LA SEZIONE ISTRUTTORIA PRESSO LA CORTE D'APPELLO Ha pronunciato la seguente ordinanza ai sensi dell'art. 23 della legge 11 marzo 1953, n. 87; Letti gli atti relativi al rapporto a carico degli avvocati Autru Ryolo Luigi + 77 trasmesso dal presidente della prima sezione penale del tribunale di Messina, ai sensi degli artt. 131 del c.p.p. e 1 del d.P.R. 8 agosto 1955, n. 666, per avere tutti i 78 difensori di fiducia degli imputati Antonuccio Aldo + 252 omesso di presentarsi sia all'udienza dibattimentale del 2 dicembre 1986 sia a quella successiva del giorno 3, fissata per la presentazione dello stesso dibattimento, senza addurre alcun legittimo impedimento e determinando cosi' l'abbandono di difesa previsto dall'art. 129 del c.p.p.; Vista la comunicazione del presidente del consiglio dell'ordine degli avvocati e procuratori di Messina del 20 ottobre 1987 dalla quale risulta che quel consiglio ha iniziato per lo stesso fatto procedimento disciplinare nei confronti dei medesimi difensori, procedimento ancora non definito; Vista la precedente ordinanza del 3 novembre 1987 con la quale la sezione istruttoria, facendo proprie le argomentazioni del procuratore generale della requisitoria 10 ottobre 1987, dichiarava non manifestamente infondata e rilevante nel giudizio disciplinare ad essa devoluto la questione di legittimita' costituzionale dell'art. 131 del c.p.p. e dell'art. 1 del d.P.R. 8 agosto 1955, n. 666, per contrasto con gli artt. 3 e 24 della Costituzione e, conseguentemente disponeva la trasmissione degli atti alla Corte costituzionale; Vista l'ordinanza di inammissibilita' emessa al riguardo dalla Corte costituzionale il 14 dicembre 1988 perche' l'ordinanza di rimessione non permetteva "di individuare con sicurezza il petitum effettivamente avuto di mira dal giudice a quo" e cioe' se i dubbi di incostituzionalita' investivano l'art. 30 del c.p.p. che, per lo stesso addebito di abbandono di difesa dell'imputato, legittima il consiglio dell'ordine forense ad irrogare l'eventuale sanzione disciplinare, ovvero l'art. 131 stesso cod. che attribuisce analogo potere alla sezione istruttoria; Letta la nuova requisitoria del procuratore generale che appare utile qui riportare integralmente e che e' del seguente tenore: "Il procuratore generale: Visti gli atti del procedimento di cui in epigrafe, e in particolare: a) la precedente requisitoria del 10 ottobre 1987 con la quale e' stata sollevata la questione di legittimita' costituzionale dell'art. 131 del c.p.p. e, di riflesso, dell'art. 1 del d.P.R. 8 agosto 1955, n. 666, per contrasto con gli artt. 3 e 24 della Costituzione; b) la conforme ordinanza emessa il 3 novembre 1987 dalla sezione istruttoria della corte di appello di Messina, che dopo aver riferito, facendole proprie, le argomentazioni e richieste del p.g. ha cosi' concluso: "dichiara non manifestamente infondata e rilevante nel giudizio la questione di legittimita' costituzionale dell'art. 131 del c.p.p. e di riflesso dell'art. 1 del d.P.R. 8 agosto 1955, n. 666, per contrasto con gli artt. 3 e 24 della Costituzione e, conseguentemente, dispone l'immediata trasmissione degli atti alla Corte costituzionale, previ gli adempimenti, a cura della cancelleria, previsti dall'art. 23 legge n. 87/1953", sospendendo il giudizio in corso; c) la successiva ordinanza emessa il 22 dicembre 1988, n. 1136, dalla Corte costituzionale, che, ritenendo non chiaramente formulato il petium da parte del giudice a quo, ha dichiarato per tale motivo l'inammissibilita' della questione di legittimita' costituzionale; d) la nota di trasmissione degli atti a questo ufficio, per il suo parere, da parte della locale corte d'appello (in data 23 gennaio 1989); O S S E R V A 1. - Giova preliminarmente avvertire che, se il divieto del ne bis in idem - ossia di tornare su una questione gia' decisa - impedisce di riproporre nello stesso procedimento una questione di