LA SEZIONE ISTRUTTORIA PRESSO LA CORTE D'APPELLO
    Ha  pronunciato  la seguente ordinanza ai sensi dell'art. 23 della
 legge 11 marzo 1953, n. 87;
    Letti  gli atti relativi al rapporto a carico degli avvocati Autru
 Ryolo Luigi + 77 trasmesso dal presidente della prima sezione  penale
 del tribunale di Messina, ai sensi degli artt. 131 del c.p.p. e 1 del
 d.P.R. 8 agosto 1955, n. 666, per  avere  tutti  i  78  difensori  di
 fiducia  degli  imputati  Antonuccio Aldo + 252 omesso di presentarsi
 sia all'udienza dibattimentale del  2  dicembre  1986  sia  a  quella
 successiva  del  giorno  3, fissata per la presentazione dello stesso
 dibattimento,   senza   addurre   alcun   legittimo   impedimento   e
 determinando  cosi'  l'abbandono di difesa previsto dall'art. 129 del
 c.p.p.;
    Vista  la  comunicazione  del presidente del consiglio dell'ordine
 degli avvocati e procuratori di Messina del  20  ottobre  1987  dalla
 quale  risulta  che  quel  consiglio  ha iniziato per lo stesso fatto
 procedimento  disciplinare  nei  confronti  dei  medesimi  difensori,
 procedimento ancora non definito;
    Vista  la precedente ordinanza del 3 novembre 1987 con la quale la
 sezione  istruttoria,   facendo   proprie   le   argomentazioni   del
 procuratore  generale  della requisitoria 10 ottobre 1987, dichiarava
 non manifestamente infondata e rilevante nel giudizio disciplinare ad
 essa  devoluto  la questione di legittimita' costituzionale dell'art.
 131 del c.p.p. e dell'art. 1 del d.P.R. 8 agosto 1955,  n.  666,  per
 contrasto con gli artt. 3 e 24 della Costituzione e, conseguentemente
 disponeva la trasmissione degli atti alla Corte costituzionale;
   Vista  l'ordinanza  di  inammissibilita'  emessa  al riguardo dalla
 Corte costituzionale il  14  dicembre  1988  perche'  l'ordinanza  di
 rimessione  non  permetteva  "di individuare con sicurezza il petitum
 effettivamente avuto di mira dal giudice a quo" e cioe' se i dubbi di
 incostituzionalita'  investivano  l'art.  30  del  c.p.p. che, per lo
 stesso addebito di abbandono di difesa  dell'imputato,  legittima  il
 consiglio   dell'ordine  forense  ad  irrogare  l'eventuale  sanzione
 disciplinare, ovvero l'art. 131 stesso cod. che  attribuisce  analogo
 potere alla sezione istruttoria;
    Letta  la  nuova  requisitoria del procuratore generale che appare
 utile qui riportare integralmente e che e' del seguente tenore:
    "Il procuratore generale:
     Visti  gli  atti  del  procedimento  di  cui  in  epigrafe,  e in
 particolare:
       a)  la precedente requisitoria del 10 ottobre 1987 con la quale
 e'  stata  sollevata  la  questione  di  legittimita'  costituzionale
 dell'art.  131  del  c.p.p.  e, di riflesso, dell'art. 1 del d.P.R. 8
 agosto 1955, n. 666, per  contrasto  con  gli  artt.  3  e  24  della
 Costituzione;
       b)  la  conforme  ordinanza  emessa  il  3  novembre 1987 dalla
 sezione istruttoria della corte di appello di Messina, che dopo  aver
 riferito,  facendole  proprie, le argomentazioni e richieste del p.g.
 ha cosi' concluso: "dichiara non manifestamente infondata e rilevante
 nel  giudizio  la  questione di legittimita' costituzionale dell'art.
 131 del c.p.p. e di riflesso dell'art. 1 del d.P.R. 8 agosto 1955, n.
 666,  per  contrasto  con  gli  artt.  3  e  24 della Costituzione e,
 conseguentemente, dispone l'immediata trasmissione  degli  atti  alla
 Corte   costituzionale,   previ   gli   adempimenti,   a  cura  della
 cancelleria, previsti dall'art. 23 legge n. 87/1953", sospendendo  il
 giudizio in corso;
       c) la successiva ordinanza emessa il 22 dicembre 1988, n. 1136,
 dalla Corte costituzionale, che, ritenendo non chiaramente  formulato
 il  petium  da parte del giudice a quo, ha dichiarato per tale motivo
 l'inammissibilita' della questione di legittimita' costituzionale;
       d)  la nota di trasmissione degli atti a questo ufficio, per il
 suo parere, da parte della locale corte d'appello (in data 23 gennaio
 1989);
                             O S S E R V A
    1. - Giova preliminarmente avvertire che, se il divieto del ne bis
 in idem - ossia di tornare su una questione gia' decisa  -  impedisce
 di   riproporre   nello   stesso   procedimento   una   questione  di
 costituzionalita' "dopo la pronunzia  di  infondatezza  della  Corte"
 (sentenza  n.  197/1983),  tale  ostacolo  non sussiste quando - come
 nella specie - la pronunzia della Corte  (n.  1136/1988)  non  e'  di
 infondatezza,  bensi'  di  "inamissibilita'":  e non gia' - si badi -
 perche' la "questione", in se' considerata, fosse  improponibile,  ma
 unicamente  per  il "modo" incerto con cui essa e' apparsa formulata,
 piu' precisamente - come dice la  Corte  -  perche'  "l'ordinanza  di
 rimessione,    nel   dolersi   della   'duplicazione'   dei   giudizi
 disciplinari, non permette di individuare con  sicurezza  il  petitum
 effettivamente avuto di mira dal giudice a quo".
