LA CORTE D'APPELLO
    Ha  pronunciato  la seguente ordinanza nella causa civile in grado
 di appello, iscritta a ruolo in data 29 ottobre  1987  al  n.  589/87
 r.g.  promossa con atto di citazione notificato il 20 ottobre 1987 da
 Puecher Ermanno, rappresentato e  difeso  dall'avv.  Edda  Obexer  di
 Bolzano,  domiciliato  presso  l'avv.  Guido  Zoda  di Trento, giusta
 delega a margine dell'atto di  citazione,  appellante,  contro  Nindl
 Annamaria  in  Puecher, rappresentata e difesa dall'avv. Josef Thurin
 di Merano, domiciliata  presso  l'avv.  Franco  Larentis  di  Trento,
 giusta  delega  a  margine della comparsa di risposta, appellata, con
 l'intervento del p.g. presso questa corte di appello.
    Oggetto: separazione coniugi.
    Appello  avverso la sentenza del tribunale di Bolzano n. 759/1987.
    Causa  ritenuta  in decisione all'udienza collegiale del giorno 17
 ottobre 1989 sulle conclusioni:
      della  parte appellante: sentire riformare l'appellata sentenza,
 con vittoria di spese, diritti ed onorari;
      della   parte   appellata:   in   via   principale:  confermarsi
 l'impugnata sentenza con vittoria di spese, diritti ed onorari  anche
 del presente grado del giudizio;
      del p.g.: ritenuto che l'atto di citazione di appello notificato
 alla controparte nel termine di trenta giorni si converte in  ricorso
 per  la  fissazione dell'udienza in camera di consiglio come previsto
 dalla legge n. 74/1987 chiede che  il  collegio  fissi  l'udienza  in
 c.d.c. Nel merito conclude per la conferma dell'impugnata sentenza.
                               F A T T O
    Con  sentenza  19  giugno  1987  del  tribunale  di Bolzano veniva
 dichiarata la separazione personale dei  coniugi  Puecher  Ermanno  e
 Nindl Annamaria.
    Con tale decisione venivano affidati i figli alla madre alla quale
 veniva  pure  attribuito  il  diritto  di  abitare  nell'appartamento
 familiare  con  imposizione  a  carico  del  marito della somma di L.
 500.000 mensili che doveva essere corrisposta alla moglie a titolo di
 mantenimento.
    La  sentenza  e' stata impugnata dal Puecher il quale ha censurato
 la decisione nel punto in cui gli e'  stato  inibito  il  diritto  di
 vigilanza sui figli.
    Sull'appello  presentato nella forma di atto di citazione la Corte
 si e' riservata la decisione in esito all'udienza collegiale camerale
 del 17 ottobre 1989.
                             D I R I T T O
    Questa  Corte  ha  gia'  avuto  modo, in altre precedenti cause di
 separazione, di denunciare di incostituzionalita' le  norme  suddette
 della legge n. 74/1987 laddove stabiliscono che l'appello deve essere
 deciso in camera di consiglio. Nella presente causa la  Corte  si  e'
 riservata  in  esito all'udienza collegiale camerale, la decisione il
 cui contenuto e' condizionato dalla validita' (costituzionale) o meno
 delle citate norme.
    Se  esse sono valide devesi entrare nel merito della causa e su di
 esso  decidere  mentre,  se  non  son  valide,  a  pena  di  nullita'
 dell'emittenda sentenza, dovra' disporsi la rinnovazione dell'udienza
 collegiale, ma non in forma camerale, bensi' in  quella  pubblica  di
 discussione.  La questione di costituzionalita' e' quindi "rilevante"
 in causa.
    Vi  e'  poi un ulteriore ed autonomo motivo di rilevanza in causa.
 Infatti  le  impugnazioni  con  il  rito  camerale  vanno  introdotte
 mediante  ricorso  (depositato  nel  termine)  e  non  con  citazione
 (notificata nel termine).
    Nella specie il Puecher ha depositato il proprio atto di citazione
 oltre il trentesimo giorno dalla notificazione della sentenza.