costituzionalita' "dopo la pronunzia di infondatezza della Corte" (sentenza n. 197/1983), tale ostacolo non sussiste quando - come nella specie - la pronunzia della Corte (n. 1136/1988) non e' di infondatezza, bensi' di "inamissibilita'": e non gia' - si badi - perche' la "questione", in se' considerata, fosse improponibile, ma unicamente per il "modo" incerto con cui essa e' apparsa formulata, piu' precisamente - come dice la Corte - perche' "l'ordinanza di rimessione, nel dolersi della 'duplicazione' dei giudizi disciplinari, non permette di individuare con sicurezza il petitum effettivamente avuto di mira dal giudice a quo". Si tratta, dunque, di una ipotesi assai simile alla declaratoria di nullita' della citazione per incertezza della domanda ( ex art. 163, n. 3, e 164, del c.p.p.), della quale pero', una volta specificata, non potrebbe negarsi la riproponibilita' senza con cio' stesso negare il diritto di agire in giudizio (art. 24 della Costituzione e art. 99 del c.p.p.). Qui non vale ne' il diritto del ne bis in idem ne' il principio della preclusione, poiche' entrambi presuppongono che, rispetto al thema decidendum, si siano estinti il potere d'azione da un lato e la corrispondente potesta' decisoria dall'altro, mentre nel caso in esame ne' questa ne' quello si sono consumati. Cio' che il giudice a quo richiede ora alla Corte costituzionale non e' una seconda pronuncia difforme dalla precedente, ma la prima ed unica pronuncia di merito (positiva o negativa) sulla questione di costituzionalita', che non e' stata decisa solo a causa dell'incertezza del petitum rilevata con l'ordinanza d'inammissibilita'. Talche', riformulata l'istanza in modo da permettere "di individuare con sicurezza il petitum effettivamente avuto di mira dal giudice a quo", il suo esame non puo' essere piu' sottratto all'atteso giudizio della Corte: infatti nessun vincolo o impedimento puo' nascere da una ordinanza, come quella in esame, avente contenuto soltanto processuale, che si limita cioe' ad una valutazione allo stato degli atti circa l'esistenza del potere-dovere di decidere in concreto la questione di costituzionalita', che l'ordinamento differisce alla competenza esclusiva della Corte. Se cosi' non fosse, del resto, il giudice a quo, rimanendo senza risposta da parte dell'unica autorita' che puo' darla, sarebbe costretto a definire la controversia applicando una norma di legge fortemente sospetta d'incostituzionalita', qual'e' appunto l'art. 131 del c.p.p. Prima di spiegare meglio o, se si vuole, di ribadire con maggiore precisione le ragioni per le quali e' di questa norma (e non di altra) che si chiede l'annullamento, e' opportuna una messa a punto circa la situazione di fatto e di diritto da cui trae causa la prospettata questione di costituzionalita'. 2. - Nel caso in esame i 78 avvocati difensori degli imputati nel processo a carico di Antonuccio Aldo + 252 sono stati denunciati per abbandono della difesa ( ex art. 129 del c.p.p.), non essendosi presentati in aula all'udienza del 9 dicembre 1986 (senza addurre alcun legittimo impedimento); a seguito di cio' essi risultano in atto chiamati a rispondere della suddetta incolpazione sia davanti al locale consiglio dell'ordine forense ( ex art. 130 del c.p.p.) sia, contemporaneamente, davanti alla sezione istruttoria di questa corte d'appello ( ex art. 131 del c.p.p.). Cio' comporta una duplicazione di procedimenti e di giudizi, in quanto: a) il fatto e' il medesimo, poiche' tanto il consiglio dell'ordine in base all'art. 130, quanto la sezione istruttoria in base all'art. 131, sono chiamati ambedue a pronunciarsi sulla condotta del difensore "che viola il divieto stabilito nell'art. 129" (intitolato: "Abbandono della difesa dell'imputato"); b) la stessa condotta forma dunque oggetto di due procedimenti paralleli e separati, senza alternativita' o prevalenza dell'uno sull'altro e al di fuori di ogni