ha pronunciato la seguente SENTENZA nel giudizio di legittimita' costituzionale dell'art. 7 della legge 20 maggio 1970, n. 300 (Norme sulla tutela della liberta' e dignita' dei lavoratori, della liberta' sindacale e dell'attivita' sindacale nei luoghi di lavoro e norme sul collocamento), promosso con ordinanza emessa il 1 giugno 1989 dal Pretore di Roma nel procedimento civile vertente tra Decio Paolo e la S.p.A. Aeroporti di Roma, iscritta al n. 370 del registro ordinanze 1989 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 35, prima serie speciale, dell'anno 1989; Visto l'atto di costituzione della S.p.A. Aeroporti di Roma nonche' l'atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri; Udito nell'udienza pubblica del 28 novembre 1989 il Giudice relatore Francesco Greco; Udito l'avv. Walter Prosperetti per la S.p.A. Aeroporti di Roma e l'Avvocato dello Stato Paolo D'Amico per il Presidente del Consiglio dei Ministri; Ritenuto in fatto 1. - Nel corso di un procedimento promosso da Decio Paolo, contro la S.p.A. Aeroporti di Roma, sua datrice di lavoro, per ottenere l'annullamento della sanzione disciplinare (della sospensione per dieci giorni dal servizio e dalla retribuzione) da quest'ultima inflittagli, l'adito Pretore di Roma, rilevando che l'atto introduttivo del giudizio era stato notificato alla convenuta oltre due anni dopo la data del contestato provvedimento, ha sollevato questione di legittimita' costituzionale dell'art. 7 della legge 20 maggio 1970, n. 300, nella parte in cui non prevede alcun termine di decadenza per l'impugnazione in sede giurisdizionale delle sanzioni disciplinari. Ad avviso del giudice a quo tale carenza di previsione viola, in primo luogo, l'art. 3 della Costituzione, perche' assoggetta a diverso trattamento il caso concernente siffatte sanzioni, impugnabili nel termine quinquennale di prescrizione (essendo applicabile quello di venti giorni, stabilito dalla stessa norma censurata, alla sola esperibilita' di azioni stragiudiziali), e quello del licenziamento, per la cui impugnabilita' e' previsto il termine di decadenza di sessanta giorni, anche in ipotesi di lamentata nullita'. Ne risulta, poi, vulnerato anche l'art. 41 della Costituzione perche' la libera esplicazione del potere imprenditoriale resta limitata dalla precarieta' degli assetti disciplinari in pendenza del suddetto termine prescrizionale, senza poter trovare adeguato rimedio in contingenti valutazioni di avvenuta acquiescenza o di violazione di norme di correttezza e di buona fede, permanendo l'interesse del lavoratore ad ottenere la declaratoria giurisdizionale dell'illegittimita' delle sanzioni per dopo la scadenza del biennio di cui all'ultimo comma della norma censurata. Quanto alla rilevanza della questione, il giudice a quo ne ha affermato la sussistenza osservando che un'eventuale declaratoria di illegittimita' di detta norma, nei termini auspicati, priverebbe di fondamento la domanda proposta dal lavoratore nel caso di specie. 2. - L'ordinanza di rimessione, emessa in data 1 giugno 1989, ritualmente comunicata e notificata, e' stata altresi' pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale. Nel susseguente giudizio davanti a questa Corte si e' costituita la societa' Aeroporti di Roma ed e' intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, per il tramite dell'Avvocatura Generale dello Stato. 2.1 - La societa' ha depositato una memoria di contenuto sostanzialmente adesivo rispetto alle argomentazioni svolte con l'ordinanza di remissione e, in particolare, ha sottolineato l'irrazionalita' della norma censurata derivante dal fatto che essa, da un lato, prevede un breve termine di decadenza (venti giorni), per l'esercizio della facolta' di promuovere la costituzione di un collegio di conciliazione, mentre, dall'altro lato, non ne prevede alcuno in riferimento all'azione giudiziaria. Ha poi aggiunto che la disparita' di trattamento denunciata dal Pretore, non giustificabile in nome di una presunta diversita' fra licenziamento e sanzioni cosi' dette conservative, appare a fortiori lesiva del principio costituzionale di eguaglianza dopo la sentenza di questa Corte n. 208 del 1982, in tema di licenziamento disciplinare. 