IL TRIBUNALE DI SORVEGLIANZA Ha pronunciato la seguente ordinanza nel procedimento di sorveglianza, proposto su domanda di Comincini Emilio, nato a Vicenza, il 12 gennaio 1952, residente a Milano, in via Plinio n. 10, presso A. Zampieri, detenuto nella casa di Bergamo, condannato con sentenza in data 7 ottobre 1985 emessa dalla corte assise appello di Milano alla pena della reclusione per anni cinque, pena da espiare anni due, come da ordine di carcerazione n. 953/86 emesso dalla procura generale di Milano il 17 aprile 1987 ed avente per oggetto: affidamento in prova al servizio sociale (art. 47 dell'ord. penit.). F A T T O Comincini Emilio e' stato condannato in contumacia per concorso in incendio doloso continuato con la sentenza in epigrafe indicata, reato commesso fino al 1º febbraio 1977 per fini di eversione e terrorismo. Ha ottenuto condono per anni due con la sentenza di secondo grado ed anni uno con ordinanza 11 febbraio 1987 della Corte d'appello di Milano, in totale tre anni per cui restano da espiare due anni. Il Comincini, che ha dimorato a lungo in Francia, saputo della emissione dell'ordine di carcerazione, e' tornato volontariamente in Italia e si e' costituito presso la Casa di Bergamo il 13 gennaio 1989. Presso detta casa e' stato sottoposto, con esito del tutto positivo, alla osservazione della pericolosita': ha una famiglia a Milano, un lavoro che lo attende; ha ottenuto permessi premiali; ha sempre tenuto una condotta ineccepibile. Non ha pendenze penali, ne' altre precedenti condanne, come risulta in modo chiaro dal certificato penale e dalle informazioni della P.S. Il Comincini e' stato anche accusato di due reati associativi commessi per scopo di eversione, nella seconda meta' degli anni settanta, ma e' stato assolto, pur grazie ad un errore commesso dai giudici di prime cure (capo d'imputazione n. 377), senza che vi sia stata impugnazione del pubblico ministero. Per quanto riguarda la partecipazione alla banda "Rosso". E' stato assolto con ampia formula della corte d'assise di appello per la partecipazione alla banda "F.C.C." (Fronte comunista combattente) (si veda il capo di imputazione n. 2). In ordine al reato di cui ai capi n. 530 e 417 la corte ha dichiarato n.d.p. a seguito di interventuta prescrizione. I due reati di incendio doloso per i quali vi e' stata condanna, riguardano l'incendio della autovettura dell'ing. Gabrielli e l'incendio alla Face Standard. Il Comincini ha presentato fin dal 22 dicembre 1988, tramite il proprio difensore, domanda di affidamento in prova al servizio sociale, affermandosi disposto a costituirsi ed a essere sottoposto al periodo prescritto di osservazione inframurale, il che si e' verificato, avendo la casa di Bergamo trasmesso al programma di trattamento, approvato da questo magistrato il 15 aprile 1989. Successivamente il difensore ha presentato domanda di semiliberta', ai sensi dell'art. 50, secondo comma, dell'ordine penitenziario. D I R I T T O Al tempo in cui la domanda di affidamento e' stata presentata, questo tribunale di sorveglianza, come del resto molti altri, adeguava la propria giurisprudenza in materia al principio secondo il quale l'affidamento poteva essere concesso ai condannati che pur avendo riportato una condanna superiore a tre anni, dovevano in concreto espiare una pena non superiore a tale limite. In altri termini per pena "inflitta" si intendeva la pena fissata dal giudice ma depurata da quella parte estinta per condono od amnistia impropria. Si deve rilevare che, a causa dei numerosissimi, ricorrenti nel tempo, provvedimenti clemenziali decisi dal legislatore, sono altrettanto numerosi i casi di condannati che hanno ottenuto e con successo l'affidamento in prova in forza dell'indirizzo giurisprudenziale suddetto che, del resto, era stato avallato per anni dalla Corte di cassazione. Nel caso in esame, poi, la stessa sentenza di condanna (in sede di appello), di fatto ha inflitto al Comencini la pena di tre anni, perche' nello stesso dispositivo sono stati applicati due anni di condono. E' anche vero che la giurisprudenza della suprema Corte e' sempre stata decisamente favorevole alla interpretazione fatta propria anche da questo tribunale, a partire dal 1977 e fino al 1988. Nel corso di tale