legame di ordine procedurale o istituzionale; c) identiche sono la struttura e la funzione dei due giudizi, dato che entrambi, con analoghe modalita' procedimentali, sono destinati ad incidere sullo status professionale del difensore inquisito: il quale, per lo stesso addebito, rimane da un lato esposto a "provvedimenti disciplinari" del consiglio dell'ordine (art. 130) e, dall'altro, puo' essere temporaneamente "sospeso dall'esercizio della professione" per effetto della sanzione, anch'essa disciplinare (e non penale), inflittagli dalla sezione istruttoria (art. 131); d) la diversa tipologia delle sanzioni irrogabili dal consiglio dell'ordine e della sezione istruttoria, nell'esercizio delle rispettive potesta' disciplinari, non toglie che il presupposto logico-giuridico della decisione sia uguale in entrambi i procedimenti, poiche' cosi' nell'uno come nell'altro cio' che rileva anzitutto e soprattutto e' la qualificazione giuridica del fatto denunciato, al fine appunto di accertare se in esso siano o no ravvisabili gli estremi dell'abbandono di difesa vietato dall'art. 129: e' proprio e soltanto questo, infatti, il divieto la cui violazione e' sanzionata sia dall'art. 130 (per i provvedimenti disciplinari del consiglio dell'ordine) sia dall'art. 131 (per la pena disciplinare della sezione istruttoria); e) di conseguenza, stante l'autonomia e la liberta' di giudizio dei due organi deliberanti, il fatto denunciato nel rapporto puo' dar luogo a una conforme o difforme valutazione circa la sussistenza o meno dell'abbandono di difesa: punto che - come si e' detto - costituisce il presupposto logico-giuridico dal quale, nell'una e nell'altra sede, trae fondamento l'emananda decisione. Per cui, se i due giudizi sono conformi, si avra' (o un doppio proscioglimento o) un cumulo di sanzioni disciplinari per l'unica infrazione; mentre, nel caso opposto, si dara' causa insanabile contraddittorieta' di giudicati, dato che l'uno afferma e l'altro nega la sussistenza dell'abbandono di difesa. Giova anzi sottolineare che la prospettata difformita' di giudizio (fra consiglio dell'ordine e sezione istruttoria) non e' in alcun modo sanabile: neanche nella ipotesi in cui, esperiti i gravami che la legge prevede contro le pronuncie emesse nei due procedimenti, la questione finisca al vaglio della Corte suprema. Difatti: f) la decisione del consiglio dell'ordine - su gravame dell'interessato o del p.m. - e' soggetta in secondo grado al riesame del consiglio nazionale forense, la cui pronunzia e' a sua volta impugnabile con ricorso alle sezioni unite della Corte di cassazione, ma solo per vizi di legittimita' (v. art. 50 e 56 della legge 22 gennaio 1934, n. 36, e successive modificazioni, nonche' art. unico della legge 15 novembre 1973, n. 738; v. anche art. 59, 66, 68 del r.d. 22 gennaio 1934, n. 37). Viceversa, contro l'ordinanza emessa dalla sezione istruttoria "e' ammesso il ricorso per cassazione anche per il merito" (art. 131 del c.p.c., ultimo comma). E' dunque da escludere che, nella suprema sede giurisdizionale, i due distinti e separati procedimenti disciplinari possono alfine trovare una occasione di unificante collegamento. E' al contrario possibile che la segnalata disparita' di giudizi, lungi dal placarsi, venga addirittura ad acuirsi: non solo perche' sui due ricorsi (contro la decisione del consiglio nazionale forense e contro l'ordinanza della sezione istruttoria) la Corte di cassazione e' chiamata a pronunciarsi rispettivamente a sezioni unite ed a sezione semplice, ma anche e soprattutto perche' nel primo caso la sua cognizione e' limitata all'esame di "legittimita'" mentre nel secondo e' estesa al "merito". Talche' la Corte, statuendo sui due ricorsi (proposti dell'interessato e/o dal p.m.) ed emettendo le relative sentenze (una come giudice di legittimita' e l'altra come giudice di merito), potrebbe trovarsi, essa stessa, costretta a