Sentenza
nel  giudizio  di legittimita' costituzionale dell'art. 11 del codice
di  procedura  penale,  promosso, con ordinanza del 15 febbraio 2008,
dal  Giudice  dell'udienza  preliminare  del Tribunale di Ferrara nel
procedimento  penale  a  carico di C. M. ed altro, iscritta al n. 260
del  registro  ordinanze  2008  e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale
della Repubblica n. 37, prima serie speciale, dell'anno 2008.
   Visto  l'atto  di  intervento  del  Presidente  del  Consiglio dei
ministri;
   Udito  nella  camera  di  consiglio del 3 dicembre 2008 il Giudice
relatore Sabino Cassese.
                          Ritenuto in fatto
   1.  -  Il  Giudice dell'udienza preliminare presso il Tribunale di
Ferrara  ha  sollevato,  con  riferimento agli artt. 3, 24, 25, primo
comma,  e  111,  secondo  comma,  della  Costituzione,  questione  di
legittimita'  costituzionale  dell'art.  11  del  codice di procedura
penale  nella  parte  in  cui  «non  prevede che la sua disciplina si
applichi  pure  quando la qualita' di persona sottoposta ad indagini,
imputato,  persona  offesa  o danneggiata dal reato sia assunta da un
prossimo  congiunto di un magistrato che esercita le proprie funzioni
o  le  esercitava  al  momento  del  fatto  in un ufficio giudiziario
compreso  nel  distretto  di  Corte di appello che sarebbe competente
secondo le ordinarie regole».
   L'art.  11  cod. proc. pen. prevede che: «1. I procedimenti in cui
un  magistrato  assume la qualita' di persona sottoposta ad indagini,
di  imputato  ovvero  di  persona offesa o danneggiata dal reato, che
secondo  le norme di questo capo sarebbero attribuiti alla competenza
di  un  ufficio giudiziario compreso nel distretto di corte d'appello
in  cui il magistrato esercita le proprie funzioni o le esercitava al
momento  del  fatto,  sono  di  competenza  del  giudice,  ugualmente
competente  per  materia,  che ha sede nel capoluogo del distretto di
corte  di  appello  determinato  dalla  legge.  2.  Se  nel distretto
determinato  ai  sensi  del comma 1 il magistrato stesso e' venuto ad
esercitare  le proprie funzioni in un momento successivo a quello del
fatto, e' competente il giudice che ha sede nel capoluogo del diverso
distretto  di corte d'appello determinato ai sensi del medesimo comma
1. 3. I procedimenti connessi a quelli in cui un magistrato assume la
qualita'  di  persona  sottoposta  ad indagini, di imputato ovvero di
persona  offesa  o  danneggiata  dal  reato  sono  di  competenza del
medesimo giudice individuato a norma del comma 1».
   Il  Giudice  rimettente  premette,  in  fatto,  che  nel  giudizio
principale  si  procede  per  il reato di spaccio di stupefacenti nei
confronti,  tra gli altri, di un imputato, figlio di un magistrato in
servizio  presso  la locale Procura della Repubblica e che il giudice
dinanzi  al quale doveva svolgersi l'udienza preliminare dello stesso
processo  ha  trasmesso al Presidente del Tribunale una dichiarazione
di  astensione  a  norma  dell'art. 36, comma 1, lett. h), cod. proc.
pen.,  ritenendo  «particolarmente  sconveniente la trattazione dello
stesso»  processo  attesi  i  propri  «costanti  rapporti per ragioni
connesse  all'attivita'  d'ufficio»  con la collega magistrato, madre
dell'imputato, tali da far «apparire non garantita la sua serenita'».
Riferisce,  inoltre,  che  il  Presidente del Tribunale ha accolto la
dichiarazione di astensione e ha designato se' medesimo quale giudice
dell'udienza preliminare del procedimento in questione, chiarendo che
l'autoassegnazione  scaturiva  da  «una  informale riunione nel corso
della  quale tutti i magistrati del settore penale avevano confermato
come  le  ragioni  di  convenienza»  addotte dal giudice dell'udienza
preliminare  «sussistevano  parimenti  per ognuno di essi, ragion per
cui  successive assegnazioni tabellari avrebbero dato inevitabilmente
luogo  ad  altrettante  dichiarazioni  di  astensione,  fondate sulle
medesime ragioni addotte nella prima dichiarazione».
