Ordinanza
nel  giudizio  di  legittimita'  costituzionale  dell'art.  23, comma
undicesimo,  della  legge  24  novembre  1981,  n. 689  (Modifiche al
sistema  penale),  promosso  con  ordinanza  del  30 ottobre 2007 dal
Giudice di pace di Milano nel procedimento civile vertente tra Farina
Briamonte  Luana  e il Comune di Milano, iscritta n. 166 del registro
ordinanze 2008 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica
n. 23, 1ª serie speciale, dell'anno 2008;
   Visto  l'atto  di  intervento  del  Presidente  del  Consiglio dei
ministri;
   Udito  nella  Camera  di  consiglio del 22 ottobre 2008 il giudice
relatore Paolo Maddalena;
   Ritenuto  che  con ordinanza del 30 ottobre 2007, notificata il 12
febbraio  2008  ed  iscritta  al  numero  166  del  registro  ricorsi
dell'anno  2008, il Giudice di pace di Milano solleva, in riferimento
agli  artt.  3 e 111, secondo comma, della Costituzione, questione di
legittimita'  costituzionale  dell'art.  23,  comma undicesimo, della
legge  24  novembre  1981,  n. 689  (Modifiche al sistema penale), in
quanto  - in relazione ai giudizi che questa disciplina - non prevede
che  «nella  liquidazione  delle  spese a favore dell'Ente locale, se
assistito da propri dipendenti, si applica la tariffa vigente per gli
avvocati  e  procuratori,  con la riduzione del venti per cento degli
onorari di avvocato, ivi previsti»;
     che,  in  punto  di  fatto,  il  rimettente  chiarisce di dovere
decidere  in  ordine  all'opposizione  proposta  avverso una sanzione
amministrativa   per  violazione  del  codice  della  strada  ed,  in
particolare,  stante  l'infondatezza  della  stessa,  in  ordine alla
domanda   dell'amministrazione   comunale   costituita   di  condanna
dell'opponente al pagamento delle spese processuali;
     che  il  rimettente  rileva che l'art. 23, comma 11, della legge
n. 689  del  1981,  prevede  la  condanna dell'opponente al pagamento
delle spese del procedimento e riferisce un «consolidato orientamento
interpretativo»,  secondo  cui  queste  sarebbero (non tutte le spese
processuali, ma) solo le spese effettivamente sostenute e documentate
da parte dell'amministrazione resistente;
     che,  secondo  tale  indirizzo  giurisprudenziale,  pertanto, la
domanda  dell'amministrazione  comunale resistente nel giudizio a quo
potrebbe essere accolta limitatamente a tali minore somme;
     che tuttavia, sempre secondo il rimettente, si dovrebbe ritenere
che  l'art.  23,  comma  11,  della legge n. 689 del 1981 si ponga in
contrasto  con  «il  principio uguaglianza (o di ragionevolezza)», in
relazione  alla  diversa  disciplina  dettata dall'articolo 15, comma
2-bis, del decreto legislativo 31 dicembre 1992, n. 546 (Disposizioni
sul  processo  tributario  in  attuazione  della  delega  al  Governo
contenuta nell'art. 30 della legge 30 dicembre 1991, n. 413), secondo
la  quale,  nei  processi  davanti  le  commissioni  tributarie, alla
liquidazione  delle  spese a favore dell'ente locale, se assistito da
propri  dipendenti,  si applica la tariffa vigente per gli avvocati e
procuratori,  con  la  riduzione del venti per cento degli onorari di
avvocato ivi previsti;
     che,   a  parere  del  rimettente,  la  diversita'  tra  le  due
discipline  non  avrebbe  alcuna  razionale  giustificazione  e,  per
ricondurre  a ragionevolezza il sistema, dovrebbe estendersi anche ai
giudizi  di  opposizione  alle  sanzioni amministrative la richiamata
regola  valevole  per  i giudizi innanzi alle commissioni tributarie:
«[a]  meno  che  non  si ritenga preferibile perpetuare la situazione
attuale  in  cui  il ricorrente non viene mai condannato al pagamento
delle spese processuali, neanche quando presenta ricorsi immotivati o
ictu  oculi  infondati,  mentre la pubblica Amministrazione, in molti
dei  casi  in  cui  il  ricorrente  e' assistito da un avvocato, puo'