anno, nell'ambito della stessa prima sezione della corte si sono registrate per la prima volta decisioni contrarie, che hanno determinato l'intervento delle sezioni unite (sentenza n. 6 del 26 aprile 1989, presidente Zucconi Galli Fonseca, relatore Molinari, ricorrente al p.g. di Palermo avverso in ordinanza concessione di affidamento a Russo Emanuele, che era stato condannato per bancarotta a tre anni ed un mese di reclusione, di cui due anni condonati). La suddetta sentenza (che e' stata resa su difformi conclusioni del procuratore generale) costituisce un avvenimento troppo grave, importante ed in certo senso inatteso, per essere passivamente recepito in un sistema ormai da quasi quindici anni orientato in senso nettamente diverso. Cio' anche per le conseguenze sostanziali che comportera' sul piano della gestione del penienziario: le domande di affidamento che non potranno piu' essere accolte non saranno certamente poche. Da cio' un sensibile aumento della popolazione detenuta, di fronte ad una capienza degli istituti gia' quasi al limite delle possibilita' (alla data del 5 maggio 1989 di fronte ad una capienza totale degli istituti di n. 38960 posti, erano gia' presenti n. 36834 soggetti). Tuttocio', ovviamente, prescindendo dal negativo impatto della decisione sulla popolazione dei condannati, sulla stessa magistratura giudicante penale, chiamate ad amministrare anche la quantita' della pena ai sensi dell'art. 133 del c.p., sullo stesso Legislatore che viene cosi' posto in seria difficolta', dibattuto tra l'incudine di un ordinamento penitenziario di tipo liberale, ispirato fortemente al principio della pena risocializzante dettato dall'art. 27 della Costituzione ed il martello di un sistema giudiziario penale che continua a non funzionare, che colleziona ritardi sempre piu' gravi, che pone gli uffici in situazioni di acutissima crisi operativa e che richiede continui interventi normalizzatori costituiti da provvedimenti clemenziali di cui nessuno parla bene ma che tutti attendono e che costituiscano ormai l'unico mezzo per tenere l'amministrazione della giustizia penale in linea di accettabile galleggiamento. Secondo il procuratore generale della Cassazione (discorso inaugurale per l'anno 1989) alla fine del 1º semestre 1988 i procedimenti penali pendenti in primo grado erano ben 2.518.070. Non vi e' dubbio che le sezioni unite avranno considerato tutto cio' (anche se dalla motivazione non traspare). Cosi' come non avranno dimenticato che il 24 ottobre 1989 deve entrare in vigore il nuovo codice di procedura penale, il che - almeno nei primi tempi - creera' altri gravi problemi operativi al sistema, nascenti soprattutto dalla coesistenza di una pendenza penale imponente e della necessita' di consentire il varo del nuovo processo in condizioni accettabili. Per questo non e' piu' un segreto per nessuno, che uno dei sistemi per risolvere il conflitto di cui sopra sara' ancora l'ennesimo, radicale provvedimento clemenziale che azzeri o quasi la pendenza suddetta. Ma, allora, se tutto cio' deve avere un senso compiuto, questo tribunale non puo' che porre il problema della costituzionalita' della nuova interpretazione del termine "pena inflitta" di cui all'art. 47, primo comma, dell'ord. penit. investendo la Corte costituzionale, che si e' sempre fatta carico dei problemi reali e complessivi del Paese, superando le questioni formali e di dettaglio. Il tribunale ritiene che l'interpretazione letterale fornita dalla Cassazione sia difficilmente criticabile, se ci si ferma al significato dell'aggettivo "inflitta" dell'art. 47, primo comma, dell'ord. penit. e per questo ritiene pregiudiziale l'intervento della Corte, la sola che potra' dire se il sistema, complessivamente considerato, sia a questo punto in linea con i principi costituzionali. Le sezioni unite quanto al problema specifico dell'indulto, hanno affermato che la causa estintiva, "influendo soltanto sulla determinazione della pena in concreto da eseguire", non incide sulla pena inflitta, che e' quella "erogata con la sentenza o le sentenze di condanna". La Cassazione ha ribadito anche che, qualora le pene siano "inflitte" con piu' sentenze di condanna, la pena da considerarsi anche alla fine della concessione dell'affidamento