   1.1.  - Ad avviso del Giudice rimettente, la questione sarebbe non
manifestamente   infondata   con   riferimento  a  diversi  parametri
costituzionali.
   In primo luogo, la norma censurata violerebbe l'art. 3 Cost. sotto
il   profilo   sia   della   disparita'   di  trattamento  sia  della
irragionevolezza.   Osserva   il  Giudice  rimettente  che  la  Corte
costituzionale  ha  affermato  che  il  fondamento della regola posta
dall'art.  11  cod.  proc.  pen.  va  rintracciato, da un lato, nella
tutela  del  diritto  di difesa del cittadino imputato e, dall'altro,
nell'esigenza di garantire la terzieta' e l'imparzialita' del giudice
(sentenza  n. 390  del  1991).  Sottolinea  altresi'  come  la  Corte
costituzionale  assegni un valore assoluto alla salvaguardia di dette
garanzie  fondamentali del giusto processo in relazione alla modifica
dell'art.    111    Cost.   e   che,   dichiarando   l'illegittimita'
costituzionale dell'art. 11, comma 3, cod. proc. pen. (nella versione
precedente  a  quella  attuale)  nella  parte  in  cui  non prevedeva
l'operativita'  del  trasferimento di competenza per i reati commessi
in  udienza nei quali magistrati risultavano offesi o danneggiati, ha
affermato  che  il  pregiudizio  a detti valori sussiste anche quando
esso  potrebbe  considerarsi  attenuato  o  limitato dalla previsione
degli  istituti  dell'astensione  e  della  ricusazione e anche se si
tratta  di  magistrato  offeso  o  danneggiato  nell'esercizio  della
funzione  pubblica assegnatagli dall'ordinamento (sentenza n. 390 del
1991).
   Il  Giudice  rimettente,  inoltre,  mostra  di  essere consapevole
dell'orientamento della Corte costituzionale secondo cui e' riservata
alla   discrezionalita'   del   legislatore  la  delimitazione  delle
situazioni  che astrattamente potrebbero considerarsi pregiudizievoli
per   l'obiettivita'   e   l'imparzialita'  del  giudizio  e  per  la
neutralita' e serenita' del giudice, con il limite dell'arbitrarieta'
o della palese irragionevolezza (sentenza n. 381 del 1999).
   Nel  caso  in  esame,  secondo il rimettente, tale limite e' stato
oltrepassato  a  causa  della  disparita' di trattamento riservato ai
prossimi    congiunti,   sicche'   la   norma   «sarebbe   priva   di
giustificazione  e  ragionevolezza  sussistendo in relazione a questi
soggetti   le   medesime   esigenze   di   garanzia   e   di   tutela
dell'imparzialita'  e  della  terzieta'  (e  relativa  immagine)  del
giudice  che sorreggono la ratio dell'art. 11 cod. proc. pen. sia con
riferimento  ai diretti interessati (imputati, soggetti sottoposti ad
indagini,    persone   offese,   danneggiati)   che   rispetto   alla
collettivita' nel suo insieme».