    Si  tratta,  dunque, di una ipotesi assai simile alla declaratoria
 di nullita' della citazione per incertezza della domanda  (  ex  art.
 163,  n.  3,  e  164,  del  c.p.p.),  della  quale  pero',  una volta
 specificata, non potrebbe negarsi la riproponibilita' senza con  cio'
 stesso  negare  il  diritto  di  agire  in  giudizio  (art.  24 della
 Costituzione e art. 99 del c.p.p.). Qui non vale ne' il  diritto  del
 ne  bis  in idem ne' il principio della preclusione, poiche' entrambi
 presuppongono che, rispetto al thema decidendum, si siano estinti  il
 potere  d'azione  da  un  lato e la corrispondente potesta' decisoria
 dall'altro, mentre nel caso in esame ne' questa ne'  quello  si  sono
 consumati.  Cio'  che  il  giudice  a  quo  richiede  ora  alla Corte
 costituzionale  non  e'  una   seconda   pronuncia   difforme   dalla
 precedente,  ma  la  prima  ed  unica pronuncia di merito (positiva o
 negativa) sulla questione di  costituzionalita',  che  non  e'  stata
 decisa   solo  a  causa  dell'incertezza  del  petitum  rilevata  con
 l'ordinanza d'inammissibilita'.  Talche',  riformulata  l'istanza  in
 modo   da   permettere  "di  individuare  con  sicurezza  il  petitum
 effettivamente avuto di mira dal giudice a quo",  il  suo  esame  non
 puo'  essere  piu' sottratto all'atteso giudizio della Corte: infatti
 nessun vincolo o impedimento puo'  nascere  da  una  ordinanza,  come
 quella in esame, avente contenuto soltanto processuale, che si limita
 cioe' ad una valutazione allo stato degli atti circa l'esistenza  del
 potere-dovere    di    decidere   in   concreto   la   questione   di
 costituzionalita',  che  l'ordinamento  differisce  alla   competenza
 esclusiva della Corte.
    Se  cosi'  non fosse, del resto, il giudice a quo, rimanendo senza
 risposta da  parte  dell'unica  autorita'  che  puo'  darla,  sarebbe
 costretto  a  definire  la controversia applicando una norma di legge
 fortemente sospetta d'incostituzionalita', qual'e' appunto l'art. 131
 del c.p.p.
    Prima  di spiegare meglio o, se si vuole, di ribadire con maggiore
 precisione le ragioni per le quali e'  di  questa  norma  (e  non  di
 altra)  che  si chiede l'annullamento, e' opportuna una messa a punto
 circa la situazione di fatto e  di  diritto  da  cui  trae  causa  la
 prospettata questione di costituzionalita'.
   2.  -  Nel caso in esame i 78 avvocati difensori degli imputati nel
 processo a carico di Antonuccio Aldo + 252 sono stati denunciati  per
 abbandono  della  difesa  (  ex  art.  129 del c.p.p.), non essendosi
 presentati in aula all'udienza del 9  dicembre  1986  (senza  addurre
 alcun  legittimo  impedimento);  a  seguito di cio' essi risultano in
 atto chiamati a rispondere della suddetta incolpazione sia davanti al
 locale  consiglio  dell'ordine forense ( ex art. 130 del c.p.p.) sia,
 contemporaneamente, davanti alla sezione istruttoria di questa  corte
 d'appello ( ex art. 131 del c.p.p.).
