IL TRIBUNALE DI SORVEGLIANZA
    Ha   pronunciato   la   seguente  ordinanza  nel  procedimento  di
 sorveglianza,  proposto  su  domanda  di  Comincini  Emilio,  nato  a
 Vicenza, il 12 gennaio 1952, residente a Milano, in via Plinio n. 10,
 presso A. Zampieri, detenuto nella casa di  Bergamo,  condannato  con
 sentenza  in data 7 ottobre 1985 emessa dalla corte assise appello di
 Milano alla pena della reclusione per anni cinque,  pena  da  espiare
 anni  due,  come  da  ordine  di  carcerazione n. 953/86 emesso dalla
 procura generale di Milano il 17 aprile 1987 ed avente  per  oggetto:
 affidamento  in prova al servizio sociale (art. 47 dell'ord. penit.).
                               F A T T O
    Comincini Emilio e' stato condannato in contumacia per concorso in
 incendio doloso continuato con  la  sentenza  in  epigrafe  indicata,
 reato  commesso  fino  al  1º  febbraio  1977 per fini di eversione e
 terrorismo.
    Ha  ottenuto condono per anni due con la sentenza di secondo grado
 ed anni uno con ordinanza 11 febbraio 1987 della Corte  d'appello  di
 Milano, in totale tre anni per cui restano da espiare due anni.
    Il  Comincini,  che  ha  dimorato a lungo in Francia, saputo della
 emissione dell'ordine di carcerazione, e' tornato volontariamente  in
 Italia  e  si  e'  costituito presso la Casa di Bergamo il 13 gennaio
 1989.
    Presso  detta  casa  e'  stato  sottoposto,  con  esito  del tutto
 positivo, alla osservazione della pericolosita': ha  una  famiglia  a
 Milano,  un  lavoro che lo attende; ha ottenuto permessi premiali; ha
 sempre tenuto una condotta ineccepibile. Non ha pendenze penali,  ne'
 altre   precedenti   condanne,   come  risulta  in  modo  chiaro  dal
 certificato penale e dalle informazioni della P.S.
    Il  Comincini  e'  stato  anche  accusato di due reati associativi
 commessi per scopo di  eversione,  nella  seconda  meta'  degli  anni
 settanta,  ma  e' stato assolto, pur grazie ad un errore commesso dai
 giudici di prime cure (capo d'imputazione n. 377), senza che  vi  sia
 stata  impugnazione  del  pubblico  ministero. Per quanto riguarda la
 partecipazione alla banda "Rosso". E' stato assolto con ampia formula
 della  corte  d'assise  di  appello  per la partecipazione alla banda
 "F.C.C."  (Fronte  comunista  combattente)  (si  veda  il   capo   di
 imputazione n. 2).
    In  ordine  al  reato  di  cui  ai  capi  n. 530 e 417 la corte ha
 dichiarato n.d.p. a seguito di interventuta prescrizione. I due reati
 di  incendio  doloso  per  i  quali  vi e' stata condanna, riguardano
 l'incendio della autovettura dell'ing. Gabrielli  e  l'incendio  alla
 Face Standard.
    Il  Comincini  ha  presentato fin dal 22 dicembre 1988, tramite il
 proprio difensore,  domanda  di  affidamento  in  prova  al  servizio
 sociale,  affermandosi  disposto a costituirsi ed a essere sottoposto
 al periodo prescritto di  osservazione  inframurale,  il  che  si  e'
 verificato,  avendo  la  casa  di  Bergamo  trasmesso al programma di
 trattamento, approvato da questo magistrato il 15 aprile 1989.
    Successivamente    il   difensore   ha   presentato   domanda   di
 semiliberta', ai  sensi  dell'art.  50,  secondo  comma,  dell'ordine
 penitenziario.
                             D I R I T T O
    Al  tempo  in  cui  la domanda di affidamento e' stata presentata,
 questo  tribunale  di  sorveglianza,  come  del  resto  molti  altri,
 adeguava la propria giurisprudenza in materia al principio secondo il
 quale l'affidamento poteva essere  concesso  ai  condannati  che  pur
 avendo  riportato  una  condanna  superiore  a  tre anni, dovevano in
 concreto espiare una pena non  superiore  a  tale  limite.  In  altri
 termini  per pena "inflitta" si intendeva la pena fissata dal giudice
 ma  depurata  da  quella  parte  estinta  per  condono  od   amnistia
 impropria.   Si   deve  rilevare  che,  a  causa  dei  numerosissimi,
 ricorrenti  nel   tempo,   provvedimenti   clemenziali   decisi   dal
 legislatore, sono altrettanto numerosi i casi di condannati che hanno
 ottenuto  e  con   successo   l'affidamento   in   prova   in   forza
 dell'indirizzo  giurisprudenziale  suddetto che, del resto, era stato
 avallato per anni dalla Corte di cassazione.