e' "la pena unica prederminata per legge" (art. 76 e 78 del c.p., 589 del c.p.p.). Su tale punto questo collegio si limita a richiamare la propria ordinanza n. 1176/88 dell'8 novembre 1989 (in causa Fassi Marco) con cui ha gia' dichiarato non infondata la questione di costituzionalita' che risulta tuttora essere all'esame della Corte. Il caso presente riguarda pero' una unica sentenza, per unico reato (continuato), che ha comportato un condono complessivo superiore addirittura alla pena residua da espiare. I capisaldi della motivazione della suddetta decisione della cassazione possono essere cosi' riassunti: a) il legislatore nell'art. 47 ha voluto ribadire un parametro preciso, quello della entita' della pena, ancorato all'art. 133 del c.p. ed in particolare alla "gravita' del fatto reato, la capacita' a delinquere del colpevole", "elementi decisivi" al fine di stabilire il grado di pericolosita' sociale del condannato; b) avendo il legislatore nel 1986, tolto ogni altro sbarramento all'affidamento derivante dal titolo del reato e ridotto il periodo di osservazione da tre mesi ad un mese, il limite legale deve essere "determinato con un criterio piu' rigido"; c) la corte, infine, non poteva non affrontare il problema, invero spinosissmo dei rapporti esistenti tra l'affidamento (art. 47 dell'ord. penit.) e la deliberazione condizionale (art. 176 del c.p.) ed e' proprio qui, come si dira' appresso, che appare la assoluta fragilita' ed inaccettabilita' delle argomentazioni. Quanto al problema dei rapporti tra l'affidamento e la liberazione condizionale la sentenza delle sezioni unite ha creato, un contrasto insanabile all'interno della stessa Cassazione, avendo sempre la Corte affermato che, al fine di stabilire se il condannato abbia superato la meta' della pena ed il residuo non sia inferiore a cinque anni, non si deve tener conto della pena estinta per condono o per amnistia impropria. Le sezioni Unite sono intervenute in modo eccessivamente tempestivo, e non hanno potuto leggere la sentenza n. 282 della Corte costituzionale del 17-25 maggio 1989 (Gazzetta Ufficiale n. 22 del 31 maggio 1989) che ha richiamato quella n. 343/1987, della stessa Corte, in tema di conseguenze della revoca dell'affidamento. L'analisi della sentenza suddetta dimostra che ormai la Corte afferma: 1) che si deve prescindere dalla disputa, intorno alla natura giuridica degli istituti; 2) che, essendo ormai presente, oltre alla pena detentiva, tutta una serie di altre misure rieducative, la "nozione di esecuzione va estesa fino a comprendere le modalita' esecutive di tutte le misure, anche solo limitative della liberta' personale"; 3) che non e' piu' lecito dissertare sulla diversita' fra i vari istituti ne e' piu' possibile, da tale asserita diversita', far derivare al condannato conseguenze diverse, a seconda della misura richiesta, salvo violare gli art. 3 e 27 della Costituzione. Sotto tale profilo, quindi nessun rilievo ha piu' il fatto che l'affidamento sia istituito previsto dall'ordinamento penitenziario e la liberazione condizionale dal codice penale, ampiamennte del resto visitato sul punto. Il perche' e' chiarito dalla Corte. La finalita' rieducativa prevale su ogni altra finalita' (salvo quella retributiva) nell'ipotesi che l'esame del soggetto ed il conseguente giudizio prognostico sul suo futuro, impongano, durante l'esecuzione, di sospendere o ridurre l'esecuzione stessa. Le misure alternative, tutte, sono "il punto di emergenza" del trattamento rieducativo anche secondo il nuovo codice di procedura penale. Pertanto, ad avviso del tribunale, se la pena estinta non e' piu' da eseguire, essendovi stata formale rinuncia da parte dello Stato, cio' deve valere non solo per la liberazione condizionale ma anche per l'affidamento in prova, salvo voler sostenere che il condannato, pur ampiamente ravveduto, deve rimanere in carcere fino ad avere scontato la meta' della pena "inflitta" e non la meta' di quella fissata dal legislatore in concreto, con un provvedimento di carattere generale, discutibile e discusso finche' si vuole, ma non eliminabile. In altri termini, la parte di pena estinta per condono ad amnistia se non rileva ai fini della liberazione condizionale, non rileva neppure ai fini