IL TRIBUNALE
    Riunito  in  camera di consiglio, ha emesso la seguente ordinanza,
 nel procedimento penale n. 5497/89 r.g.  promosso  nei  confronti  di
 Zaccagnini  Ivan, Lanciotti Silvano, Mei Giuseppe, Narduzzi Beniamino
 e Conti Claudio, imputati di  rapina  pluriaggravata  ed  altro,  per
 fatti  accertati  in Roma, il 15 dicembre 1988; detenuti in attesa di
 giudizio di primo grado;
    Vista  l'istanza  avanzata,  nei  preliminari  del dibattimento di
 primo grado, dagli imputati Zaccagnini Ivan, Lanciotti Silavano,  Mei
 Giuseppe  e  Narduzzi Beniamino, con la quale, ai sensi del combinato
 disposto di cui agli artt. 247 del d.-l. 28 luglio 1989, n. 271,  438
 e  440  del  c.p.p., e' stato richiesto che il processo a loro carico
 sia definito allo stato degli atti, con il rito abbreviato;
    Preso  atto  della  mancata espressione del prescritto consenso da
 parte del p.m., appositamente interpellato;
    Vista  l'istanza avanzata dai difensori dei citati imputati con la
 quale  e'  stato  richiesto  di  rimettere  gli   atti   alla   Corte
 costituzionale deducendosi la illegittimita' dell'art. 2, (Paragrafo)
 3 e 53 della legge 16 febbraio 1987, n. 81; nonche' degli  artt.  247
 delle  disposizioni  transitorie del c.p.p. (d.-l. 28 luglio 1989, n.
 271), 438, 439, 440 del c.p.p. perche' in contrasto con gli artt.  3,
 25,  102  e 107 della Costituzione, laddove le norme in questione non
 prevedono  per  il  p.m.  l'obbligo  della  motivazione  del  mancato
 consenso  alla  richiesta  di rito abbreviato e, conseguentemente, la
 possibilita' di una valutazione del dissenso medesimo  da  parte  del
 giudice, cosi' privando l'imputato della possibilita' di ottenere, in
 caso di condanna, una congrua diminuzione della pena inflitta;  norme
 che   mal   si   concilierebbero   con  il  principio  costituzionale
 dell'uguaglianza di tutti i  cittadini  di  fronte  alla  legge  (con
 particolare  riguardo  alla  proclamata  partecipazione dell'accusa e
 della  difesa  su  basi  di  parita'  in  ogni  stato  e  grado   del
 procedimento   penale);  del  principio  del  giudice  naturale;  del
 principio grazie al quale la funzione giurisdizionale  non  puo'  che
 essere  esercitata  da magistrati ordinari distinti fra loro soltanto
 per diversita' di funzioni;
    Rilevato  che  le  norme  sulla  definizione del processo con rito
 abbreviato, previsto dal titolo I del libro VI del  nuovo  codice  di
 procedura  penale,  sono  state estese anche ai procedimenti pendenti
 alla data di entrata in vigore del codice stesso, ai sensi  dell'art.
 247 delle norme transitorie di cui al d.-l. n. 271/1989;
      che  il nuovo c.p.p. subordina l'accoglimento della richiesta di
 rito abbreviato avanzata dall'imputato al  consenso  del  p.m.  (art.
 438, primo comma) in relazione al citato art. 247, terzo comma, delle
 norme transitorie;
      che   il   richiamato   dissenso   non   va   motivato   e  che,
 conseguentemente, una  volta  manifestato,  preclude  al  giudice  la
 possibilita'  di  valutare la sussistenza o meno delle condizioni per
 pronunziare sentenza "allo stato degli atti", senza che si dia  luogo
 al dibattimento vero e proprio;
      che,   in   concreto,  nel  presente  processo,  sarebbe  invero
 possibile definire il processo stesso "allo stato  degli  atti",  nei
 confronti  degli  imputati  Zaccagnini, Lanciotti, Mei e Narduzzi, in
 quanto i primi tre sono stati sorpresi in quasi-flagranza  di  reato;
 gli  stessi Zaccagnini e Lanciotti sono confessi e che, nei confronti
 degli  altri  due,  non  risultano  essere  state   richieste   nuove
 acquisizioni probatorie;
      che  la questione di legittimita' costituzionale proposta appare
 rilevante  per  la  definizione  del  giudizio  nei  confronti  degli
 imputati  che  hanno  richiesto  il  rito  abbreviato,  incidendo  la
 risoluzione della questione medesima non soltanto  sulla  scelta  del
 rito,  ma  principalmente sulla determinazione della pena, in caso di
 affermazione di colpevolezza;
                             O S S E R V A
    Il  nuovo  c.p.p., in effetti, si fonda sul principio, proprio del
 sistema accusatorio, della parita'  assoluta  ed  inderogabile  della
 partecipazione dell'accusa e della difesa, e pertanto, ne' l'accusa e
 ne' la difesa debbono  potersi  condizionare  vicendevolmente,  fermo
 restando  il  diritto  di ciascuna di esse, nel proprio interesse, di
 richiedere l'applicazione delle norme sancite  nel  nuovo  codice,  e
 quindi anche di quelle che prevedono e consentono la scelta del rito;
 e fermo restando il potere-dovere del giudice-terzo di verificare  la
 sussistenza  delle  condizioni sostanziali per l'accoglibilita' delle
 richieste stesse (nella specie, per quanto attiene alla richiesta  di
 rito  abbreviato, quella della sussistenza delle condizioni per poter
 definire il processo "allo stato degli atti").