    Nel caso in esame, poi, la stessa sentenza di condanna (in sede di
 appello), di fatto ha inflitto al Comencini  la  pena  di  tre  anni,
 perche'  nello  stesso  dispositivo  sono stati applicati due anni di
 condono.
    E'  anche vero che la giurisprudenza della suprema Corte e' sempre
 stata decisamente favorevole alla interpretazione fatta propria anche
 da questo tribunale, a partire dal 1977 e fino al 1988.
    Nel  corso  di  tale  anno, nell'ambito della stessa prima sezione
 della  corte  si  sono  registrate  per  la  prima  volta   decisioni
 contrarie,  che  hanno  determinato  l'intervento delle sezioni unite
 (sentenza n. 6 del 26 aprile 1989, presidente Zucconi Galli  Fonseca,
 relatore Molinari, ricorrente al p.g. di Palermo avverso in ordinanza
 concessione di affidamento a Russo Emanuele, che era stato condannato
 per  bancarotta  a tre anni ed un mese di reclusione, di cui due anni
 condonati). La suddetta sentenza  (che  e'  stata  resa  su  difformi
 conclusioni  del  procuratore  generale)  costituisce  un avvenimento
 troppo grave, importante ed  in  certo  senso  inatteso,  per  essere
 passivamente  recepito  in  un  sistema  ormai da quasi quindici anni
 orientato in senso nettamente diverso.
    Cio'  anche  per  le  conseguenze  sostanziali che comportera' sul
 piano della gestione del penienziario: le domande di affidamento  che
 non  potranno  piu'  essere  accolte non saranno certamente poche. Da
 cio' un sensibile aumento della popolazione detenuta,  di  fronte  ad
 una  capienza  degli istituti gia' quasi al limite delle possibilita'
 (alla data del 5 maggio 1989 di fronte ad una capienza  totale  degli
 istituti di n. 38960 posti, erano gia' presenti n. 36834 soggetti).
    Tuttocio',  ovviamente,  prescindendo  dal  negativo impatto della
 decisione sulla popolazione dei condannati, sulla stessa magistratura
 giudicante  penale, chiamate ad amministrare anche la quantita' della
 pena ai sensi dell'art. 133 del c.p., sullo  stesso  Legislatore  che
 viene  cosi'  posto in seria difficolta', dibattuto tra l'incudine di
 un ordinamento penitenziario di tipo liberale, ispirato fortemente al
 principio  della  pena  risocializzante  dettato  dall'art.  27 della
 Costituzione ed il martello di  un  sistema  giudiziario  penale  che
 continua  a non funzionare, che colleziona ritardi sempre piu' gravi,
 che pone gli uffici in situazioni di acutissima crisi operativa e che
 richiede    continui    interventi   normalizzatori   costituiti   da
 provvedimenti clemenziali di cui nessuno  parla  bene  ma  che  tutti
 attendono   e  che  costituiscano  ormai  l'unico  mezzo  per  tenere
 l'amministrazione della giustizia  penale  in  linea  di  accettabile
 galleggiamento.
    Secondo   il   procuratore  generale  della  Cassazione  (discorso
 inaugurale per  l'anno  1989)  alla  fine  del  1º  semestre  1988  i
 procedimenti penali pendenti in primo grado erano ben 2.518.070.
    Non  vi  e'  dubbio che le sezioni unite avranno considerato tutto
 cio' (anche se  dalla  motivazione  non  traspare).  Cosi'  come  non
 avranno  dimenticato che il 24 ottobre 1989 deve entrare in vigore il
 nuovo codice di procedura penale, il che - almeno nei primi  tempi  -
 creera'   altri   gravi   problemi  operativi  al  sistema,  nascenti
 soprattutto dalla coesistenza di  una  pendenza  penale  imponente  e
 della  necessita'  di  consentire  il  varo  del  nuovo  processo  in
 condizioni accettabili.
    Per questo non e' piu' un segreto per nessuno, che uno dei sistemi
 per risolvere il conflitto di  cui  sopra  sara'  ancora  l'ennesimo,
 radicale  provvedimento  clemenziale  che  azzeri o quasi la pendenza
 suddetta.