dell'affidamento. E se la pena estinta non deve essere espiata in carcere non puo' costituire ostacolo alla concessione di misure alternative, cui il condannato (si noti) ha diritto nel caso concorrano tutti gli altri requisiti previsti. Diversamente opinando, si arriverebbe all'assurdo: la pena estinta, che non puo' piu' essere "espiata" nel senso tradizionale, dovrebbe invece esserlo ancora ai fini delle misure alternative. Il che e' contro ogni principio di ragionevolezza e costituisce gravissima violazione dei diritti ormai piu' volte affermati dal legislatore e ribaditi dalla corte costituzionale. Ne' si dica che fra i due istituti in esame (affidamento e liberazione condizionale) il primo e' piu' rilevante ai fini della difesa sociale, perche' e' vero esattamente il contrario, essendo noto che la liberazione condizionale viene riservata di norma proprio a pene alte, tipiche di delitti molto gravi ed allarmati, mentre l'affidamento finisce per essere una misura che si attaglia esclusivamente a pene brevi e medio brevi (sia pure depurata dal condono) collegate a reati di minimo o modesto allarme sociale. Ne' si dica ancora che la liberta' vigilata con cui viene sostituita la parte finale della pena detentiva nella liberazione condizionale e' strumento piu', rigoroso di controllo; e' vero esattamente il contrario. Cio' risulta dalla stessa analisi compiuta dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 282/1989 per la liberazione condizionale ed in quelle nn. 343/1987, 185/1985 e 312/1985 per l'affidamento in prova cui si rimanda. E del resto basti pensare che gli affidati (che pur hanno commesso reati meno gravi) subiscono un doppio controllo, ad opera dei centri di servizio sociale e della P.S. (o dei c.c.) e, in piu', fruiscono di quella preziosa azione di sostegno e di aiuto di cui il soggetto ha spesso estremo bisogno e che e' di importanza fondamentale, azione che per i liberi vigilati e' soltanto eventuale (art. 47, nono e decimo comma, 72, quarto comma, 81, secondo comma, dell'ord. penit.). Tutto cio' deve essere oggetto di attenta valutazione e riflessione, prima di considerare l'affidamento una pura e semplice rimessione in liberta' di un condannato, prima di "liquidare" un istituto, quello in esame, quale fosse una noiosa spina nel fianco del robusto e sempre florido corpus, costituito dalla pena detentiva, vista nella sua unica, tradizionale funzione retributivo-repressiva. Le sezioni unite hanno anche giustificato la decisione raffrontando le misure della semiliberta' e della detenzione domiciliare con l'affidamento che, essendo misura "meno afflittiva" e con minori possibilita' di controllo del condannato rispetto alle altre: 1) obbliga a dare un preciso e restrittivo significato al termine "inflitta"; 2) consente di stabilire che il legislatore ha creato una graduazione fra le misure. La tesi pur autorevole non puo' essere condivisa, perche' sotto il primo profilo urta contro le precise affermazioni della Corte costituzionale contenute nella sentenza n. 343/1987 ed in quelle precedenti ivi richiamate. Sotto il secondo, la Corte costituzionale ha piu' volte ribadito la tesi della polifunzionalita' e della pluridimensione della pena, ma mai ha determinato una gerarchia "tra le finalita' costituzionalmente assegnate alla reazione penale" per il semplice fatto che tale gerarchia, di fatto affermata nelle sentenze delle sezioni unite, non esiste. Di volta in volta deve essere individuata quale finalita', nelle tre fasi fondamentali, deve essere privilegiata. Le fasi sono identificate dalla Corte, nella sentenza n. 382/1989, in quelle della: incriminazione astratta; commisurazione della pena; esecuzione della pena. Ai fini della presente indagine, occorre dare un preciso contenuto al concetto di "pena inflitta" che attiene o al momento finale del procedimento di cognizione, od al momento, successivo nel tempo, del processo di esecuzione e di sorveglianza ("pena da espiare in concreto"). Nel conflitto, non puo' che prevalere la seconda esigenza, quella della tutela ad oltranza della finalita' educativa, come la Corte costituzionale ha ormai solennemente e giustamente affermato. Pertanto la quantita' di pena fissata dal giudice al momento della conclusione del giudizio