   Ad   avviso   del   rimettente,  la  irragionevolezza  dell'omessa
previsione  della categoria dei prossimi congiunti risulta ancor piu'
palese  se si considerano i numerosi casi in cui la legge processuale
estende   alla   stessa   categoria  la  disciplina  prevista  per  i
magistrati.  Quali  termini  di  comparazione, il giudice richiama le
norme   in  tema  di  astensione  e  ricusazione,  in  cui  la  causa
pregiudicante  l'imparzialita' del giudice nel singolo processo viene
estesa ai prossimi congiunti (artt. 36 e 37 cod. proc. pen.), nonche'
la   disposizione   che   opera  una  sostanziale  equiparazione  tra
l'imputato  ed  il prossimo congiunto quanto all'esonero dell'obbligo
di  testimoniare  (art.  199 cod. proc. pen.). Secondo il rimettente,
appare  incompatibile con il principio di ragionevolezza «considerare
presuntivamente  non  in  grado  a  priori  di  offrire  garanzie  di
imparzialita'  e  terzieta'  il giudice che deve giudicare il collega
che  opera  nel  medesimo  ufficio  o  negli  uffici del distretto ed
escludere     altrettanto    aprioristicamente    qualsiasi    vulnus
all'imparzialita'  e alla terzieta' (e alla sua apparenza) in tutti i
casi in cui in luogo del magistrato sia coinvolto nel processo un suo
prossimo  congiunto,  sicche' quel giudice che non puo' in alcun modo
essere considerato imparziale quando giudica un collega dell'Ufficio,
lo  diventa  se  invece  deve  giudicarne  il figlio, il genitore, il
coniuge».  Richiama  altresi'  alcune  disposizioni processuali dalle
quali risulta il coinvolgimento non soltanto del diretto interessato,
ma anche dei prossimi congiunti (l'art. 96, comma 3, cod. proc. pen.,
che  prevede  la  facolta'  di  nomina  del  difensore di fiducia del
soggetto in stato di arresto o di fermo o custodia cautelare da parte
dei  prossimi  congiunti;  gli  artt.  643 e 644 cod. proc. pen., che
attribuiscono  iure  proprio,  in  caso di morte dell'interessato, il
diritto  alla  riparazione  dell'errore  giudiziario  in  favore  dei
congiunti  della  vittima  dell'errore, che sia deceduta). Il Giudice
rimettente, infine, rammenta, per un verso, il diritto vivente che ha
esteso  la  competenza  derogatoria  prevista dall'art. 11 cod. proc.
pen.  ai giudici onorari (Corte di cassazione, S.U., n. 292 del 2005)
e,  per  l'altro,  riporta  uno  stralcio  del  messaggio alle Camere
dell'allora  Presidente  della  Repubblica Cossiga del 26 luglio 1990
che,  in  tema  di  determinazione  del  foro competente nei processi
penali, affermava la «necessita' di escludere, anche nelle apparenze,
che  la  giustizia,  quando  amministrata  da altri magistrati, possa
essere  una  giustizia amministrata in modo diverso e meno oggettivo,
“domestico”, di privilegio ovvero di casta».
   1.2.  - In secondo luogo, a parere del rimettente la norma sarebbe
in  contrasto  con  l'art.  24  Cost. in relazione agli artt. 3 e 111
Cost., in quanto il diritto di difesa non puo' subire condizionamenti
per  il  fatto  «di  doversi  esplicare  in  un ambiente nel quale il
giudice si trovi in stretti rapporti di contiguita' professionale, di
relazioni  personali  umane  e  lavorative  con il prossimo congiunto
dell'imputato  medesimo». In altri termini, osserva il rimettente, «i
fatti,  le  circostanze,  i  temi  di  prova,  le  fonti di prova, le
relazioni  interpersonali  che in un normale processo vengono addotti
dall'interessato  avendo  riguardo esclusivamente alla propria causa,
potrebbero dover essere impropriamente riesaminati alla stregua della
peculiarissima  condizione  in  cui  il soggetto del processo viene a
trovarsi per effetto del suo rapporto di parentela», con l'effetto di
nuocere  alla  capacita' del giudice di mantenersi terzo e imparziale
in  una situazione in cui ad essere giudicato e' un soggetto rispetto
al quale possa ipotizzarsi una sua qualche sensibilita' personale.
   1.3.  -  In  terzo luogo, la norma sarebbe in contrasto con l'art.