provocare una difformita' fra due decisioni gia' conformi: come nella ipotesi in cui la Cassazione, stando ai limiti segnati dal giudizio di legittimita', deve rigettare e rigetta il ricorso avverso la decisione del consiglio nazionale forense, mentre con la plena cognitio attribuitagli dal citato art. 131, puo' riformare e riforma il giudizio di merito espresso dalla sezione istruttoria. Comunque sia, e' una difformita' che, oltre a porsi in contrasto con elementari esigenze di certezza del diritto, produce gli effetti piu' sconvolgenti sullo status professionale dell'avvocato (doppiamente) inquisito, venendo costui a trovarsi nell'ambigua e paradossale situazione di cui risulta al tempo stesso colpevole e non colpevole di abbandono della difesa. 3. - Le osservazioni che precedono erano gia' contenute nella precedente ordinanza di rimessione (del 3 novembre 1987), nel cui ulteriore sviluppo motivazionale non e' parso tuttavia abbastanza chiaro alla Corte costituzionale - e di qui la rilevata incertezza del petitum - se il giudice remittente avesse di mira l'annullamento dell'art. 130 "con l'effetto di conservare la relativa competenza alla sola sezione istruttoria", ovvero dell'art. 131, con effetto (opposto) di "conservare la relativa competenza al solo consiglio dell'ordine forense". Bisogna in effetti riconoscere che, se e' proprio e soltanto la duplicazione di giudizi disciplinari a causare la lamentata discrasia (sulla quale sembra implicitamente consentire la stessa Corte), l'inconveniente potrebbe essere in teoria ugualmente scongiurato tanto se si eliminasse l'uno quanto se si eliminasse l'altro dei due giudizi: ossia annullando o l'una (art. 130) o l'altra (art. 131), indifferentemente, delle norme attributive di competenza ai rispettivi organi giusdicenti. Ma non e' certo in siffatta forma alternativa che si puo' o si vuole prospettare la questione di costituzionalita', occorrendo invece verificare quale delle due norme, o per la coesistenza dell'altra o - a maggior ragione - indipendentemente da essa, e' quella che si pone in contrasto con la Costituzione. E pertanto, nella misura in cui la precedente ordinanza di rimessione ha trovato equivoco supporto in qualche passo della motivazione, tanto da rivelarsi oscillante nella scelta della norma denunciata, a tale carenza deve ora ovviarsi indicando in modo univoco le ragioni per le quali l'art. 131, e non l'art. 130, e' la disposizione che si ritiene viziata di illegittimita' costituzionale. 4. - L'art. 131 del c.p.p., nella parte in cui attribuisce a un organo giudiziario (sezione istruttoria) la competenza ad applicare le sanzioni ivi previste (sospensione dall'esercizio professionale) "contro il difensore dell'imputato che abbandona la difesa", sottoponendo cosi' tale difensore a un procedimento disciplinare aggiuntivo rispetto a quello cui egli gia' soggiace e deve soggiacere (per l'art. 130) davanti al consiglio dell'ordine, si pone in contrasto col precetto costituzionale dell'uguaglianza (art. 3 della Costituzione). E cio' sotto un duplice profilo. Il primo profilo riguarda la disparita' di trattamento che si viene a creare, all'interno dello stesso ordine forense, fra i vari iscritti all'albo professionale. La regola che vale (o dovrebbe valere) per tutti e' che sono soggetti al potere di supremazia e quindi al procedimento disciplinare del consiglio dell'ordine, e solo a questo, "gli avvocati e procuratori che si rendano colpevoli di abusi o mancanze nell'esercizio della loro professione o comunque di fatto non conformi alla dignita' e al decoro professionale" (art. 38 della legge n. 36/1934). Si tratta - come ognun vede - di previsione talmente ampia da comprendere qualsiasi tipo di infrazione professionalmente censurabile, anche se di uguale o maggiore importanza dell'abbandono di difesa (dell'imputato): ipotesi, tuttavia, per la quale soltanto si e' voluta fare una