essere  condannata e - in alcuni casi - viene condannata al pagamento
delle spese processuali»;
     che  tale  situazione  «di  fatto  e  di diritto» sarebbe «forse
incompatibile anche con il principio di parita' delle parti, previsto
dall'art.  111,  secondo  comma,  Cost.» e spiegherebbe, anche se non
giustificherebbe, la tendenza delle amministrazioni a non partecipare
alle  udienze  e «non di rado» ad ignorare anche l'ordine del giudice
di depositare in cancelleria copia del rapporto con gli atti relativi
all'accertamento,  nonche'  alla  contestazione o notificazione della
violazione:  tendenza,  questa,  che,  a  sua  volta, verrebbe a fare
sembrare  il  giudice,  «che dovrebbe essere ed apparire obiettivo ed
imparziale», quale «controparte» del cittadino;
     che  il  rimettente  afferma,  inoltre,  che potrebbe sostenersi
l'applicazione  analogica  dell'articolo 15, comma 2-bis, del decreto
legislativo  n. 546 del 1992, in tutti i processi (e quindi anche nel
giudizio a quo) in cui una pubblica amministrazione sia rappresentata
e  difesa  in  giudizio  da  propri  funzionari,  ma  «considerata la
rilevanza   anche   “politica”   della  questione  e  pur
consapevole  che  un  mutamento  dello  status  quo  possa nuocergli,
ritiene  che  la  soluzione  debba  passare attraverso un giudizio di
legittimita' costituzionale»;
     che  e' intervenuto nel giudizio il Presidente del Consiglio dei
ministri,  rappresentato  e  difeso  dall'Avvocatura  generale  dello
Stato,  che  ha  depositato  un  atto  di intervento nel quale assume
l'inammissibilita' e l'infondatezza della questione;
     che,  a  parere  della  difesa  erariale,  la  questione sarebbe
inammissibile,  in quanto il giudice rimettente non avrebbe «in alcun
modo»  esaminato  la  possibilita'  di  dare alla norma censurata una
interpretazione  conforme  ai  principi  costituzionali asseritamente
violati:  in particolare, non avrebbe valutato l'applicabilita' della
disciplina  recata  dagli artt. 91 e seguenti del codice di procedura
civile  ad  un  rito,  quale  quello  relativo  all'opposizione  alle
sanzioni amministrative, avente comunque natura di giudizio ordinario
di cognizione;
     che  il  richiamo  alla diversa disciplina dettata dall'art. 15,
comma 2-bis, del decreto legislativo n. 546 del 1992 sarebbe, invece,
inconferente,   atteso   il   suo   carattere   speciale,  come  tale
inestensibile.
   Considerato   che  il  giudice  di  pace  di  Milano  solleva,  in
riferimento  agli  artt.  3 e 111, secondo comma, della Costituzione,
questione   di   legittimita'   costituzionale  dell'art.  23,  comma
undicesimo,  della  legge  24  novembre  1981,  n. 689  (Modifiche al
sistema  penale), in quanto non prevede che «nella liquidazione delle
spese  a  favore dell'Ente locale, se assistito da propri dipendenti,
si  applica la tariffa vigente per gli avvocati e procuratori, con la
riduzione  del  venti  per  cento  degli  onorari  di  avvocato,  ivi
previsti»;
     che  la  prospettazione  del  rimettente,  non  e' adeguatamente
motivata  in  ordine alla non manifesta infondatezza della questione,
ed  e'  altresi'  contraddittoria, risolvendosi, per un verso, in una
richiesta  di avallo interpretativo, per un altro, nella deduzione di
meri inconvenienti di fatto derivanti da una certa applicazione della
norma censurata;
     che  il  rimettente  (specie alla luce del precedente costituito
dalla  ord.  n. 130  del  2005  di  questa  Corte) non ha valutato la
possibilita' di una interpretazione della norma censurata conforme ai
principi costituzionali che egli assume violati;
     che, pertanto, la questione e' inammissibile.
   Visti  gli  artt.  26,  secondo  comma, della legge 11 marzo 1953,
n. 87,  e  9,  comma 2, delle norme integrative per i giudizi davanti
alla Corte costituzionale.