    Ma,  allora,  se  tutto  cio' deve avere un senso compiuto, questo
 tribunale non puo' che  porre  il  problema  della  costituzionalita'
 della  nuova  interpretazione  del  termine  "pena  inflitta"  di cui
 all'art. 47,  primo  comma,  dell'ord.  penit.  investendo  la  Corte
 costituzionale,  che  si  e' sempre fatta carico dei problemi reali e
 complessivi del Paese, superando le questioni formali e di dettaglio.
    Il tribunale ritiene che l'interpretazione letterale fornita dalla
 Cassazione  sia  difficilmente  criticabile,  se  ci  si   ferma   al
 significato  dell'aggettivo  "inflitta"  dell'art.  47,  primo comma,
 dell'ord. penit. e  per  questo  ritiene  pregiudiziale  l'intervento
 della  Corte, la sola che potra' dire se il sistema, complessivamente
 considerato,  sia  a  questo  punto   in   linea   con   i   principi
 costituzionali.
    Le  sezioni unite quanto al problema specifico dell'indulto, hanno
 affermato  che  la  causa  estintiva,   "influendo   soltanto   sulla
 determinazione  della pena in concreto da eseguire", non incide sulla
 pena inflitta, che e' quella "erogata con la sentenza o  le  sentenze
 di condanna".
    La  Cassazione  ha  ribadito  anche  che,  qualora  le  pene siano
 "inflitte" con piu' sentenze di condanna,  la  pena  da  considerarsi
 anche  alla fine della concessione dell'affidamento e' "la pena unica
 prederminata per legge" (art. 76 e 78 del c.p., 589 del  c.p.p.).  Su
 tale  punto  questo  collegio  si  limita  a  richiamare  la  propria
 ordinanza n. 1176/88 dell'8 novembre 1989 (in causa Fassi Marco)  con
 cui    ha   gia'   dichiarato   non   infondata   la   questione   di
 costituzionalita' che risulta tuttora essere all'esame  della  Corte.
 Il  caso  presente riguarda pero' una unica sentenza, per unico reato
 (continuato), che ha  comportato  un  condono  complessivo  superiore
 addirittura alla pena residua da espiare.
    I  capisaldi  della  motivazione  della  suddetta  decisione della
 cassazione possono essere cosi' riassunti:
       a)  il legislatore nell'art. 47 ha voluto ribadire un parametro
 preciso, quello della entita' della pena, ancorato all'art.  133  del
 c.p. ed in particolare alla "gravita' del fatto reato, la capacita' a
 delinquere del colpevole", "elementi decisivi" al fine  di  stabilire
 il grado di pericolosita' sociale del condannato;
       b) avendo il legislatore nel 1986, tolto ogni altro sbarramento
 all'affidamento derivante dal titolo del reato e ridotto  il  periodo
 di  osservazione da tre mesi ad un mese, il limite legale deve essere
 "determinato con un criterio piu' rigido";
       c)  la  corte,  infine,  non poteva non affrontare il problema,
 invero spinosissmo dei rapporti esistenti tra l'affidamento (art.  47
 dell'ord. penit.) e la deliberazione condizionale (art. 176 del c.p.)
 ed e' proprio qui, come si dira' appresso,  che  appare  la  assoluta
 fragilita' ed inaccettabilita' delle argomentazioni.
    Quanto al problema dei rapporti tra l'affidamento e la liberazione
 condizionale la sentenza delle sezioni unite ha creato, un  contrasto
 insanabile  all'interno  della  stessa  Cassazione,  avendo sempre la
 Corte affermato che, al fine di  stabilire  se  il  condannato  abbia
 superato la meta' della pena ed il residuo non sia inferiore a cinque
 anni, non si deve tener conto della pena estinta per  condono  o  per
 amnistia impropria.
    Le   sezioni   Unite   sono  intervenute  in  modo  eccessivamente
 tempestivo, e non hanno potuto leggere la sentenza n. 282 della Corte
 costituzionale del 17-25 maggio 1989 (Gazzetta Ufficiale n. 22 del 31
 maggio 1989) che ha richiamato  quella  n.   343/1987,  della  stessa
 Corte, in tema di conseguenze della revoca dell'affidamento.