2.2 - La difesa dell'Autorita' intervenuta ha, invece, concluso preliminarmente, nel senso dell'inammissibilita' della questione, richiedendosi, sostanzialmente, alla Corte un intervento di natura additiva esulante dai suoi compiti, in quanto la valutazione della opportunita' di assoggettare l'azione giudiziaria avverso sanzioni disciplinari non espulsive a un termine di decadenza di congrua ampiezza e' riservata alla discrezionalita' del legislatore. La stessa difesa ha, in via subordinata, sollecitato la declaratoria di infondatezza della questione osservando che il principio di eguaglianza non puo' essere, nella specie, utilmente richiamato, stante la non assimilabilita', ai fini de quibus, delle sanzioni suddette al licenziamento, in relazione al quale soltanto puo' porsi, con riflessi sull'esercizio del potere organizzativo dell'imprenditore, un problema di sollecita rimozione dell'incertezza circa la sorte del provvedimento. Ove, invece, si tratti di sanzioni non risolutive, che non incidono, quindi, sulla entita' della forza lavoro, il libero esercizio del menzionato potere non risulta significativamente inciso da un prolungato stato di precarieta' dell'irrogata sanzione e certamente, comunque, non in misura tale da giustificare l'imposizione di un breve termine di decadenza a carico del lavoratore, considerato anche che l'interesse di questi all'impugnativa giudiziaria puo' sopravvenire in epoca di gran lunga posteriore alla scadenza di un termine, analogo, in ipotesi, a quello stabilito per l'impugnazione del licenziamento, ma inferiore all'altro, biennale, entro il quale puo' venire in rilievo, in casi di successive infrazioni, la contestazione della recidiva. Nell'imminenza dell'udienza, la S.p.A Aeroporti di Roma ha depositato memoria insistendo per la declaratoria di illegittimita' costituzionale della norma in oggetto, nella parte censurata dal giudice remittente. All'uopo, la difesa di detta parte ha svolto argomentazioni sostanzialmente sovrapponibili a quelle gia' illustrate col precedente atto di costituzione, particolarmente sottolineando che l'avvenuta attrazione del licenziamento nell'orbita delle sanzioni disciplinari, per effetto della sentenza n. 204 del 1982 di questa Corte, rende del tutto irragionevole il differente trattamento, in punto di termine di decadenza dall'impugnazione, cui sono sottoposti da un lato siffatta sanzione espulsiva (termine di giorni sessanta) e, dall'altro, tutte le possibili ulteriori sanzioni (per le quali e' escluso qualsiasi termine breve di decadenza e vige soltanto l'ordinario termine di prescrizione decennale). Considerato in diritto 1. - Il Pretore di Roma dubita della legittimita' costituzionale dell'art. 7 della legge 20 maggio 1970, n. 300, nella parte in cui non prevede alcun termine di decadenza per l'impugnazione, in sede giurisdizionale, delle sanzioni disciplinari. A suo parere risulterebbero violati: a) l'art. 3 della Costituzione, per l'irrazionale disparita' di trattamento del caso relativo a siffatta impugnazione rispetto a quello concernente l'impugnazione del licenziamento, soggetta al termine di decadenza di sessanta giorni; b) l'art. 41 della Costituzione, per il pregiudizio che lo stato di incertezza sulla sorte delle sanzioni irrogate (durante il decorso dell'ordinario termine di prescrizione quinquennale) determina al libero esercizio del potere organizzativo dell'imprenditore. 2. - La questione non e' fondata. Si osserva, in via generale, che il potere disciplinare e' estrinsecazione del potere organizzatorio e direttivo che spetta al datore di lavoro. Ed e' diretto a reprimere, con apposite sanzioni, ogni infrazione alle regole predisposte in materia di organizzazione del lavoro nell'ambito aziendale per l'esatta esecuzione della prestazione. Puo' affermarsi che le sanzioni disciplinari rappresentano un mezzo di reazione ad eventuali mancanze del lavoratore, specie comportamentali, (obbligo di diligenza e di fedelta' - artt. 2104 e 2105 del codice civile) che ricadono sull'organizzazione aziendale. L'esercizio di detto potere non e' discrezionale ma e' soggetto a regolamentazione, la quale trova fondamento nella rilevanza giuridica dell'interesse comune e dell'imprenditore e del lavoratore. Essa e' apprestata anzitutto dal codice civile che, tranne che per alcuni rapporti (per es. quello nautico), contiene, pero', una sola norma: l'art. 2106, che richiama gli artt. 2104 e 2105 del codice civile e rinvia alle norme corporative; ora ai contratti collettivi o aziendali. Una piu' puntuale disciplina e' stata dettata dall'art. 7 della legge n. 300 del 1970 il quale prevede condizioni e limiti all'esercizio del potere disciplinare, in senso sostanziale e procedurale. La norma finalizza anche questo potere del datore di lavoro ad una razionale organizzazione del lavoro ed alla concreta tutela della liberta' e dignita' del lavoratore. La limitazione del potere dell'imprenditore deriva dal possibile controllo sulle modalita' di esercizio e sul contenuto specifico. La norma individua i comportamenti qualificabili come mancanze disciplinari ed indica le sanzioni applicabili e cioe' il rimprovero orale, l'ammonimento, la multa, la sospensione dal servizio e dalla retribuzione. Si controverte se tra essi sia o meno compreso il licenziamento. Inoltre, e' specificato il procedimento per l'erogazione delle sanzioni. 