eccezione alla regola, prevedendosi, con l'art. 131, un ulteriore e concomitante (oltre che scoordinato) procedimento disciplinare, per il medesimo addebito, davanti a un organo diverso da quello professionale. E questa eccezione, da un lato, ferisce profondamente l'autonomia istituzionale dell'ordine forense, negandogli quella piena ed esclusiva "competenza a procedere disciplinarmente" (art. 38 della l. prof.) che e' una sua naturale prerogativa in virtu' del principio democratico, generalmente riconosciuto, secondo cui "l'ordre est maitre de son tableau"; dall'altro segna una deviazione tanto piu' vistosa dal sistema - accentuando cosi' la sua anomalia - in quanta per le sanzioni disciplinari relative ad addebiti dello stesso tipo, ossia per quelle applicabili ai casi di "abbandono della difesa di altre parti", resta fermo il principio della competenza esclusiva degli organi professionali (art. 132 del c.p.p.). Ora, il fatto che fra tutti gli avvocati "colpevoli di abusi e mancanze" anche gravi e persino gravissime, solo chi e' indiziato di abbandono della difesa (dell'imputato) debba essere giudicato e (eventualmente) condannato due volte - a causa, appunto, della duplicazione creata dall'impugnato art. 131, che si soprappone al legittimo art. 130 - comporta, a danno dell'inquisito, una disparita' di trattamento che e' illogica, ingiusta e priva di ragionevolezza. E' illogica per le disarmonie e le contraddizioni che, come si e' visto, sono insite nell'artificioso meccanismo di un doppio giudizio disciplinare concomitante e slegato. E' ingiusta perche', ove tale duplicazione dovesse in ipotesi intendersi come misura di maggiore severita' per il colpevole di abbandono della difesa, altrettanto allora dovrebbe valere per il responsabile di infrazioni professionali ancora piu' gravi (come quelle, per es., che portano alla radiazione dall'albo) e che, invece, secondo la regola, ricadono sempre nella potesta' disciplinare esclusiva dell'ordine forense. E' infine priva di ragionevolezza perche', a voler ammettere che "la difesa dell'imputato e' attivita' troppo importante perche' possa essere sottratta agli organi di giurisdizione... la potesta' di valutarne la gravita' e quindi di applicare la relativa sanzione" (v. Relaz. min. alla novella del 1955), sarebbe agevole replicare che, rispetto a tale finalita' (in cui, peraltro, risuona ancora l'eco dell'autoritarimo statuale cui si ispirava il codice del 1930), il sistema del doppio giudizio appare il piu' irrazionale ed il meno coerente: il piu' irrazionale per il gia' rilevato tasso di illogicita' e di ingiustizia che esso contiene; il meno coerente perche', aggiungendo alla competenza (naturale) dell'organo professionale quella (innaturale) dell'organo giudiziario, da' vita ad una sorta di mezzadria disciplinare che, oltre a menomare il prestigio istituzionale dell'ordine forense, non rafforza ma al contrario indebolisce l'efficacia e la credibilita' del concorrente potere attribuito al magistrato, ponendo in conflitto i due poteri specialmente nella ipotesi - tutt'altro che teorica - di giudicati contrastanti. 5. - Il secondo profilo di contrasto con l'art. 3 della Costituzione riguarda la disparita' di trattamento che, per effetto dell'art. 131 del c.p.p., colpisce gli appartenenti alla classe forense (avvocati e procuratori) rispetto a tutti gli altri professionisti iscritti negli albi (ordini o collegi) di rispettiva pertinenza. Per ogni professione, ed a riconoscimento della natura giuspubblicistica dell'ente che rappresenta istituzionalmente gli iscritti in una posizione di supremazia speciale, la regola e' che le funzioni disciplinari sono devolute al relativo consiglio dell'ordine o collegio (v. art. 1 del d.l.l. 23 novembre 1944, n. 382). Se questa regola risulta talora temperata da qualche eccezione, cio' e' unicamente nel senso che, o per la particolare sede ove l'attivita' professionale