di merito, ai sensi dell'art. 133 del c.p. non puo' essere superato "per eccesso", il che accade se non si tiene conto della parte di pena condonata. Puo' essere superato "per difetto" a favore del condannato attraverso riduzioni o trasformazioni successive, legate o alla volonta' del legislatore stesso, che autorizza il presidente ad estinguere in tutto od in parte le pene (ed anche qui precisando nella legge di delega quali siano i requisiti oggettivi e soggettivi dell'atto di clemenza, che finisca cosi' con legarsi, almeno in parte, anche alla natura e gravita' del reato ed alle qualita' del condannato), dall'altro al comportamento tenuto dal condannato stesso dopo la sentenza, nella fase della esecuzione, al tipo di risposta positiva fornita dal condannato, che dimostri avere la pena nel caso concreto raggiunto il suo fine educativo, vale a dire il suo scopo. Sotto tale punto di vista, occorre dare il necessario spazio e peso a quegli avvenimenti e comportamenti, successivi ed eventuali, che il giudice suddetto non poteva ne' doveva prevedere, finalmente valorizzando e giurisdizionalizzando la fase esecutiva, tradizionalmente invece mai considerata come avente almeno pari dignita' con le fasi precedenti, e sempre relegata in un ruolo marginale, eventuale, amministrativo. Il collegio non vuole certo porre in discussione il potere, attribuito al giudice, della cognizione, di fissare la pena, alla luce dell'art. 133 del c.p. Tale potere deve essere non solo conservato, ma potenziato soprattutto per quanto attiene ai criteri attinenti alla "capacita' a delinquere" del reo (art. 133, secondo comma) che deve essere desunta anche dalla condotta "susseguente" al reato e dalle "condizioni di vita" del reo. Di norma il giudice della cognizione conosce molto bene il fatto, molto meno bene l'imputato. Anzi tanto piu' rapido sara' il processo (come e' nei voti di tutti), tanto minori le possibilita' di indagine in ordine alla condotta susseguente ed alle condizioni di vita di cui sopra si e' detto. Tanto piu' che, dopo accanite dispute, anche il nuovo codice di rito penale ha finito per vietare la perizia criminologica e sociologica, consentendo soltanto quella psichiatrica, volta ad accertare la presenza della capacita' di intendere e di volere. Si e' persa senza dubbio un'occasione storica, quella di optare per un processo bifasico, il solo che puo' scindere, anche nel tempo, il giudizio sull' an da quello sul quantum, il solo che consente di dare piena ed effettiva attuazione dei principi sanciti dall'art. 133 del c.p. primo e secondo comma. Ma anche il nuovo codice consente, in sede di esecuzione e di sorveglianza, tutte quelle indagini che invece sono vietate nelle fasi precedenti. Si e' optato, quindi, per una soluzione transitoria, di chiaro compromesso tra esigenze soltanto apparentemente confliggenti. Ma se tutto cio' e' vero (e la magistratura di sorvaglianza ha i titoli maggiori e le conoscenze per affermarlo), il problema della quantita' di pena inflitta con la sentenza di condanna non e' e non puo' piu' essere un dato rigidamente fissato ed assolutamente immutabile ed immodificabile, savo calcellare tutta la storia degli ultimi anni e tutte le riforme che sono state attuate alla luce dei principi fissati dalla Costituzione. L'art. 133 del c.p. viene applicato in un certo momento storico, quello della sentenza di condanna ed a tale momento e' riferito il giudizio del Giudice, che certamente non puo' ne' deve tener conto di tutta una serie di fatti ed avvenimenti successivi, futuri ed eventuali, che si verificano in un lasso temporale che tanto e' piu' lungo, quanto piu' lunghi sono la durata del giudizio e la entita' della pena inflitta. Il caso in esame e' emblematico: il reato e' stato commesso nel 1977; la sentenza di condanna e' del 1985; l'esecuzione e' del 1989. E si deve notare che molti dei fatti ed avvenimenti suddetti non dipendono assolutamente da scelte del condannato, come per esempio avviene nel caso di un provvedimento di clemenza. Gli elementi che il giudice del merito ha giudicato "decisivi" per fissare la quantita' della pena, sono riferiti alcuni al momento della commissione del reato ed altri a quello della emissione della sentenza. Il grado di capacita' a