    Cio'  comporta  una  duplicazione di procedimenti e di giudizi, in
 quanto:
       a)  il  fatto  e'  il  medesimo,  poiche'  tanto  il  consiglio
 dell'ordine in base all'art. 130, quanto la  sezione  istruttoria  in
 base  all'art.  131,  sono  chiamati  ambedue  a  pronunciarsi  sulla
 condotta del difensore "che viola il divieto stabilito nell'art. 129"
 (intitolato: "Abbandono della difesa dell'imputato");
       b)  la stessa condotta forma dunque oggetto di due procedimenti
 paralleli e separati,  senza  alternativita'  o  prevalenza  dell'uno
 sull'altro  e  al  di  fuori  di  ogni legame di ordine procedurale o
 istituzionale;
       c)  identiche  sono la struttura e la funzione dei due giudizi,
 dato  che  entrambi,  con  analoghe  modalita'  procedimentali,  sono
 destinati  ad  incidere  sullo  status  professionale  del  difensore
 inquisito: il quale, per  lo  stesso  addebito,  rimane  da  un  lato
 esposto  a  "provvedimenti  disciplinari"  del  consiglio dell'ordine
 (art.  130)  e,  dall'altro,  puo'  essere  temporaneamente  "sospeso
 dall'esercizio   della   professione"  per  effetto  della  sanzione,
 anch'essa disciplinare (e  non  penale),  inflittagli  dalla  sezione
 istruttoria (art. 131);
       d) la diversa tipologia delle sanzioni irrogabili dal consiglio
 dell'ordine  e  della  sezione  istruttoria,   nell'esercizio   delle
 rispettive  potesta'  disciplinari,  non  toglie  che  il presupposto
 logico-giuridico  della  decisione   sia   uguale   in   entrambi   i
 procedimenti,  poiche' cosi' nell'uno come nell'altro cio' che rileva
 anzitutto e soprattutto e'  la  qualificazione  giuridica  del  fatto
 denunciato,  al  fine  appunto  di  accertare  se  in esso siano o no
 ravvisabili gli estremi dell'abbandono di  difesa  vietato  dall'art.
 129:  e'  proprio  e  soltanto  questo,  infatti,  il  divieto la cui
 violazione e' sanzionata  sia  dall'art.  130  (per  i  provvedimenti
 disciplinari  del  consiglio  dell'ordine)  sia dall'art. 131 (per la
 pena disciplinare della sezione istruttoria);
       e) di conseguenza, stante l'autonomia e la liberta' di giudizio
 dei due organi deliberanti, il fatto denunciato nel rapporto puo' dar
 luogo  a  una  conforme o difforme valutazione circa la sussistenza o
 meno dell'abbandono di difesa:  punto  che  -  come  si  e'  detto  -
 costituisce  il  presupposto  logico-giuridico  dal quale, nell'una e
 nell'altra sede, trae fondamento l'emananda decisione. Per cui, se  i
 due  giudizi  sono conformi, si avra' (o un doppio proscioglimento o)
 un cumulo di sanzioni disciplinari per  l'unica  infrazione;  mentre,
 nel  caso  opposto,  si  dara' causa insanabile contraddittorieta' di
 giudicati, dato che l'uno  afferma  e  l'altro  nega  la  sussistenza
 dell'abbandono di difesa.
    Giova anzi sottolineare che la prospettata difformita' di giudizio
 (fra consiglio dell'ordine e sezione istruttoria)  non  e'  in  alcun
 modo  sanabile:  neanche nella ipotesi in cui, esperiti i gravami che
 la legge prevede contro le pronuncie emesse nei due procedimenti,  la
 questione finisca al vaglio della Corte suprema. Difatti:
       f)   la  decisione  del  consiglio  dell'ordine  -  su  gravame
 dell'interessato o del p.m. - e' soggetta in secondo grado al riesame
 del  consiglio  nazionale  forense,  la  cui pronunzia e' a sua volta
 impugnabile con ricorso alle sezioni unite della Corte di cassazione,
 ma  solo  per  vizi  di  legittimita' (v. art. 50 e 56 della legge 22
 gennaio 1934, n. 36, e successive modificazioni, nonche'  art.  unico
 della  legge  15  novembre 1973, n. 738; v. anche art. 59, 66, 68 del
 r.d.  22 gennaio 1934, n. 37). Viceversa, contro  l'ordinanza  emessa
 dalla sezione istruttoria "e' ammesso il ricorso per cassazione anche
 per il merito" (art. 131 del c.p.c., ultimo comma).
    E'  dunque da escludere che, nella suprema sede giurisdizionale, i
 due distinti e  separati  procedimenti  disciplinari  possono  alfine
 trovare  una  occasione  di  unificante collegamento. E' al contrario
 possibile che la segnalata disparita' di giudizi, lungi dal placarsi,
 venga  addirittura  ad  acuirsi:  non  solo  perche'  sui due ricorsi
 (contro  la  decisione  del  consiglio  nazionale  forense  e  contro
 l'ordinanza  della  sezione  istruttoria)  la  Corte di cassazione e'
 chiamata a pronunciarsi rispettivamente a sezioni unite ed a  sezione
 semplice,  ma  anche  e  soprattutto  perche'  nel  primo caso la sua
 cognizione e' limitata all'esame di "legittimita'" mentre nel secondo
 e'  estesa  al  "merito". Talche' la Corte, statuendo sui due ricorsi
 (proposti dell'interessato e/o dal p.m.)  ed  emettendo  le  relative
 sentenze  (una come giudice di legittimita' e l'altra come giudice di
 merito), potrebbe trovarsi, essa stessa, costretta  a  provocare  una
 difformita'  fra  due  decisioni gia' conformi: come nella ipotesi in
 cui  la  Cassazione,  stando  ai  limiti  segnati  dal  giudizio   di
 legittimita',   deve  rigettare  e  rigetta  il  ricorso  avverso  la
 decisione del  consiglio  nazionale  forense,  mentre  con  la  plena
 cognitio  attribuitagli dal citato art. 131, puo' riformare e riforma
 il giudizio di merito espresso dalla sezione istruttoria.