25, primo comma, Cost. in relazione agli artt. 3 e 111 Cost. A parere
del  rimettente  -  anche  se  l'applicazione del meccanismo previsto
dagli  artt.  36,  comma  1, lett. h) e 43, comma 2, cod. proc. pen.,
potrebbe  realizzare  il risultato di rimettere il processo alla sede
competente  per  materia  a norma dell'art. 11 cod. proc. pen., senza
giungere  alla  dichiarazione  di  incostituzionalita'  della  norma,
«lasciando  al  sistema  quel  necessario  margine di elasticita' che
eviterebbe  di  ingessarlo con automatici trasferimenti di competenza
in  una  serie  di casi, che potrebbero rivelarsi assai numerosi, non
richiedenti  in concreto l'effettivo spostamento del processo» - tale
predetto meccanismo non rispetterebbe il principio costituzionale del
giudice  naturale «sotto il profilo dell'intollerabile incertezza che
si  avrebbe nella determinazione del giudice competente, che verrebbe
rimessa   all'insindacabile   valutazione   dei   singoli  magistrati
dell'ufficio  astrattamente  competente»,  potendo ciascun magistrato
«quando   parte  interessata  al  processo  penale  sia  un  prossimo
congiunto   di   un  magistrato  dello  stesso  ufficio  distrettuale
[…] giungere a conclusioni diverse sulla base di insindacabili
valutazioni  di  opportunita',  non  apprezzabili  e controllabili in
alcun modo».
   Sotto il profilo dell'imparzialita' e della terzieta' del giudice,
ad  avviso  del  rimettente,  ricondurre  la questione in esame ad un
«problema di incompatibilita', astensione o ricusazione, potrebbe far
dipendere  l'individuazione  del  giudice  competente  dal soggettivo
apprezzamento  da  parte  dei  magistrati dell'ufficio in ordine alla
ricorrenza  di  quelle  gravi  ragioni  di convenienza che potrebbero
portare,  attraverso  il  meccanismo  delle  astensioni  a  catena, a
produrre   l'effetto   del  trasferimento  del  processo  nella  sede
determinata ai sensi degli artt. 11 e 43 del cod. proc. pen.». Con la
conseguenza  che  l'imputato  che  si trova nella condizione in esame
«non  sarebbe mai in grado di sapere preventivamente chi sara' il suo
giudice  naturale,  tale  determinazione  non potendosi effettuare ex
ante  ma  soltanto  ex  post  a  seguito  dell'interpello dei singoli
magistrati  dell'ufficio […] con tutte le singole varianti del
caso, soggettive ed arbitrarie, e conseguente eventuale trasferimento
del processo».
   1.4.  -  Infine, a parere del Giudice rimettente, la norma sarebbe
in  contrasto  con  l'art.  111,  secondo  comma,  Cost.,  atteso che
l'omessa   previsione   di   deroga   alla  competenza  territoriale,
nell'ipotesi  di  processi  nei  confronti  di prossimi congiunti del
magistrato   operante   nel   distretto,   produce  «un'apparenza  di
parzialita' e non neutralita' del giudice».
   Conclude il rimettente osservando che la questione non puo' essere
risolta   «in  via  interpretativa,  precludendo  inesorabilmente  la
lettera  della  norma  qualsiasi  interpretazione  nel  senso  che si
ritiene costituzionalmente conforme».
   1.5.  -  In punto di rilevanza, il rimettente riferisce di doversi
pronunciare in ordine all'ammissione al giudizio abbreviato richiesta
sia  dall'imputato  «prossimo  congiunto»  del  magistrato, sia da un
altro e che, ove la proposta questione di legittimita' costituzionale
fosse   accolta,   dovrebbe   dichiarare  immediatamente  la  propria
incompetenza  funzionale  a  giudicare nei confronti degli imputati e
trasmettere  gli  atti  al giudice dell'udienza preliminare presso il
Tribunale di Ancona, a norma degli artt. 11 cod. proc. pen. e 1 disp.
att. cod. proc. pen.
   2.  -  E' intervenuto nel giudizio il Presidente del Consiglio dei
ministri,  rappresentato  e  difeso  dall'Avvocatura  generale  dello
Stato,  chiedendo  che  la  questione  sia dichiarata inammissibile e
comunque infondata.
   La  difesa erariale ritiene che la questione sia inammissibile per
«manifesta  non  rilevanza»  sotto  un duplice profilo. Innanzitutto,
l'autoassegnazione  del  processo  al  Giudice rimettente - nella sua
qualita'  di  Presidente  del Tribunale «f.f.» - non sarebbe rituale.
