Ordinanza
nel  giudizio  di  legittimita'  costituzionale  dell'art.  96, primo
comma,  del codice di procedura civile, promosso con ordinanza del 21
novembre  2007  dal  Tribunale  di  Ancona  nel  procedimento  civile
vertente  tra L. S. ed altra e A. G. ed altri, iscritta al n. 195 del
registro  ordinanze  2008 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della
Repubblica n. 27, 1ª serie speciale, dell'anno 2008.
   Visto  l'atto  di  intervento  del  Presidente  del  Consiglio dei
ministri;
   Udito  nella  camera  di consiglio del 19 novembre 2008 il Giudice
relatore Alfio Finocchiaro.
   Ritenuto che il Tribunale di Ancona - nel corso di un procedimento
civile avente ad oggetto la domanda di risarcimento danni da sinistro
stradale,  ritenuta  dal  giudicante  del  tutto  infondata,  per  la
illogicita'  della  dinamica dell'incidente fornita dall'attore - con
ordinanza  del  21  novembre  2007, ha sollevato, in riferimento agli
articoli  3,  24  e  111,  primo e secondo comma, della Costituzione,
questione  di  legittimita' costituzionale dell'art. 96, primo comma,
del  codice di procedura civile, nella parte in cui stabilisce che la
condanna per lite temeraria necessita della istanza di parte;
     che,  secondo  il rimettente, nella specie, ricorrerebbero tutti
gli  elementi per la configurabilita' della responsabilita' aggravata
ex  art. 96 cod. proc. civ., ma che, tuttavia, non avendo i convenuti
proposto  la  relativa  domanda,  non sussiste, alla stregua del dato
letterale dell'ordinamento positivo e della interpretazione dominante
della  citata  disposizione  codicistica,  alcuna possibilita' di una
condanna di ufficio;
     che  tale  mancata previsione arreca ai valori costituzionali di
ragionevolezza,  parita'  di  trattamento,  diritto  di  difesa ed ai
principi del giusto processo;
     che,  sotto  il  primo  profilo,  il  rimettente pone in luce la
esigenza   di   una   funzionalizzazione   della   previsione   della
responsabilita'  aggravata  di  cui  si  tratta a protezione non solo
dell'interesse del singolo, ma di tutti i consociati, e sottolinea il
rapporto  intercorrente, da un lato, tra l'art. 92, primo comma, cod.
proc.  civ., concernente il potere del giudice di escludere, anche di
ufficio, la ripetizione delle spese sostenute dalla parte vittoriosa,
e  l'art. 96, primo comma, cod. proc. civ., e, dall'altro, quello tra
l'art.  88  dello  stesso  codice, riguardante il dovere di lealta' e
probita'  che  incombe  alle parti del giudizio, ed il censurato art.
96,  riferito  ad  una  ipotesi  che  comporta  certamente  anche una
violazione di tale dovere;
     che,  nella  ordinanza di rimessione, si richiama, poi, il nuovo
testo  dell'art.  385  cod.  proc.  civ., introdotto dall'art. 12 del
d.lgs.  2  febbraio  2006,  n. 40  (Modifiche  al codice di procedura
civile in materia di processo di cassazione in funzione nomofilattica
e  di arbitrato, a norma dell'articolo 1, comma 2, della L. 14 maggio
2005,  n. 80),  con l'aggiunta di un quarto comma, che dispone che la
Corte  di cassazione, quando pronuncia sulle spese, condanna la parte
soccombente  al  pagamento,  a favore della controparte, di una somma
equitativamente  determinata  (non  superiore  al  doppio dei massimi
tariffari)  se  ritiene  che  essa  ha  proposto  il ricorso, o vi ha
resistito, anche solo con colpa grave;
     che  la  condanna  del  litigante temerario e' vista, secondo il
rimettente,  come  una  vera  e  propria  sanzione,  nel  suo aspetto
pubblicistico, e non come un risarcimento privatistico;
     che,  sotto  il  profilo del vulnus all'art. 24 Cost., si rileva
nella  ordinanza  che  esso  e'  stato  letto anche in funzione della
effettivita'   della   tutela   giurisdizionale  dalla  stessa  norma
riconosciuta,   cioe'  nell'ottica  della  possibilita'  concreta  di
ottenere un'adeguata risposta del giudice alle istanze del cittadino,
lese  da  un  sistema  processuale  dai  meccanismi  lenti e privi di
filtri;
     che  si  sottolinea  la  tendenza  di alcuni giudici di merito a
fornire  una  lettura  costituzionalmente orientata dell'art. 96 cod.