    Comunque  sia,  e' una difformita' che, oltre a porsi in contrasto
 con elementari esigenze di certezza del diritto, produce gli  effetti
 piu'    sconvolgenti   sullo   status   professionale   dell'avvocato
 (doppiamente) inquisito, venendo costui  a  trovarsi  nell'ambigua  e
 paradossale situazione di cui risulta al tempo stesso colpevole e non
 colpevole di abbandono della difesa.
   3.  -  Le  osservazioni  che  precedono  erano gia' contenute nella
 precedente ordinanza di rimessione (del 3  novembre  1987),  nel  cui
 ulteriore  sviluppo  motivazionale  non  e' parso tuttavia abbastanza
 chiaro alla Corte costituzionale - e di qui  la  rilevata  incertezza
 del  petitum - se il giudice remittente avesse di mira l'annullamento
 dell'art. 130 "con l'effetto di  conservare  la  relativa  competenza
 alla  sola  sezione  istruttoria",  ovvero dell'art. 131, con effetto
 (opposto) di "conservare la relativa  competenza  al  solo  consiglio
 dell'ordine forense".
    Bisogna  in  effetti  riconoscere che, se e' proprio e soltanto la
 duplicazione di giudizi disciplinari a causare la lamentata discrasia
 (sulla  quale  sembra  implicitamente  consentire  la  stessa Corte),
 l'inconveniente potrebbe  essere  in  teoria  ugualmente  scongiurato
 tanto  se si eliminasse l'uno quanto se si eliminasse l'altro dei due
 giudizi: ossia annullando o l'una (art. 130) o  l'altra  (art.  131),
 indifferentemente,   delle   norme   attributive   di  competenza  ai
 rispettivi organi giusdicenti.
    Ma  non  e'  certo  in siffatta forma alternativa che si puo' o si
 vuole  prospettare  la  questione  di  costituzionalita',  occorrendo
 invece  verificare  quale  delle  due  norme,  o  per  la coesistenza
 dell'altra o - a maggior ragione  -  indipendentemente  da  essa,  e'
 quella che si pone in contrasto con la Costituzione.
    E  pertanto,  nella  misura  in  cui  la  precedente  ordinanza di
 rimessione ha  trovato  equivoco  supporto  in  qualche  passo  della
 motivazione,  tanto  da rivelarsi oscillante nella scelta della norma
 denunciata, a tale  carenza  deve  ora  ovviarsi  indicando  in  modo
 univoco  le  ragioni per le quali l'art. 131, e non l'art. 130, e' la
 disposizione che si ritiene viziata di illegittimita' costituzionale.
    4.  -  L'art.  131 del c.p.p., nella parte in cui attribuisce a un
 organo giudiziario (sezione istruttoria) la competenza  ad  applicare
 le  sanzioni  ivi previste (sospensione dall'esercizio professionale)
 "contro  il  difensore  dell'imputato  che  abbandona   la   difesa",
 sottoponendo  cosi'  tale  difensore  a  un procedimento disciplinare
 aggiuntivo rispetto a quello cui egli gia' soggiace e deve soggiacere
 (per  l'art.  130)  davanti  al  consiglio  dell'ordine,  si  pone in
 contrasto col precetto costituzionale dell'uguaglianza (art. 3  della
 Costituzione). E cio' sotto un duplice profilo.
    Il  primo  profilo  riguarda  la  disparita' di trattamento che si
 viene a creare, all'interno dello stesso ordine forense, fra  i  vari
 iscritti  all'albo  professionale.  La  regola  che  vale (o dovrebbe
 valere) per tutti e' che sono soggetti  al  potere  di  supremazia  e
 quindi al procedimento disciplinare del consiglio dell'ordine, e solo
 a questo, "gli avvocati e procuratori che  si  rendano  colpevoli  di
 abusi  o mancanze nell'esercizio della loro professione o comunque di
 fatto non conformi alla dignita' e al decoro professionale" (art.  38
 della  legge n. 36/1934). Si tratta - come ognun vede - di previsione
 talmente  ampia  da  comprendere   qualsiasi   tipo   di   infrazione
 professionalmente   censurabile,   anche  se  di  uguale  o  maggiore
 importanza  dell'abbandono  di   difesa   (dell'imputato):   ipotesi,
 tuttavia,  per la quale soltanto si e' voluta fare una eccezione alla
 regola, prevedendosi, con l'art. 131,  un  ulteriore  e  concomitante
 (oltre  che  scoordinato)  procedimento disciplinare, per il medesimo
 addebito, davanti a un organo  diverso  da  quello  professionale.  E
 questa  eccezione,  da  un  lato,  ferisce  profondamente l'autonomia
 istituzionale  dell'ordine  forense,  negandogli  quella   piena   ed
 esclusiva "competenza a procedere disciplinarmente" (art. 38 della l.