2.1 - Per quanto riguarda il licenziamento, i contratti collettivi o aziendali possono annoverarlo tra le sanzioni, mentre si e' formato un indirizzo giurisprudenziale secondo cui alcuni licenziamenti sono ontologicamente disciplinari. Questa Corte (sent. n. 204 del 1982) ha ritenuto che alcuni licenziamenti possono essere qualificati disciplinari secondo legge, contratti collettivi e regolamenti aziendali e che, comunque, la qualificazione come disciplinari spetta al giudice di merito (sent. n, 427 del 1989). 2.2 - A tutte le suddette sanzioni disciplinari si applicano le garanzie procedimentali di cui al secondo e terzo comma dell'art. 7 citato, cioe' la contestazione e l'audizione del lavoratore. Inoltre, il quarto comma dello stesso articolo dispone che il lavoratore al quale sia stata applicata una sanzione disciplinare, salve analoghe procedure fissate dai contratti collettivi di lavoro e ferma restando la facolta' di adire l'autorita' giudiziaria, nei venti giorni successivi alla comminazione della sanzione stessa puo' promuovere, anche a mezzo dell'associazione sindacale cui e' iscritto o conferisca mandato, la costituzione, tramite l'Ufficio provinciale del lavoro e della massima occupazione, di un collegio di conciliazione ed arbitrato composto di tre membri e cioe' da un rappresentante per ciascuna delle parti e da un terzo, nominato da queste o, in caso di disaccordo, dal direttore dell'Ufficio del lavoro. Il datore di lavoro puo' autonomamente adire il giudice e sottrarsi alla procedura arbitrale ma, in ogni caso, l'azione deve essere promossa entro dieci giorni dall'invito, rivoltogli dall'Ufficio suddetto, alla nomina del proprio rappresentante in seno al collegio arbitrale poiche', in difetto, la sanzione non ha effetto. Durante il giudizio la sanzione disciplinare resta sospesa. Anche il lavoratore puo' instaurare il giudizio dinanzi al giudice ordinario in ogni caso e direttamente, anche nella ipotesi in cui il contratto collettivo in via facoltativa o obbligatoria preveda determinate procedure arbitrali e conciliative. La disposizione in esame non prevede alcun termine per la proposizione dell'azione giudiziaria. E' rimasta isolata la pronuncia giudiziale secondo cui anche per essa vale il termine di 20 giorni previsto per il ricorso alla procedura arbitrale. Per il licenziamento, invece, l'art. 6 della legge 15 luglio 1966, n. 604, fissa, a pena di decadenza, il termine di sessanta giorni per l'impugnazione davanti al giudice. 3. - E' oggetto della questione in esame la disparita' di trattamento (violazione dell'art. 3 della Costituzione) che, ad avviso del giudice remittente, si verificherebbe sul punto tra sanzione disciplinare e licenziamento. Non si ritiene che essa sussista. Gia', in via generale, l'indirizzo giurisprudenziale formatosi in sede di legittimita' ha ritenuto la non omogeneita' delle due situazioni per presupposti, effetti, estensione e varieta' delle rispettive implicazioni. Infatti, il licenziamento per giusta causa e giustificato motivo e' cosa assolutamente diversa dalle sanzioni disciplinari sia per la ragione che li determina sia per gli effetti che si producono. La causa ed il motivo sono eventi di assoluta gravita' ed intensita'. Fanno venir meno del tutto la fiducia del datore di lavoro nel lavoratore o, quanto meno, creano una situazione di incompatibilita' tale che lo svolgimento del rapporto non puo' piu' proseguire. La sanzione disciplinare (di tipo conservativo) non e' un evento che incide in modo traumatico sul rapporto di lavoro che bene puo' continuare. La distinzione e' netta proprio sul piano degli effetti. La sanzione disciplinare consente la prosecuzione del rapporto; il licenziamento ne produce l'interruzione: ad esso consegue la espulsione del lavoratore dall'azienda. La diversita' sul piano contenutistico