostegno  della sua
 eccezione di incostituzionalita':
      1)  l'imposta  e' stata istituita non sulla base della capacita'
 contributiva dei singoli soggetti, ma  "per  assicurare  i  necessari
 finanziamenti agli enti locali per l'anno 1989".
    Tale  proposito  ed  assunto  puo' essere concepito solo in regimi
 autoritari  in  cui  sono   ignorati   i   princi'pi   della   nostra
 Costituzione.
      2)  poiche'  per  l'art.  53  della  Costituzione  tutti  devono
 concorrere alla spesa pubblica in ragione della rispettiva "capacita'
 contributiva" la legge contestata "fa carico solo ad alcune categorie
 produttive",  per   cui   viene   violato   il   suddetto   principio
 costituzionale  e  nello  stesso tempo il principio di eguaglianza di
 cui all'art. 3 della Costituzione;
      3) con il "conferimento dell'autonomia impositiva ai comuni", di
 cui alla legge n. 144/1989, lo Stato ha revocato i finanziamenti agli
 stessi  "senza  rinunziare  a  quella  quota  di  reddito  che finora
 destinava agli enti locali, quota che continua a percepire" anche non
 trasferendone piu' il ricavato agli stessi.
    Lo   Stato   ha  istituito  questa  imposizione  sostituendo  quei
 finanziamenti che, pur pagati da tutti i contribuenti,  non  giungono
 piu'  ai  comuni;  ai  quali,  con  la  legge n. 144/1989, dovrebbero
 provvedere solo le categorie colpite dalla nuova legge.
    Con l'ulteriore conseguenza che queste categorie "si trovano cosi'
 ad essere gravate doppiamente, per lo stesso identico tributo";
      4)  poiche'  si verte in materia sottratta a referendum popolare
 (art. 75, secondo comma della Costituzione) e' necessaria un'adeguata
 leale  motivazione (la protasi: "ritenuta la straordinaria necessita'
 ed urgenza" con cui si vuole giustificare la successiva apodosi della
 nuova imposizione fiscale non ha alcuna vera motivazione considerando
 che la legge di conversione del d.-l. n. 66/1989 ha apportato molte e
 rilevanti modifiche).
    Considerando,  inoltre,  che  questa imposta va a colpire solo una
 parte dei contribuenti gia' gravati da imposta destinata  alle  spese
 degli enti locali, Ilor, e sugli stessi loro redditi e per gli stessi
 fini  con  "inaccettabile  duplicazione  e,  in  questo  caso,  anche
 discriminazione";
      5)  la  violazione  dell'art.  3 e 53 della Costituzione avviene
 anche "all'interno delle  stesse  categorie  colpite,  in  quanto  si
 prescinde  dalle  capacita'  contributive,  ma si fa riferimento alle
 sole supefici utilizzate".
    Premessi brevemente i motivi di incostituzionalita' della legge n.
 144/1989 va rilevato che i motivi si  accentrano  sull'art.  1  della
 detta legge.
    La   questione  di  costituzionalita'  prospettata  in  causa  dal
 convenuto e' rilevante ai fini della decisione, sul riflesso  che  il
 suo  rapporto  alle  norme  che  vengono  in  considerazione  per  la
 decisione della controversia e' risolutivo della controversia insorta
 tra le parti.
    La  eccezione di incostituzionalita' proposta dal convenuto non e'
 manifestamente infondata.
    Intanto  il  principio  di  eguaglianza,  di  cui all'art. 3 della
 Costituzione,  comporta,  una  disciplina  paritaria  di  fattispecie
 eguali  "per  cui  a  situazioni  eguali  devono corrispondere uguali
 regimi impositivi"  attuando  cosi'  "l'esigenza  che  ogni  prelievo
 tributario   abbia  causa  giustificatrice  in  indici  concretamente
 rilevatori di ricchezza" (Corte costituzionale sentenza  n.  120/1972
 richiamata nella sentenza n. 12/1980).
    Orbene,  per  quanto  riguarda i settori di attivita' e i relativi
 livelli di imposta va osservato che si tratta di un sistema rigido  e
 generalizzato  per  cui  anche  a  parita'  di attivita' e superficie
 utilizzata, la capacita' contributiva  sara'  senz'altro  diversa  se
 esercitata in una metropoli rispetto a quella esercitata in un comune
 di provincia o dell'Appennino.