 prof.) che e' una sua naturale prerogativa in  virtu'  del  principio
 democratico,  generalmente  riconosciuto,  secondo  cui  "l'ordre est
 maitre de son tableau"; dall'altro segna una  deviazione  tanto  piu'
 vistosa  dal  sistema - accentuando cosi' la sua anomalia - in quanta
 per le sanzioni disciplinari relative ad addebiti dello stesso  tipo,
 ossia  per  quelle  applicabili ai casi di "abbandono della difesa di
 altre parti", resta fermo il  principio  della  competenza  esclusiva
 degli organi professionali (art. 132 del c.p.p.).
    Ora,  il  fatto  che  fra tutti gli avvocati "colpevoli di abusi e
 mancanze" anche gravi e persino gravissime, solo chi e' indiziato  di
 abbandono  della  difesa  (dell'imputato)  debba  essere  giudicato e
 (eventualmente) condannato  due  volte  -  a  causa,  appunto,  della
 duplicazione  creata  dall'impugnato  art.  131, che si soprappone al
 legittimo art. 130 - comporta, a danno dell'inquisito, una disparita'
 di  trattamento  che e' illogica, ingiusta e priva di ragionevolezza.
 E' illogica per le disarmonie e le contraddizioni  che,  come  si  e'
 visto,  sono insite nell'artificioso meccanismo di un doppio giudizio
 disciplinare concomitante e slegato. E' ingiusta  perche',  ove  tale
 duplicazione  dovesse  in  ipotesi intendersi come misura di maggiore
 severita' per il colpevole di  abbandono  della  difesa,  altrettanto
 allora   dovrebbe   valere   per   il   responsabile   di  infrazioni
 professionali ancora piu' gravi (come quelle, per  es.,  che  portano
 alla radiazione dall'albo) e che, invece, secondo la regola, ricadono
 sempre nella potesta' disciplinare esclusiva dell'ordine forense.  E'
 infine  priva  di  ragionevolezza  perche', a voler ammettere che "la
 difesa dell'imputato e' attivita'  troppo  importante  perche'  possa
 essere  sottratta  agli  organi  di  giurisdizione...  la potesta' di
 valutarne la gravita' e quindi di applicare la relativa sanzione" (v.
 Relaz.  min.  alla  novella del 1955), sarebbe agevole replicare che,
 rispetto a tale finalita' (in cui,  peraltro,  risuona  ancora  l'eco
 dell'autoritarimo  statuale  cui  si ispirava il codice del 1930), il
 sistema del doppio giudizio appare il piu'  irrazionale  ed  il  meno
 coerente:   il  piu'  irrazionale  per  il  gia'  rilevato  tasso  di
 illogicita' e di ingiustizia che  esso  contiene;  il  meno  coerente
 perche',   aggiungendo   alla   competenza   (naturale)   dell'organo
 professionale quella (innaturale) dell'organo giudiziario,  da'  vita
 ad  una  sorta  di  mezzadria  disciplinare  che, oltre a menomare il
 prestigio istituzionale  dell'ordine  forense,  non  rafforza  ma  al
 contrario  indebolisce  l'efficacia e la credibilita' del concorrente
 potere attribuito al magistrato, ponendo in conflitto  i  due  poteri
 specialmente  nella  ipotesi  - tutt'altro che teorica - di giudicati
 contrastanti.
    5.   -  Il  secondo  profilo  di  contrasto  con  l'art.  3  della
 Costituzione riguarda la disparita' di trattamento che,  per  effetto
 dell'art.  131  del  c.p.p.,  colpisce  gli  appartenenti alla classe
 forense  (avvocati  e  procuratori)  rispetto  a  tutti   gli   altri
 professionisti  iscritti  negli albi (ordini o collegi) di rispettiva
 pertinenza.
    Per   ogni   professione,   ed   a   riconoscimento  della  natura
 giuspubblicistica dell'ente  che  rappresenta  istituzionalmente  gli
 iscritti in una posizione di supremazia speciale, la regola e' che le
 funzioni disciplinari sono devolute al relativo consiglio dell'ordine
 o collegio (v. art. 1 del d.l.l. 23 novembre 1944, n. 382). Se questa
 regola  risulta  talora  temperata  da  qualche  eccezione,  cio'  e'
 unicamente  nel  senso che, o per la particolare sede ove l'attivita'
 professionale sia svolta o  per  il  tipo  di  sanzione  prevista  in
 rapporto  alla  (minore  o maggiore) gravita' dell'addebito, l'organo
 competente e il relativo procedimento disciplinare sono  diversamente
 strutturati.