    L'analisi  della  sentenza  suddetta  dimostra  che ormai la Corte
 afferma:
      1)  che  si  deve prescindere dalla disputa, intorno alla natura
 giuridica degli istituti;
      2) che, essendo ormai presente, oltre alla pena detentiva, tutta
 una serie di altre misure rieducative, la "nozione di  esecuzione  va
 estesa  fino a comprendere le modalita' esecutive di tutte le misure,
 anche solo limitative della liberta' personale";
      3) che non e' piu' lecito dissertare sulla diversita' fra i vari
 istituti ne e' piu'  possibile,  da  tale  asserita  diversita',  far
 derivare  al  condannato  conseguenze diverse, a seconda della misura
 richiesta, salvo violare gli art. 3 e 27 della Costituzione.
    Sotto  tale  profilo,  quindi  nessun rilievo ha piu' il fatto che
 l'affidamento sia istituito previsto dall'ordinamento penitenziario e
 la  liberazione condizionale dal codice penale, ampiamennte del resto
 visitato sul punto.
    Il perche' e' chiarito dalla Corte.
    La  finalita'  rieducativa  prevale su ogni altra finalita' (salvo
 quella retributiva) nell'ipotesi  che  l'esame  del  soggetto  ed  il
 conseguente  giudizio  prognostico sul suo futuro, impongano, durante
 l'esecuzione, di sospendere o ridurre l'esecuzione stessa.
    Le  misure  alternative,  tutte,  sono "il punto di emergenza" del
 trattamento rieducativo anche secondo il nuovo  codice  di  procedura
 penale.
    Pertanto,  ad avviso del tribunale, se la pena estinta non e' piu'
 da eseguire, essendovi stata formale rinuncia da parte  dello  Stato,
 cio'  deve  valere  non solo per la liberazione condizionale ma anche
 per l'affidamento in prova, salvo voler sostenere che il  condannato,
 pur  ampiamente  ravveduto,  deve  rimanere  in carcere fino ad avere
 scontato la meta' della pena "inflitta" e  non  la  meta'  di  quella
 fissata   dal  legislatore  in  concreto,  con  un  provvedimento  di
 carattere generale, discutibile e discusso finche' si vuole,  ma  non
 eliminabile.
    In altri termini, la parte di pena estinta per condono ad amnistia
 se non rileva ai fini  della  liberazione  condizionale,  non  rileva
 neppure ai fini dell'affidamento.
    E  se  la pena estinta non deve essere espiata in carcere non puo'
 costituire ostacolo alla concessione di misure  alternative,  cui  il
 condannato  (si  noti) ha diritto nel caso concorrano tutti gli altri
 requisiti previsti.
    Diversamente   opinando,   si  arriverebbe  all'assurdo:  la  pena
 estinta, che non puo' piu' essere "espiata" nel  senso  tradizionale,
 dovrebbe  invece  esserlo ancora ai fini delle misure alternative. Il
 che  e'  contro  ogni  principio  di  ragionevolezza  e   costituisce
 gravissima  violazione  dei  diritti  ormai  piu' volte affermati dal
 legislatore e ribaditi dalla corte costituzionale.
    Ne'  si  dica  che  fra  i  due  istituti  in esame (affidamento e
 liberazione condizionale) il primo e' piu' rilevante  ai  fini  della
 difesa  sociale,  perche'  e'  vero esattamente il contrario, essendo
 noto che la liberazione condizionale viene riservata di norma proprio
 a  pene  alte,  tipiche  di  delitti molto gravi ed allarmati, mentre
 l'affidamento  finisce  per  essere  una  misura  che   si   attaglia
 esclusivamente  a  pene  brevi  e  medio brevi (sia pure depurata dal
 condono) collegate a reati di minimo o modesto allarme sociale.
    Ne'  si  dica  ancora  che  la  liberta'  vigilata  con  cui viene
 sostituita la parte finale della  pena  detentiva  nella  liberazione
 condizionale  e'  strumento  piu',  rigoroso  di  controllo;  e' vero
 esattamente il contrario. Cio' risulta dalla stessa analisi  compiuta
 dalla   Corte  costituzionale  nella  sentenza  n.  282/1989  per  la
 liberazione condizionale  ed  in  quelle  nn.  343/1987,  185/1985  e
 312/1985 per l'affidamento in prova cui si rimanda.
    E del resto basti pensare che gli affidati (che pur hanno commesso
 reati meno gravi) subiscono un doppio controllo, ad opera dei  centri
 di  servizio  sociale e della P.S. (o dei c.c.) e, in piu', fruiscono
 di quella preziosa azione di sostegno e di aiuto di cui  il  soggetto
 ha spesso estremo bisogno e che e' di importanza fondamentale, azione
 che per i liberi vigilati e' soltanto  eventuale  (art.  47,  nono  e
 decimo comma, 72, quarto comma, 81, secondo comma, dell'ord. penit.).