    L'art.  438,  primo  comma, peraltro, subordina tale verifica alla
 manifestazione (immotivata) del consenso (o del dissenso) ad opera di
 una delle parti (il p.m.), a differenza di quanto prevede e prescrive
 l'art. 448, primo comma (sulla applicazione della  pena  a  richiesta
 delle  parti),  non  senza  tener  conto che, ai sensi dell'art. 446,
 sesto comma, nella fattispecie il p.m. e'  tenuto  "ad  enunciare  le
 ragioni"  del  proprio  dissenso, ragioni che poi saranno liberamente
 valutate dal giudice.
    Ne  consegue  che  la  manifestazione,  per giunta immotivata, del
 dissenso da parte del p.m., ben puo' ipotizzarsi essere in  contrasto
 con  la  proclamata  parita' processuale fra accusa e difesa e quindi
 anche in contrasto con il principio costituzionale della  parita'  di
 tutti  i  cittadini,  con parita' di diritti e doveri, di fronte alla
 legge (art. 3 della Costituzione), non potendosi piu' riconoscere  al
 p.m.,  in  questa  fase  processuale,  alcuna posizione di supremazia
 sull'imputato,  tale  da  condizionare  l'esercizio  della   funzione
 giurisdizionale  spettante  esclusivamente  al giudice, in ossequio a
 quanto sancito negli artt. 25,  102,  secondo  comma,  e  107,  terzo
 comma, della Carta costituzionale.
    Ne'  appare ammissibile che una "parte", per di piu' in assenza di
 una qualsiasi apparente valida ragione, possa unilateralmente  e,  in
 ipotesi,  illegittimamente,  non  soltanto  impedire  al  giudice  di
 verificare la sussistenza delle condizioni perche' si proceda con  un
 determinato  rito,  ma altresi' all'imputato di fruire di una congrua
 riduzione della pena che la legge riconosce in suo favore.
    Va  altresi'  osservato  che il fatto che la richiesta di giudizio
 abbreviato trovi ostacolo nel dissenso immotivato  e  vincolante  del
 p.m.,  potrebbe  essere  in contrasto con il combinato disposto degli
 artt. 3 e 27, primo e terzo comma, della Costituzione,  nella  misura
 in  cui non e' consentito al giudice di riconoscere al richiedente la
 gia' richiamata riduzione di pena  ex  art.  442  del  c.p.p.,  anche
 quando  all'esito  dell'esame  degli  atti  e/o  del  dibattimento la
 richiesta risulti fondata.
    Nell'art. 27, primo e terzo comma, della Costituzione si configura
 il  principio  costituzionale  di   "colpevolezza"   come   relazione
 necessaria   fra  soggetto  e  sanzione  penale.  L'attuazione  della
 funzione di garanzia  assolta  dal  principio  di  legalita'  conduce
 d'altra  parte  a configurare il diritto penale come titolo idoneo di
 intervento contro la criminalita' e insieme come  garanzia  dei  c.d.
 destinatari  della legge: il principio di colpevolezza costituzionale
 deve garantire quindi il cittadino sulla certezza  delle  conseguenze
 delle  sue  scelte  comportamentali,  e  cioe'  che  sara' chiamato a
 rispondere penalmente solo per azioni da lui controllabili e mai  per
 comportamenti che solo fortuitamente producano conseguenze penalmente
 sanzionate.
    Orbene,  non  solo  il  principio  di  colpevolezza,  ma  anche il
 principio di legalita' viene sostanzialmente leso se un  soggetto  e'
 chiamato  a rispondere penalmente, sotto il profilo della graduazione
 della pena (nel caso di specie per un terzo di sanzione in piu' o  in
 meno)  per  situazioni che non puo' comunque impedire e che non e' in
 grado, senza sua colpa, di evitare o controllare: situazioni  legate,
 come   nel   caso  che  qui  interessa,  a  mera  scelta  processuale
 dell'accusa,  insindacabile  dall'organo   giurisdizionale   (giudice
 "naturale").
    Tale  lesione  assume  connotati  piu' evidenti ove si colleghi la
 situazione di chi, nella medesima situazione processuale, fruisca  di
 un consenso immotivato del p.m., con quella di chi trovi ostacolo nel
 dissenso, altrettanto  immotivato,  ed  insindacabile,  dello  stesso
 p.m.,   poiche'   allora  le  pene  irrogabili  in  concreto  saranno
 certamente  "sproporzionate"  fra  loro  rispetto  ai  fatti  (intesi
 nell'accezione  di  cui all'art. 649 del c.p.p.) ed alla personalita'
 dell'imputato (la cui subiettivita' e' richiamata come  misura  della
 pena del terzo comma dell'art. 27 della Costituzione), e violerebbero
 quel  canone  di  adeguatezza  e  proporzione  (sanzioni  diverse  in
 situazioni  diverse,  ma  sanzioni  uguali  in situazioni uguali) che
 costituisce  il  precetto   piu'   importante   dell'art.   3   della
 Costituzione.