Infatti,  la  procedura  informale di consultazione nell'ambito della
quale  si  sarebbero manifestate le intenzioni di astensione da parte
dei vari giudici, secondo la difesa, «pur se ispirata a comprensibili
criteri  “pratici”»,  appare,  per un verso, in contrasto
con  la  disciplina  dell'art. 36 cod. proc. pen. e, per l'altro, con
«la  disciplina  in  materia  di  previsioni  tabellari  dell'ufficio
giudiziario  competente  per  territorio».  Inoltre,  a  parere della
difesa,  lo  stesso  rimettente  nel ritenere che «l'applicazione del
meccanismo  fissato negli artt. 36 e 43 cod. proc. pen. permetterebbe
di  realizzare  lo  stesso  risultato  (spostamento  della competenza
territoriale)     senza     giungere     alla     dichiarazione    di
incostituzionalita' della norma» e, al contempo, nel considerare tale
soluzione inadeguata «sotto il profilo della intollerabile incertezza
che  si avrebbe nella determinazione del giudice competente», avrebbe
obliterato  una  lettura  costituzionalmente  orientata  della norma,
formulando   una   richiesta  di  avallo  interpretativo  alla  Corte
costituzionale,   come   tale   inammissibile  e  avrebbe  omesso  di
considerare  che  analoga questione e' stata gia' esaminata e risolta
dalla  Corte  costituzionale,  secondo cui «le altre situazioni nelle
quali  si possa in concreto dubitare della imparzialita' del giudice,
in  ragione  di rapporti personali, innestati sul rapporto d'ufficio,
possono  e  debbono  trovare soluzione ricorrendo agli istituti della
astensione  e  ricusazione,  egualmente  preordinati a garantire tale
indefettibile imparzialita'» (sentenza n. 381 del 1989).
   Nel   merito,   l'Avvocatura   generale   dello   Stato   sostiene
l'infondatezza  della questione atteso che la Corte costituzionale ha
ritenuto  che  la  disposizione  in esame fonda «le ragioni di deroga
alle ordinarie regole di competenza sulla necessita' di assicurare la
serenita'  e  obiettivita'  dei  giudizi nonche' l'imparzialita' e la
terzieta'  del  giudice,  con  riferimento  all'esigenza di eliminare
presso   l'opinione   pubblica  qualsiasi  sospetto  di  parzialita',
determinato   da   un   rapporto   di   colleganza  e  dalla  normale
frequentazione   tra   magistrati   operanti   in  uffici  giudiziari
appartenenti  al  medesimo  distretto di Corte di appello» (ordinanza
n. 462  del  1997).  Alla  luce  di tale orientamento, a parere della
difesa  erariale,  non  sussiste  nella  situazione  prospettata  dal
rimettente   quella   identita'   di   ratio   che   giustificherebbe
l'estensione della regola prevista dall'art. 11 cod. proc. pen. anche
alle  ipotesi  in  cui il prossimo congiunto del magistrato assuma la
qualita'  di  imputato,  danneggiato  o  persona  offesa del reato in
procedimenti che rientrino nella competenza di un ufficio giudiziario
compreso  nel  distretto  della  Corte  di  Appello  in cui lo stesso
esercita  le  proprie  funzioni o le esercitava al momento del fatto.