    Un  esempio  nel  primo  senso e' dato dal giudizio disciplinare a
 carico degli iscritti nell'albo dei consulenti tecnici "che non hanno
 tenuto  una  condotta morale specchiata" o che "non hanno ottemperato
 agli obblighi derivanti dagli incarichi ricevuti": per tale  giudizio
 la  competenza  e' attribuita a uno speciale comitato misto, composto
 da due  magistrati  (presidente  del  tribunale  e  p.r.)  e  "da  un
 professionista   iscritto   nell'albo   professionale  designato  dal
 consiglio dell'ordine o dal collegio della categoria" (v. art.  14  e
 19 delle disp. att. del c.p.p.).
    Un   esempio   nel   secondo   senso   e'   offerto   dalla  legge
 sull'ordinamento del notariato che,  per  i  giudizi  disciplinari  a
 carico  dei  notai, dispone un riparto di competenze fra il consiglio
 notarile e il tribunale (civile):  il  primo  e'  competente  per  le
 infrazioni  disciplinari  punite con l'avvertimento e con la censura;
 il secondo per le piu' gravi inadempienze punite con  l'ammenda,  con
 la  sospensione  e con la destituzione (v. artt. 135, 148 e 151 della
 legge 16 febbraio 1913, n. 89 e successive  modificazioni;  v.  anche
 artt.  262,  270 e 271 reg. esecutivo approvato con r.d. 10 settembre
 1914, n. 1326).
    Ma  in  questi  e  consimili  casi,  la  speciale regolamentazione
 legislativa non deroga mai alla regola fondamentale secondo cui,  per
 la stessa infrazione uno solo puo' essere ed e' l'organo disciplinare
 competente a giudicare e ad  infliggere  la  sanzione  che  la  legge
 prevede per l'addebito contestato al professionista.
    Cosi',  viceversa, non e' per il professionista legale (avvocato o
 procuratore) dato che egli  soltanto  (qualora  abbandoni  la  difesa
 dell'imputato)  e'  soggetto,  oltre  che  al  procedimento  ed  alle
 sanzioni  disciplinari  del  consiglio  dell'ordine  (art.  130   del
 c.p.p.), anche al giudizio e alle sanzioni disciplinari della sezione
 istruttoria (art. 131). Ed e' proprio questo doppione, cui da'  luogo
 l'art. 131 ed al quale non sono esposti gli altri professionisti, che
 pone l'avvocato in una situazione di sfavore, chiaramente lesiva  del
 principio  di  uguaglianza  e  razionalmente  non  giustificata,  ne'
 ingiustificabile, per le ragioni sopra esposte.
    Al  riguardo,  piuttosto,  e'  opportuno  aggiungere una ulteriore
 considerazione.
    Si  e'  in  precedenza  ricordato,  nonche' criticato, l'argomento
 addotto nella relazione ministeriale a favore dell'art. 131, e  cioe'
 che  la difesa dell'imputato e' "attivita' troppo importante" perche'
 il suo abbandono, da parte del difensore, sia sottratto alla potesta'
 decisoria  e sanzionatoria del magistrato. L'argomento va qui ripreso
 per osservare che, se "il difensore non puo' abbandonare  il  proprio
 ufficio, ne' allontanarsi dall'udienza in modo che l'imputato rimanga
 privo di assistenza" (art. 129 del c.p.p.), la ratio del  divieto  va
 indubbiamente  colta  nella speciale valenza degli interessi che, nel
 procedimento penale, il cliente affida al patrocinio forense, che  e'
 indefettibile  a  pena  di  nullita'  (v.  art.  125  e 182, n. 3 del
 c.p.p.). Donde il precetto - deontologico prima ancora che  giuridico
 -  che  il  difensore,  una  volta  accertato  il  fiduciario mandato
 (civilisticamente rientrante nel  contrasto  di  prestazione  d'opera
 intellettuale:  art.  2230  e  segg. del c.c.), non e' piu' libero di
 recederne ad nutum in guisa  da  lasciare  senza  assistenza  chi  ha
 bisogno  del  suo advocatus. Ed e' appunto questo il fatto che, oltre
 ad integrare un inadempimento contrattuale,  rende  professionalmente
 scorretta la condotta del difensore.