 Tutto cio' deve essere oggetto di attenta valutazione e  riflessione,
 prima  di considerare l'affidamento una pura e semplice rimessione in
 liberta' di un condannato, prima di "liquidare" un  istituto,  quello
 in  esame,  quale  fosse  una  noiosa  spina nel fianco del robusto e
 sempre florido corpus, costituito dalla pena detentiva,  vista  nella
 sua unica, tradizionale funzione retributivo-repressiva.
    Le   sezioni   unite   hanno   anche   giustificato  la  decisione
 raffrontando  le  misure  della  semiliberta'  e   della   detenzione
 domiciliare con l'affidamento che, essendo misura "meno afflittiva" e
 con minori possibilita' di controllo  del  condannato  rispetto  alle
 altre:
      1)  obbliga  a  dare  un  preciso  e  restrittivo significato al
 termine "inflitta";
      2)  consente  di  stabilire  che  il  legislatore  ha creato una
 graduazione fra le misure.
    La tesi pur autorevole non puo' essere condivisa, perche' sotto il
 primo  profilo  urta  contro  le  precise  affermazioni  della  Corte
 costituzionale  contenute  nella  sentenza  n.  343/1987 ed in quelle
 precedenti ivi richiamate.
    Sotto  il  secondo, la Corte costituzionale ha piu' volte ribadito
 la tesi della polifunzionalita' e della pluridimensione  della  pena,
 ma   mai   ha   determinato   una   gerarchia   "tra   le   finalita'
 costituzionalmente assegnate alla reazione penale"  per  il  semplice
 fatto  che  tale  gerarchia,  di fatto affermata nelle sentenze delle
 sezioni unite, non esiste.
    Di  volta  in volta deve essere individuata quale finalita', nelle
 tre fasi fondamentali, deve essere privilegiata.
    Le fasi sono identificate dalla Corte, nella sentenza n. 382/1989,
 in quelle della:
      incriminazione astratta;
      commisurazione della pena;
      esecuzione della pena.
    Ai fini della presente indagine, occorre dare un preciso contenuto
 al concetto di "pena inflitta" che attiene o al  momento  finale  del
 procedimento  di cognizione, od al momento, successivo nel tempo, del
 processo di  esecuzione  e  di  sorveglianza  ("pena  da  espiare  in
 concreto").
    Nel  conflitto, non puo' che prevalere la seconda esigenza, quella
 della tutela ad oltranza della finalita'  educativa,  come  la  Corte
 costituzionale   ha   ormai  solennemente  e  giustamente  affermato.
 Pertanto la quantita' di pena fissata dal giudice  al  momento  della
 conclusione  del  giudizio di merito, ai sensi dell'art. 133 del c.p.
 non puo' essere superato "per eccesso", il che accade se non si tiene
 conto  della  parte  di  pena  condonata.  Puo'  essere superato "per
 difetto"   a   favore   del   condannato   attraverso   riduzioni   o
 trasformazioni  successive,  legate  o  alla volonta' del legislatore
 stesso, che autorizza il presidente ad  estinguere  in  tutto  od  in
 parte  le  pene  (ed anche qui precisando nella legge di delega quali
 siano i requisiti oggettivi e soggettivi dell'atto di  clemenza,  che
 finisca  cosi'  con  legarsi,  almeno  in  parte, anche alla natura e
 gravita' del reato ed alle qualita' del  condannato),  dall'altro  al
 comportamento  tenuto  dal  condannato stesso dopo la sentenza, nella
 fase della esecuzione, al  tipo  di  risposta  positiva  fornita  dal
 condannato, che dimostri avere la pena nel caso concreto raggiunto il
 suo fine educativo, vale a dire il suo scopo.
    Sotto  tale  punto  di  vista, occorre dare il necessario spazio e
 peso a quegli avvenimenti e comportamenti, successivi  ed  eventuali,
 che  il  giudice suddetto non poteva ne' doveva prevedere, finalmente
 valorizzando   e    giurisdizionalizzando    la    fase    esecutiva,
 tradizionalmente  invece  mai  considerata  come  avente  almeno pari
 dignita' con le fasi  precedenti,  e  sempre  relegata  in  un  ruolo
 marginale, eventuale, amministrativo.
    Il  collegio  non  vuole  certo  porre  in  discussione il potere,
 attribuito al giudice, della cognizione, di  fissare  la  pena,  alla
 luce dell'art. 133 del c.p.