Ne',  a  parere della difesa erariale, la scelta legislativa compiuta
nell'art.  11  cod.  proc.  pen.  appare  irragionevole atteso che la
natura  dei  rapporti  di  colleganza e di normale frequentazione fra
magistrati che operano in uffici giudiziari dello stesso distretto e'
diversa  rispetto  alla  relazione  di  mera parentela tra magistrati
stessi e altri soggetti che, come nel caso in esame, possono assumere
la   qualita'   di   parte  nei  procedimenti  penali  di  competenza
dell'ufficio  giudiziario  compreso  nel  distretto  in  cui opera il
magistrato.  La  valenza soggettiva del vincolo parentale, secondo la
difesa  erariale,  non sembra costituire un elemento, anche dal punto
di  vista  psicologico,  capace  di  per  se'  di poter esercitare un
concreto  condizionamento  sull'immagine di imparzialita' e terzieta'
del  giudice,  la  cui serenita' e obiettivita' appare garantita, tra
l'altro,  anche  dalla  sempre  maggiore  attenzione che i mass media
riservano all'ordine giudiziario. Del resto, a proposito dell'art. 11
cod. proc. pen., la Corte costituzionale ha affermato che nelle altre
situazioni  «solo  il  legislatore  puo'  stabilire […] quando
ricorra  quell'identita'  di  ratio  che  imponga l'estensione pura e
semplice  del  criterio di cui all'art. 11 cod. proc. pen. - come del
resto  esso  ha  gia'  ritenuto  relativamente  alle  controversie in
materia  di  danno  arrecato dai magistrati nell'esercizio delle loro
funzioni  (v.  artt.  4  e  8 della legge 13 aprile 1988, n. 117) - e
quando,  invece,  quella ratio non ricorra affatto o sia realizzabile
attraverso  la  previsione  di  un  foro derogatorio appropriato alla
specifica materia» (sentenza n. 51 del 1998).
   A   parere   dell'Avvocatura   generale   dello   Stato,   infine,
l'estensione  dell'ambito della deroga prevista dalla norma impugnata
potrebbe comportare il rischio di dilatare irragionevolmente l'ambito
della  deroga  cosi'  «da  potersi  tradurre  nella  incompetenza  di
qualsiasi ufficio giudiziario, sino al punto di non rendere possibile
l'esercizio della stessa giurisdizione» (sentenza n. 381 del 1999).
                       Considerato in diritto
   1.  - Il Giudice dell'udienza preliminare del Tribunale di Ferrara
ha  sollevato,  in  riferimento  agli artt. 3, 24, 25, primo comma, e
111,  secondo  comma,  della  Costituzione, questione di legittimita'
costituzionale  dell'art.  11  del  codice di procedura penale, nella
parte  in  cui  «non  prevede  che la sua disciplina si applichi pure
quando  la  qualita'  di  persona  sottoposta  ad indagini, imputato,
persona  offesa  o  danneggiata  dal reato sia assunta da un prossimo
congiunto  di  un  magistrato  che  esercita le proprie funzioni o le
esercitava  al  momento  del fatto in un ufficio giudiziario compreso
nel  distretto  di Corte di appello che sarebbe competente secondo le
ordinarie regole».
   Ad  avviso  del  rimettente, la norma si porrebbe in contrasto, in
primo  luogo,  con  l'art.  3  Cost.,  atteso  che  la  disparita' di
trattamento tra i soggetti in essa considerati e i prossimi congiunti
renderebbe   la   norma   denunciata   «priva  di  giustificazione  e
ragionevolezza sussistendo in relazione a questi soggetti le medesime
esigenze di garanzia e di tutela dell'imparzialita' e della terzieta'
(e  relativa  immagine) del giudice che sorreggono la ratio dell'art.
11  cod.  proc.  pen.  sia  con  riferimento  ai  diretti interessati
(imputati,   soggetti   sottoposti   ad   indagini,  persone  offese,
danneggiati)  che  rispetto  alla  collettivita' nel suo insieme». Il
Giudice  a quo richiama in proposito - quali termini di paragone - le
numerose  ipotesi  nelle  quali  la  legge  processuale  estende alla
categoria  dei  prossimi  congiunti  la  disciplina  prevista  per  i
magistrati.
   In  secondo  luogo,  a  parere  del  Giudice  rimettente, la norma
contrasterebbe  con  l'art. 24 Cost., poiche' «le circostanze, i temi
di  prova,  le  fonti di prova, le relazioni interpersonali che in un
normale  processo  vengono  addotti  dall'interessato avendo riguardo
esclusivamente   alla   propria   causa,   potrebbero   dover  essere
impropriamente   riesaminati   alla   stregua   della  peculiarissima
condizione  in  cui  il  soggetto  del  processo viene a trovarsi per
effetto del suo rapporto di parentela», con l'effetto di nuocere alla
capacita' del giudice di mantenersi terzo e imparziale.
