ha pronunciato la seguente ORDINANZA nel giudizio di legittimita' costituzionale dell'art. 4, comma dodicesimo, della legge 1 dicembre 1970, n. 898 (Disciplina dei casi di scioglimento del matrimonio), come sostituito dall'art. 8 della legge 6 marzo 1987, n. 74 (Nuove norme sulla disciplina dei casi di scioglimento di matrimonio), nonche' dell'art. 23 di quest'ultima legge, promosso con ordinanza emessa l'11 aprile 1989 dalla Corte d'appello di Trento nel procedimento civile vertente tra Odorizzi Giovanni e Da Roit Mara in Odorizzi, iscritta al n. 292 del registro ordinanze 1989 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 25, prima serie speciale, dell'anno 1989; Visto l'atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri; Udito nella camera di consiglio del 25 ottobre 1989 il Giudice relatore Vincenzo Caianiello; Ritenuto che, nel corso di un giudizio di separazione personale fra coniugi, la Corte d'appello di Trento, con ordinanza in data 11 aprile 1989, ha sollevato, in riferimento agli artt. 3, primo comma, 24, secondo comma, e 101, primo comma, della Costituzione, questione di legittimita' costituzionale dell'art. 4, comma dodicesimo, della legge 1 dicembre 1970, n. 898, (Disciplina dei casi di scioglimento del matrimonio), come sostituito dall'art. 8 della legge 6 marzo 1987, n. 74, (Nuove norme sulla disciplina dei casi di scioglimento di matrimonio) - a tenore del quale l'appello avverso le sentenze pronunciate nei giudizi per ottenere lo scioglimento o la cessazione degli effetti civili del matrimonio "e' deciso in camera di consiglio" - nonche' dell'art. 23 di quest'ultima legge, che estende la suindicata disciplina alle sentenze pronunciate nei giudizi di separazione personale tra coniugi; che, ad avviso del giudice a quo, le norme impugnate, prevedendo il rito camerale per il solo giudizio di appello in una materia in cui lo stesso legislatore ha ritenuto necessaria per il primo grado e per il giudizio di cassazione sempre la forma contenziosa ordinaria, esulerebbero dai limiti della ragionevolezza e da quelle circostanze eccezionali che sole consentirebbero di rinunciare al criterio della pubblicita' dell'udienza collegiale (art. 101, primo comma, della Costituzione); che, inoltre, la scarna normativa dettata per il rito camerale parrebbe insufficiente a regolare un processo altamente conflittuale "quale quello in cui si accertano addebitabilita' di separazione personale", e non consentirebbe "il normale esercizio di facolta' di prova", cosi' violando gli artt. 3, primo comma, e 24, secondo comma, della Costituzione; che anzi la prima delle norme denunciate neppure stabilisce le norme procedurali applicabili nei giudizi di appello, cosi' da risultare illegittima per genericita'; che non si e' costituita alcuna parte privata; che e' invece intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, osservando che il giudice remittente ha omesso la scelta interpretativa in ordine alle norme procedurali applicabili al giudizio di appello in materia di rapporti personali tra coniugi e che pertanto, sotto tale profilo, la questione e' inammissibile; che comunque, sempre ad avviso dell'interveniente, il tenore letterale della prima delle norme denunciate consentirebbe di escludere che l'impugnazione si risolva nel reclamo di cui all'art. 739 del codice di procedura civile, sicche' inconferenti apparirebbero le censure inerenti alla pretesa sommarieta' del giudizio; che, viceversa, dovrebbe ritenersi che la "camera di consiglio" sia prevista per la sola fase decisoria e valga soltanto ad escludere - salva specifica autorizzazione del giudice - lo scambio di comparse conclusionali e/o la discussione orale, per evidenti esigenze di rapidita' e di riservatezza, discrezionalmente apprezzate dal legislatore, senza alcuna incidenza sul diritto di difesa delle parti; Considerato che la eccezione di inammissibilita', dedotta dall'interveniente, va disattesa tenuto conto di quanto affermato nell'ordinanza di rimessione, che non ritiene applicabili all'intera fase di appello le norme procedurali tipiche del processo contenzioso, affermandosi dal giudice a quo che diversamente "non si vedrebbe quale utilita' pratica possa avere indotto il legislatore ad introdurre il (rito) camerale rispetto alla (sola) fase finale del processo", e che, in tal modo, lo stesso giudice ha correttamente operato la scelta interpretativa delle norme denunciate; che, nel merito, anche se il rito camerale deve intendersi esteso a tutta la fase del giudizio di appello, la Corte ha gia' dichiarato, nella sentenza n. 543 del 1989, non fondata la medesima questione di legittimita' costituzionale, con riferimento agli stessi parametri ora invocati, perche' la prescrizione del rito camerale in appello assicura le necessarie garanzie processuali, come precisato in detta sentenza; che non risultano in questa sede formulati profili nuovi che possano indurre a diverso avviso, anche per quel che concerne la pubblicita' delle udienze, in quanto questa Corte, dovendone valutare di volta in volta l'esigenza con riferimento alla natura del processo preso in considerazione (sent. n. 212 del 1986), l'ha ritenuta non indispensabile a quello ora in esame, tenuto conto del grado di giudizio e del tipo di controversia trattata; che, pertanto, la questione e' manifestamente infondata. Visti gli artt. 26, comma secondo, della legge 11 marzo 1953 n. 87 e 9, comma secondo, delle Norme integrative per i giudizi davanti la Corte costituzionale;