proc. civ., il quale, posto in correlazione con i principi del giusto
processo   costituzionalizzati   attraverso   la  nuova  formulazione
dell'art.  111  Cost., non sarebbe piu' inteso solo come tradizionale
strumento  risarcitorio  posto  a  tutela  di interessi privatistici,
inserendosi  nel  contesto  della  disciplina del danno aquiliano, ma
avrebbe   altresi'   una   funzione  sanzionatoria  di  una  condotta
riprovevole  e  dannosa  per  l'interesse della collettivita', che si
tradurrebbe anche in una agevolazione dell'onere della prova gravante
sul danneggiato;
     che,   sotto   tale   ultimo  profilo,  il  rimettente  richiama
l'orientamento  giurisprudenziale,  che  trae  origine dalle pronunce
della  Corte europea dei diritti dell'uomo, secondo il quale, in caso
di   danno  da  irragionevole  durata  del  processo,  la  prova  del
pregiudizio  e'  in re ipsa, nel senso che la sussistenza di un danno
morale viene considerata ordinariamente correlata alla protrazione di
qualunque  processo  oltre i limiti della sua ragionevole durata, con
la  conseguenza  che potrebbe concludersi nel senso che la domanda di
danni  per lite temeraria debba essere riferita, anche in mancanza di
ulteriori      specificazioni      dell'interessato,     al     danno
esistenziale/morale normalmente scaturente dalla domanda o resistenza
caratterizzata  dalla  mala  fede o colpa grave e che la liquidazione
del  danno ben potrebbe essere effettuata in applicazione della legge
24  marzo  2001,  n. 89  (Previsione  di  equa riparazione in caso di
violazione   del   termine   ragionevole   del  processo  e  modifica
dell'articolo 375 del codice di procedura civile);
     che,  in  definitiva, secondo il giudice a quo, l'art. 96, primo
comma,  cod.  proc.  civ.  si  porrebbe  in  contrasto, relativamente
all'inciso  «su istanza dell'altra parte»: a) con l'art. 3 Cost., per
la   lesione   del   principio   di   parita'  di  trattamento  e  di
ragionevolezza, in relazione ad alcune ipotesi di pronunce di ufficio
- come quelle di cui agli artt. 88 e 92 cod. proc. civ. - conseguenti
a  violazioni  di principi in parte coincidenti, e per la complessiva
irrazionalita'  di  un sistema che permette un indiscriminato accesso
anche  agli  utenti  che  intendano promuovere liti temerarie; b) con
l'art.  24  Cost.,  per  il vulnus al diritto di difesa del cittadino
determinato   dalla  possibilita'  che  i  ruoli  dei  giudici  siano
affollati  da cause temerarie, senza che il correttivo previsto dalla
legge    sia    congruo    rispetto    alla   finalita'   di   difesa
costituzionalmente  garantita,  rimettendosi  alla scelta del singolo
danneggiato   se   chiedere   l'affermazione   della  responsabilita'
aggravata,  laddove l'istituto in questione risponde soprattutto alla
esigenza   di   garantire  le  possibilita'  di  difesa  di  tutti  i
consociati,  che trascendono gli interessi dei singoli; c) con l'art.
111,  primo  comma,  Cost.,  non  potendo  il  processo  considerarsi
aderente  a  superiori principi di giustizia ove sia possibile usarlo
in  maniera  distorta,  senza  che  il giudice possa reagire anche ex
officio;  nonche' con il secondo comma dello stesso art. 111, essendo
alto  il  rischio  che il processo di cui si “abusa” vada
anche oltre la ragionevole durata stabilita dalla Costituzione;
     che  nel  giudizio  innanzi alla Corte ha spiegato intervento il
Presidente   del   Consiglio   dei   ministri,   con   il  patrocinio
dell'Avvocatura   generale  dello  Stato,  che  ha  concluso  per  la
infondatezza della questione;
     che,  secondo  la  difesa  erariale, non sussiste la prospettata
violazione  dell'art.  3 Cost., per il diverso ambito di applicazione
della  norma  impugnata  rispetto  agli artt. 88, 92 e 385 cod. proc.
civ.;
     che, quanto al lamentato vulnus, sotto altri profili, agli artt.