sia svolta o per il tipo di sanzione prevista in rapporto alla (minore o maggiore) gravita' dell'addebito, l'organo competente e il relativo procedimento disciplinare sono diversamente strutturati. Un esempio nel primo senso e' dato dal giudizio disciplinare a carico degli iscritti nell'albo dei consulenti tecnici "che non hanno tenuto una condotta morale specchiata" o che "non hanno ottemperato agli obblighi derivanti dagli incarichi ricevuti": per tale giudizio la competenza e' attribuita a uno speciale comitato misto, composto da due magistrati (presidente del tribunale e p.r.) e "da un professionista iscritto nell'albo professionale designato dal consiglio dell'ordine o dal collegio della categoria" (v. art. 14 e 19 delle disp. att. del c.p.p.). Un esempio nel secondo senso e' offerto dalla legge sull'ordinamento del notariato che, per i giudizi disciplinari a carico dei notai, dispone un riparto di competenze fra il consiglio notarile e il tribunale (civile): il primo e' competente per le infrazioni disciplinari punite con l'avvertimento e con la censura; il secondo per le piu' gravi inadempienze punite con l'ammenda, con la sospensione e con la destituzione (v. artt. 135, 148 e 151 della legge 16 febbraio 1913, n. 89 e successive modificazioni; v. anche artt. 262, 270 e 271 reg. esecutivo approvato con r.d. 10 settembre 1914, n. 1326). Ma in questi e consimili casi, la speciale regolamentazione legislativa non deroga mai alla regola fondamentale secondo cui, per la stessa infrazione uno solo puo' essere ed e' l'organo disciplinare competente a giudicare e ad infliggere la sanzione che la legge prevede per l'addebito contestato al professionista. Cosi', viceversa, non e' per il professionista legale (avvocato o procuratore) dato che egli soltanto (qualora abbandoni la difesa dell'imputato) e' soggetto, oltre che al procedimento ed alle sanzioni disciplinari del consiglio dell'ordine (art. 130 del c.p.p.), anche al giudizio e alle sanzioni disciplinari della sezione istruttoria (art. 131). Ed e' proprio questo doppione, cui da' luogo l'art. 131 ed al quale non sono esposti gli altri professionisti, che pone l'avvocato in una situazione di sfavore, chiaramente lesiva del principio di uguaglianza e razionalmente non giustificata, ne' ingiustificabile, per le ragioni sopra esposte. Al riguardo, piuttosto, e' opportuno aggiungere una ulteriore considerazione. Si e' in precedenza ricordato, nonche' criticato, l'argomento addotto nella relazione ministeriale a favore dell'art. 131, e cioe' che la difesa dell'imputato e' "attivita' troppo importante" perche' il suo abbandono, da parte del difensore, sia sottratto alla potesta' decisoria e sanzionatoria del magistrato. L'argomento va qui ripreso per osservare che, se "il difensore non puo' abbandonare il proprio ufficio, ne' allontanarsi dall'udienza in modo che l'imputato rimanga privo di assistenza" (art. 129 del c.p.p.), la ratio del divieto va indubbiamente colta nella speciale valenza degli interessi che, nel procedimento penale, il cliente affida al patrocinio forense, che e' indefettibile a pena di nullita' (v. art. 125 e 182, n. 3 del c.p.p.). Donde il precetto - deontologico prima ancora che giuridico - che il difensore, una volta accertato il fiduciario mandato (civilisticamente rientrante nel contrasto di prestazione d'opera intellettuale: art. 2230 e segg. del c.c.), non e' piu' libero di recederne ad nutum in guisa da lasciare senza assistenza chi ha bisogno del suo advocatus. Ed e' appunto questo il fatto che, oltre ad integrare un inadempimento contrattuale, rende professionalmente scorretta la condotta del difensore. Ora, in quale altro ordine di valutazioni negative, oltre all'aspetto disciplinare, sia da inquadrare una siffatta condotta, secondo il grado di disvalore sociale che si e' indotti ad attribuirle, spetta naturalmente alla discrezionalita' politica del