    Tale  potere  deve  essere  non  solo  conservato,  ma  potenziato
 soprattutto per quanto attiene ai criteri attinenti alla "capacita' a
 delinquere" del reo (art. 133, secondo comma) che deve essere desunta
 anche dalla condotta "susseguente" al reato e  dalle  "condizioni  di
 vita" del reo.
    Di  norma il giudice della cognizione conosce molto bene il fatto,
 molto meno bene l'imputato.
    Anzi  tanto  piu'  rapido  sara'  il processo (come e' nei voti di
 tutti), tanto minori le  possibilita'  di  indagine  in  ordine  alla
 condotta  susseguente  ed  alle condizioni di vita di cui sopra si e'
 detto.
    Tanto  piu'  che,  dopo accanite dispute, anche il nuovo codice di
 rito  penale  ha  finito  per  vietare  la  perizia  criminologica  e
 sociologica,  consentendo  soltanto  quella  psichiatrica,  volta  ad
 accertare la presenza della capacita' di intendere e di volere.
    Si  e'  persa  senza dubbio un'occasione storica, quella di optare
 per un processo bifasico, il solo che puo' scindere, anche nel tempo,
 il  giudizio  sull' an da quello sul quantum, il solo che consente di
 dare piena ed effettiva attuazione dei principi sanciti dall'art. 133
 del c.p. primo e secondo comma.
    Ma  anche  il  nuovo  codice  consente, in sede di esecuzione e di
 sorveglianza, tutte quelle indagini che  invece  sono  vietate  nelle
 fasi precedenti.
    Si  e'  optato,  quindi,  per una soluzione transitoria, di chiaro
 compromesso tra esigenze soltanto apparentemente confliggenti.
    Ma  se  tutto cio' e' vero (e la magistratura di sorvaglianza ha i
 titoli maggiori e le conoscenze per affermarlo),  il  problema  della
 quantita'  di  pena inflitta con la sentenza di condanna non e' e non
 puo'  piu'  essere  un  dato  rigidamente  fissato  ed  assolutamente
 immutabile  ed  immodificabile, savo calcellare tutta la storia degli
 ultimi anni e tutte le riforme che sono state attuate alla  luce  dei
 principi fissati dalla Costituzione.
    L'art.  133  del c.p. viene applicato in un certo momento storico,
 quello della sentenza di condanna ed a tale momento  e'  riferito  il
 giudizio del Giudice, che certamente non puo' ne' deve tener conto di
 tutta una  serie  di  fatti  ed  avvenimenti  successivi,  futuri  ed
 eventuali,  che si verificano in un lasso temporale che tanto e' piu'
 lungo, quanto piu' lunghi sono la durata del giudizio  e  la  entita'
 della  pena  inflitta.  Il  caso in esame e' emblematico: il reato e'
 stato commesso nel  1977;  la  sentenza  di  condanna  e'  del  1985;
 l'esecuzione e' del 1989.
    E  si  deve notare che molti dei fatti ed avvenimenti suddetti non
 dipendono assolutamente da scelte del condannato,  come  per  esempio
 avviene nel caso di un provvedimento di clemenza.
    Gli elementi che il giudice del merito ha giudicato "decisivi" per
 fissare la quantita' della pena,  sono  riferiti  alcuni  al  momento
 della  commissione  del reato ed altri a quello della emissione della
 sentenza. Il grado di capacita' a delinquere del condannato,  puo'  e
 deve  essere  cosi' riferita a due momenti spesso lontani tra di loro
 nel tempo.
    E  tutti  gli  elementi  e  criteri  di cui all'art. 133 del c.p.,
 devono certamente essere vagliati nel loro complesso ma, se risultano
 nella  sentenza  anche elementi riferiti alla condotta susseguente al
 reato, in quanto  possiedono  una  rilevanza  manifesta,  considerata
 indipendentemente   da  quella  degli  altri,  la  motivazione  della
 sentenza e' mancante di motivazione e, come tale,  censurabile  anche
 nel giudizio di Cassazione.
   E'  anche  necessaria  un'altra  osservazione critica nei confronti
 dell'assunto delle sezioni  unite  che  giustificano  la  radicale  e
 restrittiva svolta interpretativa dell'art. 47, primo comma dell'ord.
 penit. appellandosi alla ratio legislativa emergente della  legge  10
 ottobre 1986, n. 663.