   In  terzo  luogo, secondo il Giudice a quo, la norma denunciata si
porrebbe  in  contrasto con l'art. 25, primo comma, Cost., atteso che
ricondurre la questione in esame ad un «problema di incompatibilita',
astensione  o ricusazione potrebbe far dipendere l'individuazione del
giudice   competente   dal  soggettivo  apprezzamento  da  parte  dei
magistrati  dell'ufficio  in  ordine  alla ricorrenza di quelle gravi
ragioni   di   convenienza  che  potrebbero  portare,  attraverso  il
meccanismo  delle  astensioni  a  catena,  a  produrre  l'effetto del
trasferimento  del  processo  nella  sede  determinata ai sensi degli
artt.  11  e  43  cod.  proc.  pen.». Con la conseguenza - osserva il
rimettente  -  che  l'imputato prossimo congiunto «non sarebbe mai in
grado  di  sapere  preventivamente chi sara' il suo giudice naturale,
tale  determinazione  non potendosi effettuare ex ante ma soltanto ex
post  a seguito dell'interpello dei singoli magistrati dell'ufficio»,
che  dovranno valutare «l'esistenza di ragioni di convenienza tali da
indurli  all'astensione,  con  tutte  le  singole  varianti del caso,
soggettive  ed  arbitrarie, e conseguente eventuale trasferimento del
processo nella sede individuata dall'art. 11 cod. proc. pen.».
   Infine,  a  parere  del Giudice rimettente la norma contrasterebbe
con  l'art. 111, secondo comma, Cost., poiche' l'omessa previsione di
derogare  alla  competenza territoriale, nell'ipotesi di processi nei
confronti   di   prossimi   congiunti  del  magistrato  operante  nel
distretto,  produrrebbe un'apparenza di parzialita' e non neutralita'
del giudice.
   2. - Va innanzitutto disattesa l'eccezione, sollevata dalla difesa
dello  Stato,  di inammissibilita' della questione per «irritualita'»
dell'autoassegnazione  del  processo da parte del Giudice rimettente.
Questa  Corte  ha  gia'  affermato  che la violazione dei criteri per
l'assegnazione  degli  affari  o l'applicazione distorta degli stessi
non  produce  effetti processuali e non puo' incidere sulla rilevanza
della  questione  di legittimita' costituzionale della norma (si veda
la sentenza n. 419 del 1998).
   3.  -  Va  parimenti  disattesa l'eccezione secondo cui il Giudice
rimettente     non     avrebbe     compiuto    una    interpretazione
costituzionalmente   orientata  della  norma  impugnata,  ma  avrebbe
chiesto  alla  Corte  la  conferma  della propria interpretazione. Il
rimettente,  in  effetti,  non  chiede  alla Corte un'interpretazione
della  norma,  ma  un  ampliamento della sua portata, sul presupposto
dell'irrimediabile illegittimita' costituzionale della norma stessa.
   4. - La questione non e' fondata con riferimento all'art. 3 Cost.
   4.1.  -  Questa  Corte  ha  gia'  dichiarato  la non fondatezza di
analoghe  questioni  di legittimita' costituzionale dell'art. 11 cod.
proc.  pen., poste con riferimento all'art. 3 Cost., sotto il profilo
sia  della  asserita  manifesta irragionevolezza, sia della lamentata
disparita' di trattamento. Dopo avere rilevato che la norma impugnata
pone  un'eccezione alla regola generale della competenza territoriale
ancorata  al  luogo del commesso reato (sentenza n. 381 del 1999), la
Corte  ha  respinto  le  censure  volte  ad  ampliare o a restringere
l'ambito di applicazione della deroga, negando che l'ampliamento o il
restringimento richiesti fossero imposti dalla Costituzione. La Corte
ha  escluso l'illegittimita' della mancata estensione della deroga ad
ipotesi  relative agli iscritti all'albo degli avvocati del distretto
cui  appartiene  l'ufficio  giudiziario  competente  per  il giudizio
(ordinanza  n. 462  del  1997)  e ai collaboratori di cancelleria che
prestino servizio nello stesso ufficio giudiziario cui appartengono i
magistrati giudicanti (ordinanza n. 570 del 2000).