legislatore, il quale - se davvero convinto che la "difesa dell'imputato e' attivita' troppo importante" - potrebbe anche promuovere al rango di fattispecie delittuosa l'abbandono della difesa: non diversamente di come ha fatto per quelle piu' eclatanti forme di violazione dei "doveri professionali" che da'nno corpo ai reati di patrocinio infedele (artt. 380 e 381 del c.p.). Se questa fosse stata la scelta legislativa, quella condotta avrebbe formato oggetto di un procedimento disciplinare (davanti al consiglio dell'ordine) e di un processo penale (davanti al giudice competente ex art. 29 e segg. del c.p.p.), dandosi luogo cosi' al consueto e ben regolato fenomeno dei rapporti fra giudicato penale e giudizi di altro genere (v. in generale art. 28 del c.p.p. e, in particolare, artt. 42 e 44 della legge n. 36/1934). Ma il legislatore ha scartato questa soluzione: non ha infatti ritenuto di criminalizzare la fattispecie di abbandono della difesa, ma ha reputato di valutarla solo come illecito disciplinare e ben a ragione l'ha lasciata al giudizio del consiglio dell'ordine "per i provvedimenti disciplinari" del caso (art. 130 del c.p.p.). Con l'art. 130, dunque, il quadro normativo era in se' compiuto ed inalterabile. Esso invece e' stato stravolto dall'art. 131 con l'ibrida commissione di un secondo giudizio, anch'esso disciplinare, in aggiunta e neppure coordinato al primo: un doppione che, appunto perche' duplica il procedimento e le sanzioni disciplinari per l'unico addebito di cui si fa colpa al difensore, pone costui in una sfavorevole e ingiustificata situazione di disuguaglianza rispetto a ogni altra categoria di professionisti. 6. - Esiste infine un terzo profilo di illegittimita' costituzionale che, contro l'art. 131 del c.p.p., puo' fondatamente prospettarsi con riferimento all'art. 24, secondo comma, della Costituzione ("La difesa e' diritto inviolabile in ogni stato e grado del procedimento") ed anche a prescindere dalla fin qui lamentata duplicazione. A differenza dell'art. 130 del c.p.p. - che per il giudizio davanti al consiglio dell'ordine parla genericamente di "provvedimenti disciplinari" e per la specificazione dei quali, quindi, rinvia implicitamente alla legge professionale (v. art. 40 e segg. della legge n. 36/1934, parzialmente modificati dalla legge 17 febbraio 1971, n. 91) - l'art. 131 del c.p.p., per il procedimento davanti alla sezione istruttoria, stabilisce quod poenam (primo e secondo comma) che questa puo' infliggere al difensore (colpevole di abbandono di difesa) un ben determinato tipo di sanzione: ossia la sospensione dall'esercizio della professione per un certo tempo (da due a sei mesi o, nel caso previsto dal secondo comma, da uno a tre mesi). Cio', ovviamente, comporta una disciplina conseguenza: il difensore punito, essendo temporaneamente inabilitato all'esercizio professionale, deve comunque interrompere il suo patrocinio; a sua volta l'imputato, non potendo piu' contare sull'assistenza fiduciariamente prescelta, e' costretto a provvedersi altrimenti o rassegnarsi alla difesa d'ufficio. Certo, se con la diserzione dall'udienza il difensore ha inteso realmente abdicare all'assistenza promessa e dovuta al cliente, vuol dire che il rapporto fiduciario fra i due e' gia' venuto meno con l'abbandono: per cui sara' da ravvisare unicamente in questa colpevole condotta, e non nella successiva inabilitazione del professionista, il fatto che toglie all'imputato il patrocinio di cui fruiva. Ma poiche' l'art. 129 del c.p.p. non consente al difensore di allontanarsi dall'udienza "neppure adducendo che siano stati violati i diritti dalla difesa" e quindi con l'intento non gia' di abbandonare l'imputato ma - a suo avviso - di difenderlo meglio, e' chiaro che, almeno in tal caso, il rapporto fiduciario, lungi dal venir meno, puo' essere l'indice di un piu' solidale legame fra avvocati e clienti. Ed e' allora altrettanto