    Ad  avviso  del  collegio la lettura del testo della legge e degli
 atti parlamentari, non autorizza una lettura del  tipo  suddetto  ne'
 dal  punto  di  vista  letterale ne' da quello storico e sistematico,
 anche se parte della dottrina lo ha recentemente sostenuto.
    Con  la  legge  n.  663/1986  la volonta' del legislatore e' stata
 espressa in modo chiaro, tale da non consentire equivoci.
    Innanzi  tutto  con  la  novella  del  1986, il Legislatore non ha
 assolutamente modificato le parole "pena inflitta" di  cui  al  primo
 comma  dell'art.  47  ed  avrebbe  potuto  farlo,  nel caso lo avesse
 ritenuto necessario.
    Il  che' non era a quella data, essendo allora del tutto pacifico,
 per giurisprudenza costante, anche  della  Cassazione,  che  la  pena
 inflitta  doveva  essere  depurata dalla parte condonata, circostanza
 questa ben nota al legislatore che, invece,  in  tale  situazione  ha
 ampliato  le possibilita' di ricorso all'affidamento, riducendo ad un
 mese l'osservazione, elevando la pena a tre anni  (da  trenta  mesi),
 escludendo  che la coesistenza con la pena di una misura di sicurezza
 detentiva forse ostativa, consentendo addirittura  affidamenti  senza
 ulteriori  carcerazioni  (nei  casi  di  cui  al terzo e sesto comma,
 dell'art. 47 suddetto).
    Appare arbitraria, pertanto, la pretesa di invocare ora un maggior
 rigore  interpretativo,  perche'  sarebbe   inopportuno   sul   piano
 criminologico  un ulteriore sbilanciamento a favore della prevenzione
 speciale. In altri termini, la giurisprudenza in tema  dell'art.  47,
 primo   comma,   avrebbe   avuto   la   sola   funzione  di  dilatare
 artificialmente l'ambito  operativo  della  misura  dell'affidamento,
 oltre i limiti della pena irrogata in sentenza.
    La tesi suddetta e' del tutto gratuita, perche' mai il legislatore
 si e' posto il problema, che', anzi, ha voluto aumentare,  proprio  i
 casi  in  cui  l'affidamento era consentito, affermando che la natura
 del delitto commesso e' in un certo modo irrilevante  ai  fini  delle
 modalita'  di  esecuzione  della  pena  e la preminenza del finalismo
 rieducativo. Diversamente  opinando,  la  novellazione  del  1986  si
 risolverebbe  in  una  semplice  operazione  aritmetica  a  danno dei
 condannati, priva  di  quelle  conseguenze  concrete  che  invece  il
 legislatore  ha  voluto  espressamente  intendendo  portare avanti il
 discorso dell'alternativita' al carcere.
    Sarebbe  come  dire  che  la  riforma  del 1986 non deve servire a
 nulla, perche' cio' che e' stato concesso da una parte,  viene  tolto
 dall'altra.
    Non e' privo di significato che proprio la dottrina suddetta abbia
 semplicemente  criticato  la  sentenza  n.   343/1987   della   Corte
 costituzionale,  parlando  di  tramonti  della  funzione  rieducativa
 dell'affidamento, di drammatizzazione ed enfatizzazione della  carica
 afflittiva  delle  prescrizioni, di un impiego dell'affidamento quale
 strumento di controllo di forme  di  criminalita'  per  la  quale  la
 risposta  carceraria  risulta  esorbitante, ritenendo il tribunale di
 sorveglianza inopportuna la segregazione carceraria.
    La  relazione Gallo alla legge n. 663/1986 (IX Leg. Senato Disegni
 di legge 23 e 423/A) afferma che obiettivo qualificante della novella
 "e'  costituito  dal naturale ampliamento dell'ambito di operativita'
 delle misure alternative alla detenzione" nella  prospettiva  duplice
 di   "un   sempre  piu'  razionale  trattamento  individuale"  e  del
 "contenimento della popolazione carceraria".
    Cio'  si  e'  inteso  ottenere eliminando alcuni dei piu' discussi
 limiti di fruibilita', rendendo possibile la applicazione anche prima
 dell'inizio  della  espiazione;  ampliando  la stessa tipologia delle
 misure alternative.
    Quando all'affidamento, la relazione sottolinea che si e' ottenuta
 "l'estensione dell'ambito di applicazione" attraverso  l'innalzamento
 a  tre  anni  "del  limite di pena espiabile" per tutti i condannati.
 Dove si vede che l'intento legis, al di la del termine "inflitta" era
 quello di far riferimento alla pena "espiabile" in concreto.