    Ora,   in  quale  altro  ordine  di  valutazioni  negative,  oltre
 all'aspetto disciplinare, sia da inquadrare  una  siffatta  condotta,
 secondo   il  grado  di  disvalore  sociale  che  si  e'  indotti  ad
 attribuirle, spetta naturalmente alla discrezionalita'  politica  del
 legislatore,   il   quale  -  se  davvero  convinto  che  la  "difesa
 dell'imputato  e'  attivita'  troppo  importante"  -  potrebbe  anche
 promuovere  al  rango  di  fattispecie  delittuosa  l'abbandono della
 difesa: non diversamente di come ha fatto per quelle  piu'  eclatanti
 forme  di  violazione  dei "doveri professionali" che da'nno corpo ai
 reati di patrocinio infedele (artt. 380 e 381 del c.p.).
   Se  questa  fosse  stata  la  scelta  legislativa,  quella condotta
 avrebbe formato oggetto di un procedimento disciplinare  (davanti  al
 consiglio  dell'ordine)  e  di un processo penale (davanti al giudice
 competente ex art. 29 e segg. del c.p.p.),  dandosi  luogo  cosi'  al
 consueto  e ben regolato fenomeno dei rapporti fra giudicato penale e
 giudizi di altro genere (v. in generale art.  28  del  c.p.p.  e,  in
 particolare, artt. 42 e 44 della legge n. 36/1934). Ma il legislatore
 ha  scartato  questa  soluzione:   non   ha   infatti   ritenuto   di
 criminalizzare  la  fattispecie  di  abbandono  della  difesa,  ma ha
 reputato di valutarla solo come illecito disciplinare e ben a ragione
 l'ha   lasciata   al   giudizio  del  consiglio  dell'ordine  "per  i
 provvedimenti disciplinari" del caso (art. 130 del c.p.p.).
    Con l'art. 130, dunque, il quadro normativo era in se' compiuto ed
 inalterabile. Esso  invece  e'  stato  stravolto  dall'art.  131  con
 l'ibrida  commissione di un secondo giudizio, anch'esso disciplinare,
 in aggiunta e neppure coordinato al primo: un doppione  che,  appunto
 perche'  duplica  il  procedimento  e  le  sanzioni  disciplinari per
 l'unico addebito di cui si fa colpa al difensore, pone costui in  una
 sfavorevole  e ingiustificata situazione di disuguaglianza rispetto a
 ogni altra categoria di professionisti.
    6.   -   Esiste   infine   un   terzo  profilo  di  illegittimita'
 costituzionale che, contro l'art. 131 del c.p.p.,  puo'  fondatamente
 prospettarsi  con  riferimento  all'art.  24,  secondo  comma,  della
 Costituzione ("La difesa e' diritto inviolabile in ogni stato e grado
 del  procedimento")  ed  anche  a prescindere dalla fin qui lamentata
 duplicazione.
    A  differenza  dell'art.  130  del  c.p.p.  -  che per il giudizio
 davanti   al   consiglio   dell'ordine   parla    genericamente    di
 "provvedimenti  disciplinari"  e  per  la  specificazione  dei quali,
 quindi, rinvia implicitamente alla legge professionale (v. art. 40  e
 segg.  della legge n. 36/1934, parzialmente modificati dalla legge 17
 febbraio 1971, n. 91) - l'art. 131 del c.p.p.,  per  il  procedimento
 davanti  alla  sezione  istruttoria,  stabilisce quod poenam (primo e
 secondo comma) che questa puo' infliggere al difensore (colpevole  di
 abbandono  di  difesa)  un ben determinato tipo di sanzione: ossia la
 sospensione dall'esercizio della professione per un certo  tempo  (da
 due  a  sei mesi o, nel caso previsto dal secondo comma, da uno a tre
 mesi).
    Cio',   ovviamente,   comporta   una  disciplina  conseguenza:  il
 difensore punito, essendo temporaneamente  inabilitato  all'esercizio
 professionale,  deve  comunque  interrompere il suo patrocinio; a sua
 volta  l'imputato,   non   potendo   piu'   contare   sull'assistenza
 fiduciariamente  prescelta,  e'  costretto a provvedersi altrimenti o
 rassegnarsi alla difesa d'ufficio.
    Certo,  se  con  la diserzione dall'udienza il difensore ha inteso
 realmente abdicare all'assistenza promessa e dovuta al cliente,  vuol
 dire  che  il  rapporto  fiduciario fra i due e' gia' venuto meno con
 l'abbandono:  per  cui  sara'  da  ravvisare  unicamente  in   questa
 colpevole   condotta,  e  non  nella  successiva  inabilitazione  del
 professionista, il fatto che toglie all'imputato il patrocinio di cui
 fruiva.