chiaro che quest'ultimo, proprio quando si affida piu' che mai al patrocinio del suo advocatus e in esso ravvisa - non importa se a torto o a ragione - il presidio della migliore difesa, verra' ad esserne privato unicamente per il factum principis, qual e' appunto la temporanea inabilitazione cui viene condannato il professionista. Inconveniente, questo, tanto piu' rilevante quanto piu' lunga e' la durata del processo penale (come quello che ha dato origine alla vicenda in esame, protrattosi per oltre 130 udienze) e quanto maggiore, quindi, e' il periodo durante il quale l'imputato sara' costretto a rimanere senza l'assistenza del difensore da lui scelto e su cui confidava. Ebbene, mentre al consiglio dell'ordine e' dato il potere di distinguere, nel suo giudizio contro il difensore incolpato ( ex art. 130 del c.p.p.), il caso piu' grave di abbandono (abdicativo) da quello meno grave (strumentale) e di graduare correlativamente i suoi "provvedimenti disciplinari", applicando nel secondo caso una sanzione (per es. l'avvertimento o la censura) che sia proporzionata alla colpa dell'inquisito ma non espropriativa della difesa dell'imputato, una uguale possibilita' e' invece preclusa nel parallelo giudizio della sezione istruttoria. Alla quale, infatti, l'art. 131 del c.p.p. non concede ne' di differenziare le due (pur diverse) ipotesi di abbandono, ne' di applicare al difensore altra sanzione fuorche' la temporanea sospensione dall'esercizio professionale. Con la conseguenza che tale pena disciplinare (eventualmente ma irrazionalmente aggiuntiva rispetto a quella che puo' infliggere dal canto suo il consiglio dell'ordine) finisce in realta' per colpire l'imputato, togliendogli il patrocinio del legale su cui egli faceva e continua a fare assegnamento. Il che si pone in contrasto con l'art. 24, secondo comma, della Costituzione, poiche', se "la difesa e' diritto inviolabile in ogni stato e grado del procedimento", questo precetto va inteso anche e soprattutto nel senso che l'imputato non puo' essere privato, contro la sua volonta' e senza una grave ragione giustificativa, dell'assistenza che gli presta il difensore da lui liberamente scelto in base al fiduciario e tuttora valido mandato. La censura di illegittimita' costituzionale, che sotto questo profilo investe l'art. 131 del c.p.p., trae forza appunto dal rilievo che la rigidita' del sistema sanzionatorio ivi previsto non consente al giudice disciplinare (diversamente dall'art. 130) ne' di proporzionare la pena all'entita' dell'addebito, ne' di comparare l'istanza punitiva a pur ragionavoli esigenze di tutela della difesa: lo costringe, in definitiva, a privare l'imputato del suo difensore di fiducia anche nelle ipotesi in cui la pena sospensiva (l'unica irrogabile) risulta oggettivamente sproporzionata alla colpa (lieve) dell'avvocato e, al tempo stesso, di grave pregiudizio alla difesa dell'incolpevole cliente. 7. - Non e' superfluo infine ricordare che il principio su cui si fonda la qui prospettata questione di costituzionalita', e cioe' che non (anche) la sezione istruttoria ma (solo) "Il consiglio dell'ordine forense ha competenza esclusiva per le sanzioni disciplinari relative all'abbandono della difesa", risulta testualmente enunciato in questi termini dall'art. 105 del nuovo codice di procedura penale (gia' approvato con d.P.R. 22 settembre 1988, n. 447 e la cui entrata in vigore e' prevista per il 24 ottobre 1989), in conformita' all'art. 2, n. 4, della legge delega 16 febbraio 1987, n. 81: una scelta legislativa che, togliendo di mezzo l'art. 131 dell'ancora vigente c.p.p. del 1930, elimina l'assurda duplicazione di giudizi disciplinari nel solo modo conforme alla Costituzione. 8. - Conseguenziale e' la caducazione dell'art. 1 del d.P.R. 8 agosto 1955, n. 666, il quale dispone, con riferimento al denunciato art. 131 del c.p.p., l'obbligo del rapporto alla sezione istruttoria;