ed effettuale sussiste anche per il licenziamento intimato per motivi disciplinari. Al licenziamento qualificato disciplinare secondo legge, contratti collettivi e regolamenti aziendali si sono estese le garanzie procedimentali previste dalla norma in esame (art. 7, primo, secondo e terzo comma - sentenza n. 204 del 1982); secondo l'indirizzo giurisprudenziale, anche di legittimita', esse si applicano anche ai licenziamenti ontologicamente disciplinari. Di recente, l'estensione (limitata al secondo e terzo comma) e' avvenuta anche per i licenziamenti disciplinari intimati presso le piccole aziende (sent. n. 427 del 1989). Ma in tal modo non si e' inteso affatto assimilare in toto i licenziamenti alle sanzioni disciplinari. La distinzione rimane sul piano dei contenuti e degli effetti. Proprio questa differenza rende razionale il differente trattamento e, quindi, la disposizione censurata. Dalla forza estintiva del rapporto di lavoro e dall'effetto espulsivo del licenziamento nasce il problema della sollecita soluzione della ricostituibilita' del rapporto e della eventuale cessazione di efficacia del provvedimento. Consegue, cioe', l'interesse del lavoratore ad una sollecita declaratoria da parte del giudice, della eventuale illegittimita', nullita', inefficacia o annullamento del licenziamento e, a seconda dei casi, ad una immediata reintegrazione nel posto di lavoro o quanto meno ad un congruo risarcimento dei danni. E', quindi, indispensabile il sollecito ricorso al giudice, entro un breve termine di decadenza, per eliminare la situazione pregiudizievole e, anche nell'interesse del datore di lavoro, lo stato di incertezza. 3.1 - Per le sanzioni disciplinari, che in sostanza sono accadimenti di scarsa rilevanza e che consentono la prosecuzione del rapporto di lavoro, giustamente il legislatore ha privilegiato il ricorso alla procedura arbitrale. Egli, nella sua discrezionalita', ha ritenuto che il caso disciplinare possa essere risolto meglio e speditamente con il ricorso alla detta procedura. La prosecuzione del rapporto consente anche la eventualita' che, durante l'ulteriore corso di questo, il datore di lavoro rimuova per intero il torto fatto al lavoratore, non tenga, cioe', piu' conto della sospensione o dell'ammonimento e rimborsi la retribuzione trattenuta o la multa inflitta. 3.2 - Si osserva anche che la non previsione del termine per la proposizione dell'azione giudiziaria trova nella stessa norma dei temperamenti. E cioe' anzitutto il datore di lavoro e' libero di adire il giudice appena il lavoratore contesta la legittimita' della sanzione, anche se puo' essere raro il caso in cui egli adisca, direttamente ed indipendentemente dalla contestazione, il giudice per fare dichiarare la legittimita' della sanzione inflitta. Egli, comunque, per evitare la inefficacia della sanzione, deve proporre l'azione giudiziaria nei dieci giorni dalla ricezione dell'invito da parte dell'Ufficio del lavoro a nominare il suo rappresentante in seno al collegio arbitrale adito dal lavoratore. Per fare accertare la illegittimita' della sanzione inflittagli, il lavoratore o puo' richiedere la costituzione del collegio arbitrale entro venti giorni dall'applicazione della sanzione o adire il giudice. In quest'ultimo caso l'azione puo' essere promossa immediatamente o nei due anni per evitare gli effetti pregiudizievoli della recidiva oppure, infine, fino al compimento della prescrizione ordinaria, assumendo ovviamente il rischio dell'eventuale recidiva. Quindi, questa ultima ipotesi (fino al compimento della prescrizione ordinaria) e' una soltanto di quelle che possono verificarsi. Per quanto riguarda la violazione dell'art. 41 della Costituzione, prospettata nel rilievo del pregiudizio arrecato al potere organizzatorio dell'imprenditore, per lo stato di incertezza sulla sorte della sanzione, si osserva che a parte i rilevati limiti all'esercizio di detto potere, derivanti dalla finalita' di attuazione di una razionale organizzazione del lavoro e dalla tutela della liberta' e dignita' del lavoratore, detto pregiudizio non deriva dalla legge ma piuttosto dallo stesso comportamento del datore di lavoro. Egli, infatti, secondo la previsione legislativa, ha i mezzi per evitarlo, sempre che in effetti sussista, promuovendo l'azione davanti al giudice con immediatezza per fare accertare la legittimita' della sanzione inflitta al lavoratore, come gia' e' detto innanzi. Pertanto, la questione va dichiarata non fondata.