    Va   poi   contestato  l'altro  criterio  c.d.  della  "classe  di
 superficie" e cioe' la superficie dei "locali comunque utilizzati per
 l'esercizio    delle    attivita'".   Con   questo   presupposto   la
 discriminazione qualitativa  dei  redditi,  che  si  evidenzia  dalla
 tabella   dei   settori   di  attivita',  degrada  a  discriminazione
 quantitativa. Ma la "classe di  superficie"  e'  una  presunzione  di
 reddito.  Come  la  Corte  costituzionale  ha  piu'  volte  chiarito,
 insegnato e richiamato (sentenze nn. 103 e  109  del  1967;  99/1968;
 200/1980)  le  presunzioni tributarie non sono di per se' illegittime
 ma debbono fondarsi su indici concretamente rivelatori  di  ricchezza
 ovvero  su  fatti  reali  "affinche' l'imposizione non abbia una base
 fittizia".
    In  questo  caso  siamo addirittura in presenza di una presunzione
 (superficie utilizzata) base per un'altra presunzione (redditivita').
    Ma  la superficie utilizzata per lo svolgimento dell'attivita' non
 e'  proporzionale  alla  capacita'  contributiva.  Si  possono   fare
 infiniti esempi: un piccolo locale adibito a gioielleria e orologeria
 a fronte di locali piu' vasti necessari alla vendita di mobilia.  Nel
 primo la vendita di un Rolex o di un diamante rende quanto la vendita
 di una camera  matrimoniale.  Ma  nel  caso,  a  pari  capacita'  non
 corrisponderebbe  eguale  regime  impositivo con netta violazione dei
 princi'pi di eguaglianza e del  pari  concorso  alla  spesa  pubblica
 (art. 3 e 53 della Costituzione).
    I   mezzi   utilizzati   nello   svolgimento  dell'attivita'  sono
 certamente indici a cui fare riferimento per deteminare la  capacita'
 contributiva  di  un  professionista  o di un imprenditore, ma appare
 ingiusto e vagamente approssimativo utilizzare un solo elemento, come
 e'  per  l'Iciap. Ed e' tutto da dimostrare che un professionista con
 un ufficio grande abbia maggiore capacita' contributiva di un collega
 con un ufficio piu' piccolo o piccolo comunque.
    A  questo  punto  si  potrebbe  anche sostenere che l'Iciap vi'ola
 anche l'art. 35 della Costituzione dove dichiara che  "la  Repubblica
 tutela  il  lavoro  in  tutte  le  sue forme e applicazioni", perche'
 penalizza ingiustamente quelle attivita' lavorative  che  necessitano
 di  un  certo  spazio per il loro svolgimento, anche se non producono
 redditi vistosi.
    Torna  a  mente  l'ammonizione  e  denunzia  del  Tommaseo:  "chi,
 operando, s'arroga piu' di quello che a lui si  deve  o  conviene,  e
 tragredisce  quei  limiti  che  sono  assegnati a ciascuno nel comune
 procedere, fa dei soprusi" (Nuovo diz. sinon. n. 2430).
    Per  quanto  dedotto e contestato dal convenuto e per quanto si e'
 sin qui esposto, deve  essere  sollevata  questione  di  legittimita'
 costituzionale in riferimento agli artt. 3, 35, 53 della Costituzione
 dell'art. 1, n. 4 del d.-l. 2 marzo 1989, n. 66 nel testo di cui alla
 legge  di  conversione  24  aprile  1989,  n. 144, nella parte in cui
 dispone una discriminazione tra le attivita' lavorative ai  fini  del
 concorso  nelle  spese pubbliche e determina l'ammontare dell'imposta
 in  base  alla  superficie  dei  locali  utilizzati  per  l'esercizio
 dell'attivita'  lavorativa  invece  e  non  in  base  alla  capacita'
 contributiva, per cui - in conseguenza dei  suddetti  presupposti  di
 imposta  -  viene  anche  violata la protezione del lavoro poiche' la
 persona che lo esegue non solo non e' difesa da violazioni  dei  suoi
 diritti costituzionali, ma dovrebbe subire il sopruso degli stessi.