    Durante  la  discussione  al Senato, il 4 e 5 giugno 1986, il sen.
 Gozzini dal suo canto sottolineo' che la  "sentenza  e'  qualcosa  di
 statico" mentre l'esecuzione puo' e deve essere qualcosa di dinamico,
 essere cioe' aperta alla mitigazione qualitativa e quantitativa della
 reclusione. L'affidamento e' esteso "fino a tre anni"; queste sono le
 parole usate dal proponente del disegno di legge, che evita ancora di
 usare  il  termine "inflitta" proponendo invece fare riferimento alla
 pena in concreto da espiare.
    Il sen. Vassalli sottolineo' a sua volta che uno dei cardini della
 riforma era costituito  dalla  "elevazione  del  tetto  di  pena  dei
 condannati  per  reati  meno  gravi,  per  i  quali  si  prevede  che
 l'affidamento passi dai due anni e sei mesi attuali ai tre anni".
    Anche  qui  non  viene  usato  il termine che appare nell'art. 47,
 primo comma.
    Comunque  tutti i senatori intervenuti si sono dimostrati concordi
 nel ritenere che il limite di pena fosse fissato  in  relazione  alla
 pena  da espiare in concreto ed erano perfettamente al corrente della
 costante giurisprudenza che escludeva dal computo la  parte  di  pena
 condonata.
    La  potesta'  di  clemenza  sovrana  ha  sempre  funto  da suprema
 moderatrice della forza della legge e  del  giudicato,  in  forza  di
 opportunita' politica e di equita'.
    La potesta' di clemenza, dunque, e' un coefficiente di riduzione o
 di correzione delle  inevitabili  incongruenze  della  norma  penale,
 sempre frutto di un processo di astrazione.
    Il   bisogno   sociale   della   pena,   infatti,  puo'  risultare
 neutralizzato e soverchiato da una piu' eminente ragione sopravvenuta
 o di utilita' generale o di equita' o di umanita'.
    Effetto  dell'indulto, poi, e' quello di "condonare" tutta a parte
 della pena, che e' cosi' estinta e quindi non puo'  essere  eseguita.
 Ma  non  basta:  per  ormai consolidata giurisprudenza l'indulto puo'
 essere a richiesta  applicato  anche  a  pene  non  piu'  eseguibili,
 purche' chi avanza la domanda abbia un interesse concreto ad ottenere
 la declaratoria relativa.
    Conseguentemente,  l'intervento  clemenziale  finisce, anche sotto
 tale angolo visuale, per "correggere" formalmente  o  sostanzialmente
 la  quantita'  della  pena  "inflitta" dal giudice e per interferire,
 spesso pesantemente sul giudizio emesso ai sensi  dell'art.  133  del
 c.p. al momento della condanna.
    L'indulto,  in  altri  termini,  si  atteggia  come  un intervento
 legislativo, di carattere generale, incidente  sul  giudizio  emesso,
 nel caso particolare dal magistrato ai sensi dell'art. 133 del c.p.
    Dal  suo  canto la Corte costituzionale (fin dalla sentenza n. 110
 dell'11 dicembre 1962) ha affermato che il decreto  presidenziale  e'
 atto avente forza di legge, perche' emanato in forza di una legge del
 Parlamento che delega il potere al Presidente della Repubblica.
    E  tale  atto  normativo  e'  destinato  ad  operare nel campo dei
 delitti e delle pene che la Costituzione riserva alla legge.
    La  pena coperta dal condono non puo', pertanto, essere produttiva
 di  effetti  a  danno  del  condannato  per  espressa  volonta'   del
 Legislatore che, con la propria decisione, incide sullo stesso potere
 di  quantificazione  della  pena,  di  norma  riservata  al   giudice
 dall'art. 133 del c.p.
    Le suesposte considerazioni ad avviso del collegio, dimostrano che
 la tesi sostenuta dalle sezioni unite, confligge oltre  che  con  gli
 art.  3  e  27  della  Costituzione  anche con il potere riconosciuto
 dall'art. 79 della Costituzione al Parlamento ed al Presidente  della
 Repubblica, essendo in sostanza posto nel nulla (almeno ai fini della
 concessione delle misure alternative), il potere suddetto.
    Confligge  anche  con l'art. 13 della Costituzione perche' finisce
 per togliere la liberta' personale al cittadino-condannato, in  forza
 di  una parte di pena estinta per espressa volonta' del legislatore e
 quindi ormai improduttiva di  qualsiasi  rilevanza  sul  piano  della
 esecuzione penale.