delinquere del condannato, puo' e deve essere cosi' riferita a due momenti spesso lontani tra di loro nel tempo. E tutti gli elementi e criteri di cui all'art. 133 del c.p., devono certamente essere vagliati nel loro complesso ma, se risultano nella sentenza anche elementi riferiti alla condotta susseguente al reato, in quanto possiedono una rilevanza manifesta, considerata indipendentemente da quella degli altri, la motivazione della sentenza e' mancante di motivazione e, come tale, censurabile anche nel giudizio di Cassazione. E' anche necessaria un'altra osservazione critica nei confronti dell'assunto delle sezioni unite che giustificano la radicale e restrittiva svolta interpretativa dell'art. 47, primo comma dell'ord. penit. appellandosi alla ratio legislativa emergente della legge 10 ottobre 1986, n. 663. Ad avviso del collegio la lettura del testo della legge e degli atti parlamentari, non autorizza una lettura del tipo suddetto ne' dal punto di vista letterale ne' da quello storico e sistematico, anche se parte della dottrina lo ha recentemente sostenuto. Con la legge n. 663/1986 la volonta' del legislatore e' stata espressa in modo chiaro, tale da non consentire equivoci. Innanzi tutto con la novella del 1986, il Legislatore non ha assolutamente modificato le parole "pena inflitta" di cui al primo comma dell'art. 47 ed avrebbe potuto farlo, nel caso lo avesse ritenuto necessario. Il che' non era a quella data, essendo allora del tutto pacifico, per giurisprudenza costante, anche della Cassazione, che la pena inflitta doveva essere depurata dalla parte condonata, circostanza questa ben nota al legislatore che, invece, in tale situazione ha ampliato le possibilita' di ricorso all'affidamento, riducendo ad un mese l'osservazione, elevando la pena a tre anni (da trenta mesi), escludendo che la coesistenza con la pena di una misura di sicurezza detentiva forse ostativa, consentendo addirittura affidamenti senza ulteriori carcerazioni (nei casi di cui al terzo e sesto comma, dell'art. 47 suddetto). Appare arbitraria, pertanto, la pretesa di invocare ora un maggior rigore interpretativo, perche' sarebbe inopportuno sul piano criminologico un ulteriore sbilanciamento a favore della prevenzione speciale. In altri termini, la giurisprudenza in tema dell'art. 47, primo comma, avrebbe avuto la sola funzione di dilatare artificialmente l'ambito operativo della misura dell'affidamento, oltre i limiti della pena irrogata in sentenza. La tesi suddetta e' del tutto gratuita, perche' mai il legislatore si e' posto il problema, che', anzi, ha voluto aumentare, proprio i casi in cui l'affidamento era consentito, affermando che la natura del delitto commesso e' in un certo modo irrilevante ai fini delle modalita' di esecuzione della pena e la preminenza del finalismo rieducativo. Diversamente opinando, la novellazione del 1986 si risolverebbe in una semplice operazione aritmetica a danno dei condannati, priva di quelle conseguenze concrete che invece il legislatore ha voluto espressamente intendendo portare avanti il discorso dell'alternativita' al carcere. Sarebbe come dire che la riforma del 1986 non deve servire a nulla, perche' cio' che e' stato concesso da una parte, viene tolto dall'altra. Non e' privo di significato che proprio la dottrina suddetta abbia semplicemente criticato la sentenza n. 343/1987 della Corte costituzionale, parlando di tramonti della funzione rieducativa dell'affidamento, di drammatizzazione ed enfatizzazione della carica afflittiva delle prescrizioni, di un impiego dell'affidamento quale strumento di controllo di forme di criminalita' per la quale la risposta carceraria risulta esorbitante, ritenendo il tribunale di sorveglianza inopportuna la segregazione carceraria. La relazione Gallo alla legge n. 663/1986 (IX Leg. Senato Disegni di legge 23 e 423/A) afferma che obiettivo qualificante della novella "e' costituito dal naturale ampliamento dell'ambito di operativita' delle misure alternative alla detenzione" nella prospettiva duplice di "un sempre piu' razionale trattamento individuale" e del "contenimento della popolazione carceraria". Cio' si e' inteso ottenere eliminando alcuni dei piu' discussi limiti di fruibilita', rendendo possibile la applicazione anche