   Come  non  sono  manifestamente irragionevoli queste scelte, cosi'
non lo e' quella di non attribuire rilievo, ai fini della deroga alla
competenza  territoriale, alla sussistenza di un vincolo di parentela
con  uno  dei  giudici di un ufficio compreso nello stesso distretto.
Cio'  va  affermato  a maggior ragione, se si considera che la deroga
non  riguarda la persona del giudice, bensi' l'ufficio giudiziario ed
il  suo collegamento con la cognizione del reato (sentenza n. 349 del
2000).
   Anche  nel  caso  in  esame il Giudice rimettente pone a raffronto
situazioni  disomogenee tra loro e, quindi, non comparabili. Infatti,
la relazione di parentela tra magistrati e altri soggetti che possono
assumere  la  qualita'  di  persona sottoposta ad indagini, imputato,
ovvero  di  persona  offesa  o danneggiata dal reato nel processo, e'
diversa  dal  rapporto di colleganza tra magistrati a cui e' ancorata
la deroga posta dalla norma censurata.
   4.2.  - La questione di legittimita' costituzionale non e' fondata
neppure con riferimento all'art. 24 Cost.
   La censura avanzata dal rimettente, infatti, muove dall'apodittica
premessa secondo cui «la peculiarissima condizione in cui il soggetto
del  processo  viene  a  trovarsi  per  effetto  del  suo rapporto di
parentela» finirebbe inevitabilmente per riverberarsi, negativamente,
sul suo diritto a “difendersi provando” nel processo.
   In  primo  luogo,  tale censura appare contraddire quella relativa
all'art.  3  Cost.,  la  quale  prospetta  una  lesione del principio
dell'imparzialita'  del  giudice,  che  potrebbe  andare  a vantaggio
dell'imputato.
   In  secondo  luogo,  la  stessa censura - lungi dal denunciare, in
ragione  di  un'alterazione  delle  ordinarie regole processuali, una
effettiva  e  concreta  lesione  dei diritti e delle garanzie posti a
tutela  dell'imputato  nel processo - si risolve nell'enunciazione di
una   ipotizzata   situazione   di  fatto,  nell'ambito  della  quale
rivestirebbe    negativa   incidenza   il   rapporto   di   parentela
dell'imputato   stesso   con  il  magistrato  operante  nel  medesimo
distretto.   Cio'  non  puo'  concretare  la  lesione  dell'interesse
tutelato  dall'art.  24  Cost.  invocato.  Al contrario, la richiesta
estensione  della deroga alla competenza territoriale a tali rapporti
potrebbe   tradursi   «nella   incompetenza   di   qualsiasi  ufficio
giudiziario,  sino  a  non rendere possibile l'esercizio della stessa
giurisdizione» (sentenza n. 381 del 1999).
   4.3. - La questione di legittimita' costituzionale, infine, non e'
fondata  neppure  con  riferimento all'art. 25, primo comma, Cost., e
con riferimento all'art. 111, secondo comma, Cost.
   Secondo  il  rimettente,  l'obbligo  per  il giudice di astenersi,
previsto  nelle  ipotesi  in  cui  sussistano «altre gravi ragioni di
convenienza»,  a  norma  dell'art.  36, comma 1, lett. h), cod. proc.
pen., sarebbe soggettivo, incerto, preventivamente non conoscibile.
   Il  principio  stabilito dall'art. 25 Cost. e', invero, rispettato
quando,  come avviene nel caso in esame, il giudice e' predeterminato
ex  ante  ed  in  astratto  (sentenza n. 390 del 1991), mentre non e'
necessario che esso sia individuabile in base a criteri automatici. E
cio',   a   prescindere  dalla  circostanza  che  l'astensione  e  la
ricusazione  comportino  una  valutazione (rimessa sia al giudice sia
alle  parti),  non  esclude  che  tali  istituti siano finalizzati ad
assicurare  la terzieta' e imparzialita' del giudice (sentenza n. 381
del 1999).