3,  24  e  111  Cost., l'Avvocatura generale osserva che il Tribunale
sovrappone due piani diversi tra loro, quello del diritto di difesa e
del   diritto  ad  un  giusto  processo  con  quello  attinente  alla
organizzazione  dell'attivita'  giurisdizionale, mentre il meccanismo
delineato  dall'art.  96 cod. proc. civ. si inserisce nell'ambito del
principio dispositivo.
   Considerato  che  il Tribunale di Ancona dubita della legittimita'
costituzionale  dell'art.  96,  primo  comma, del codice di procedura
civile  nella  parte  in  cui  stabilisce  che  la  condanna per lite
temeraria  necessita  della  istanza  di  parte,  per  violazione: a)
dell'art.  3  della  Costituzione,  per  la  lesione del principio di
parita'  di  trattamento  e di ragionevolezza, in relazione ad alcune
ipotesi  di  pronunce di ufficio - come quelle di cui agli artt. 88 e
92  cod.  proc.  civ. - conseguenti a violazioni di principi in parte
coincidenti,  e  per  la complessiva irrazionalita' di un sistema che
permette  un  indiscriminato  accesso anche agli utenti che intendano
promuovere  liti  temerarie; b) dell'art. 24 Cost., per il al diritto
di  difesa  del  cittadino determinato dalla possibilita' che i ruoli
dei  giudici  siano  affollati  da  cause  temerarie,  senza  che  il
correttivo  previsto  dalla legge sia congruo rispetto alla finalita'
di  difesa  costituzionalmente  garantita,  rimettendo  la  scelta al
singolo  danneggiato se chiedere l'affermazione della responsabilita'
aggravata,  laddove l'istituto in questione risponde soprattutto alla
esigenza   di   garantire  le  possibilita'  di  difesa  di  tutti  i
consociati,  che  trascendono gli interessi dei singoli; c) dell'art.
111,  primo  comma,  Cost.,  non  potendo  il  processo  considerarsi
aderente  a  superiori principi di giustizia ove sia possibile usarlo
in  maniera  distorta,  senza  che  il giudice possa reagire anche ex
officio;  del secondo comma dello stesso art. 111 Cost., essendo alto
il  rischio  che il processo di cui si “abusa” vada anche
oltre la ragionevole durata stabilita dalla Costituzione;
     che,  per  quanto  riguarda  la  pretesa  violazione dell'art. 3
Cost., sotto il profilo della diversita' di trattamento rispetto alle
fattispecie relative alla disciplina delle spese processuali, si deve
rilevare  che  si  tratta  di  ipotesi ontologicamente differenziate,
collocandosi  quella  in  questione  nell'area  della responsabilita'
civile, con conseguenti profili risarcitori, in relazione ai quali si
pongono  problemi  di  onere  probatorio  a  carico  del  richiedente
(nell'ambito  del principio dispositivo), laddove le norme richiamate
dal  rimettente riguardano deroghe al principio della soccombenza nel
giudizio quale criterio per la condanna alle spese processuali;
     che nessun pregio puo' riconoscersi alla comparazione instaurata
con   l'art.  385  cod.  proc.  civ.,  dettato  per  il  giudizio  di
legittimita',  che  e'  una norma diretta a disincentivare il ricorso
per cassazione, ed ha, pertanto, una ratio del tutto diversa rispetto
a quella dell'art. 96 cod. proc. civ.;
     che,  infine, inconferente appare il riferimento agli artt. 24 e
111   Cost.,   i   quali   hanno  riguardo  al  diritto  alla  tutela
giurisdizionale  ed  al  giusto processo, che, invece, non vengono in
discussione  nel  sistema delineato dall'art. 96 cod. proc. civ., che
ha finalita' risarcitoria e sanzionatoria;
     che, pertanto, la questione e' manifestamente infondata.
   Visti  gli  artt.  26,  secondo  comma, della legge 11 marzo 1953,
n. 87,  e  9,  comma 2, delle norme integrative per i giudizi davanti
alla Corte costituzionale.