prima dell'inizio della espiazione; ampliando la stessa tipologia delle misure alternative. Quando all'affidamento, la relazione sottolinea che si e' ottenuta "l'estensione dell'ambito di applicazione" attraverso l'innalzamento a tre anni "del limite di pena espiabile" per tutti i condannati. Dove si vede che l'intento legis, al di la del termine "inflitta" era quello di far riferimento alla pena "espiabile" in concreto. Durante la discussione al Senato, il 4 e 5 giugno 1986, il sen. Gozzini dal suo canto sottolineo' che la "sentenza e' qualcosa di statico" mentre l'esecuzione puo' e deve essere qualcosa di dinamico, essere cioe' aperta alla mitigazione qualitativa e quantitativa della reclusione. L'affidamento e' esteso "fino a tre anni"; queste sono le parole usate dal proponente del disegno di legge, che evita ancora di usare il termine "inflitta" proponendo invece fare riferimento alla pena in concreto da espiare. Il sen. Vassalli sottolineo' a sua volta che uno dei cardini della riforma era costituito dalla "elevazione del tetto di pena dei condannati per reati meno gravi, per i quali si prevede che l'affidamento passi dai due anni e sei mesi attuali ai tre anni". Anche qui non viene usato il termine che appare nell'art. 47, primo comma. Comunque tutti i senatori intervenuti si sono dimostrati concordi nel ritenere che il limite di pena fosse fissato in relazione alla pena da espiare in concreto ed erano perfettamente al corrente della costante giurisprudenza che escludeva dal computo la parte di pena condonata. La potesta' di clemenza sovrana ha sempre funto da suprema moderatrice della forza della legge e del giudicato, in forza di opportunita' politica e di equita'. La potesta' di clemenza, dunque, e' un coefficiente di riduzione o di correzione delle inevitabili incongruenze della norma penale, sempre frutto di un processo di astrazione. Il bisogno sociale della pena, infatti, puo' risultare neutralizzato e soverchiato da una piu' eminente ragione sopravvenuta o di utilita' generale o di equita' o di umanita'. Effetto dell'indulto, poi, e' quello di "condonare" tutta a parte della pena, che e' cosi' estinta e quindi non puo' essere eseguita. Ma non basta: per ormai consolidata giurisprudenza l'indulto puo' essere a richiesta applicato anche a pene non piu' eseguibili, purche' chi avanza la domanda abbia un interesse concreto ad ottenere la declaratoria relativa. Conseguentemente, l'intervento clemenziale finisce, anche sotto tale angolo visuale, per "correggere" formalmente o sostanzialmente la quantita' della pena "inflitta" dal giudice e per interferire, spesso pesantemente sul giudizio emesso ai sensi dell'art. 133 del c.p. al momento della condanna. L'indulto, in altri termini, si atteggia come un intervento legislativo, di carattere generale, incidente sul giudizio emesso, nel caso particolare dal magistrato ai sensi dell'art. 133 del c.p. Dal suo canto la Corte costituzionale (fin dalla sentenza n. 110 dell'11 dicembre 1962) ha affermato che il decreto presidenziale e' atto avente forza di legge, perche' emanato in forza di una legge del Parlamento che delega il potere al Presidente della Repubblica. E tale atto normativo e' destinato ad operare nel campo dei delitti e delle pene che la Costituzione riserva alla legge. La pena coperta dal condono non puo', pertanto, essere produttiva di effetti a danno del condannato per espressa volonta' del Legislatore che, con la propria decisione, incide sullo stesso potere di quantificazione della pena, di norma riservata al giudice dall'art. 133 del c.p. Le suesposte considerazioni ad avviso del collegio, dimostrano che la tesi sostenuta dalle sezioni unite, confligge oltre che con gli art. 3 e 27 della Costituzione anche con il potere riconosciuto dall'art. 79 della Costituzione al Parlamento ed al Presidente della Repubblica, essendo in sostanza posto nel nulla (almeno ai fini della concessione delle misure alternative), il potere suddetto. Confligge anche con l'art. 13 della Costituzione perche' finisce per togliere la liberta' personale al cittadino-condannato, in forza di una parte di pena estinta per espressa volonta' del legislatore e quindi ormai improduttiva di qualsiasi rilevanza sul piano della esecuzione penale.