    Ma  poiche'  l'art.  129  del  c.p.p. non consente al difensore di
 allontanarsi dall'udienza "neppure adducendo che siano stati  violati
 i   diritti  dalla  difesa"  e  quindi  con  l'intento  non  gia'  di
 abbandonare l'imputato ma - a suo avviso - di difenderlo  meglio,  e'
 chiaro  che,  almeno  in  tal caso, il rapporto fiduciario, lungi dal
 venir meno, puo' essere l'indice  di  un  piu'  solidale  legame  fra
 avvocati e clienti. Ed e' allora altrettanto chiaro che quest'ultimo,
 proprio quando si affida piu' che mai al patrocinio del suo advocatus
 e  in esso ravvisa - non importa se a torto o a ragione - il presidio
 della migliore difesa, verra' ad esserne privato  unicamente  per  il
 factum  principis,  qual  e' appunto la temporanea inabilitazione cui
 viene condannato il professionista. Inconveniente, questo, tanto piu'
 rilevante  quanto  piu'  lunga e' la durata del processo penale (come
 quello che ha dato origine alla vicenda  in  esame,  protrattosi  per
 oltre  130  udienze) e quanto maggiore, quindi, e' il periodo durante
 il quale l'imputato sara' costretto a rimanere senza l'assistenza del
 difensore da lui scelto e su cui confidava.
    Ebbene,  mentre  al  consiglio  dell'ordine  e'  dato il potere di
 distinguere, nel suo giudizio contro il difensore incolpato ( ex art.
 130  del  c.p.p.),  il  caso  piu' grave di abbandono (abdicativo) da
 quello meno grave (strumentale) e di graduare correlativamente i suoi
 "provvedimenti   disciplinari",   applicando  nel  secondo  caso  una
 sanzione (per es. l'avvertimento o la censura) che sia  proporzionata
 alla   colpa   dell'inquisito   ma  non  espropriativa  della  difesa
 dell'imputato,  una  uguale  possibilita'  e'  invece  preclusa   nel
 parallelo  giudizio  della  sezione istruttoria. Alla quale, infatti,
 l'art. 131 del c.p.p. non concede ne' di differenziare  le  due  (pur
 diverse)  ipotesi  di  abbandono, ne' di applicare al difensore altra
 sanzione   fuorche'   la   temporanea   sospensione    dall'esercizio
 professionale.
    Con  la  conseguenza  che tale pena disciplinare (eventualmente ma
 irrazionalmente aggiuntiva rispetto a quella che puo' infliggere  dal
 canto  suo  il  consiglio dell'ordine) finisce in realta' per colpire
 l'imputato, togliendogli il patrocinio del legale su cui egli  faceva
 e continua a fare assegnamento.
    Il  che  si  pone in contrasto con l'art. 24, secondo comma, della
 Costituzione, poiche', se "la difesa e' diritto inviolabile  in  ogni
 stato  e  grado  del procedimento", questo precetto va inteso anche e
 soprattutto nel senso che l'imputato non puo' essere privato,  contro
 la   sua   volonta'   e   senza  una  grave  ragione  giustificativa,
 dell'assistenza che gli presta il difensore da lui liberamente scelto
 in base al fiduciario e tuttora valido mandato.
    La  censura  di  illegittimita'  costituzionale,  che sotto questo
 profilo investe l'art. 131 del c.p.p., trae forza appunto dal rilievo
 che  la rigidita' del sistema sanzionatorio ivi previsto non consente
 al  giudice  disciplinare  (diversamente  dall'art.   130)   ne'   di
 proporzionare  la  pena  all'entita'  dell'addebito, ne' di comparare
 l'istanza punitiva a pur ragionavoli esigenze di tutela della difesa:
 lo  costringe,  in definitiva, a privare l'imputato del suo difensore
 di fiducia anche nelle ipotesi in cui  la  pena  sospensiva  (l'unica
 irrogabile)  risulta oggettivamente sproporzionata alla colpa (lieve)
 dell'avvocato e, al tempo stesso, di grave  pregiudizio  alla  difesa
 dell'incolpevole cliente.
    7.  - Non e' superfluo infine ricordare che il principio su cui si
 fonda la qui prospettata questione di costituzionalita', e cioe'  che
 non   (anche)   la   sezione  istruttoria  ma  (solo)  "Il  consiglio
 dell'ordine  forense  ha  competenza  esclusiva   per   le   sanzioni
 disciplinari    relative   all'abbandono   della   difesa",   risulta
 testualmente enunciato in questi  termini  dall'art.  105  del  nuovo
 codice  di  procedura  penale (gia' approvato con d.P.R. 22 settembre
 1988, n. 447 e la cui entrata in vigore e' prevista per il 24 ottobre
 1989),  in  conformita'  all'art.  2,  n.  4,  della  legge delega 16
 febbraio 1987, n. 81: una scelta legislativa che, togliendo di  mezzo
 l'art.  131  dell'ancora  vigente  c.p.p. del 1930, elimina l'assurda
 duplicazione di giudizi disciplinari  nel  solo  modo  conforme  alla
 Costituzione.
    8.  -  Conseguenziale  e'  la caducazione dell'art. 1 del d.P.R. 8
 agosto 1955, n. 666, il quale dispone, con riferimento al  denunciato
 art. 131 del c.p.p., l'obbligo del rapporto alla sezione istruttoria;