    Conseguentemente  se  e'  valida  la  normativa che impone il rito
 camerale  (rito  che  sarebbe  assurdo  restringere  alla  sola  fase
 collegiale   finale,  in  quanto  non  si  vedrebbe  lo  scopo  utile
 dell'innovazione)     dovrebbe     dichiararsi     l'inammissibilita'
 dell'impugnazione del Puecher.
    Passando   all'esame   della  "non  manifesta  infondatezza  della
 questione" si osserva in primo luogo che con la normativa in  oggetto
 viene  a  cadere  la figura del c.i. per cui tutta l'istruttoria, ivi
 compresa l'eventuale probatoria  viene  eseguita  da  tre  magistrati
 anziche'  da  uno,  con  effetti  controproducenti  ai fini di quella
 celerita' che la nuova legge intende assicurare.
    Non  puo'  non  rilevarsi,  poi,  che  la pubblicita' dell'udienza
 collegiale puo' essere  rinunciata  dal  legislatore  ordinario  solo
 eccezionalmente  per  obbiettiva e razionale giustificazione (cfr. da
 ultimo Corte costituzionale 16 febbraio 1989, n. 50).  Non  sembra  a
 questa  corte  che,  nella  materia delle separazioni personali o dei
 divorzi,  tali  giustificazioni   esistessero.   Le   necessita'   di
 sollecitudine  non bastano; altri, infatti, sono i rimedi processuali
 idonei a dar luogo a corsie preferenziali: ad  es.  codificazione  di
 priorita' di trattazione, oppure procedure contenziose particolari.
    Lo  stesso  fatto  che,  per  il  primo  grado  sia  risultato  al
 legislatore ancora necessaria la forma contenziosa contraddice la non
 necessita' di essa per il secondo grado. Tanto piu' che poi, il grado
 di Cassazione il processo torna ad essere contenzioso.
    E  tanto  piu'  appare  irrazionale  se  si rileva che le maggiori
 garanzie del contenzioso vengono meno proprio nel grado ultimo  della
 cognizione  in  punto  di  fatto  e  cioe' nel grado piu' incisivo di
 "merito".
    Tali rilievi finiscono col riflettersi sull'intera scelta del rito
 camerale in luogo di quello naturale contenzioso  di  appello,  fatta
 dal  legislatore  (rif.  artt.  3,  primo comma, e 24, secondo comma,
 della Costituzione). Ferma di principio la facolta'  del  legislatore
 di  trasferire  alla  trattazione camerale anche materia di contenuto
 contenzioso, si ritiene che l'esercizio  della  facolta'  stessa  non
 possa essere privo di limiti.
    Ora  sembra  al  collegio che la scarna normativa del camerale sia
 insufficiente a ricevere e regolare  processi  tipicamente  altamente
 conflittuali  e  complessi  quale  quello in cui si debbono accertare
 "addebitabilita'" della separazione personale, ecc.
    Tanto  piu'  se  un  grado  e' disarticolato, per il diverso rito,
 dall'altro.
    Ne'  la  formula "il giudice puo' assumere informazioni" contenute
 nell'art. 738, terzo comma, del c.p.c. e'  idonea  (se  non  mediante
 evidente  forzatura) a consentire il normale esercizio della facolta'
 di prova.
    La  Corte  costituzionale  lo  ha  gia'  detto rispetto ad analoga
 formula contenuta in altra legge (cfr. Corte costituzionale 10 luglio
 1975,  n.  202).  L'art.  4, dodicesimo comma, in esame, non solo non
 introduce la piena facolta' di ordinaria prova  (e  non  estende  con
 razionale  conseguente  parallelismo anche al primo grado la facolta'
 di  atipiche  informazioni)  ma  neppure   stabilisce   quali   norme
 procedurali    debbano    governare    questi    processi   d'appello
 (rilevabilita' o no  d'ufficio  dei  motivi,  specificita'  di  essi,
 impugnazione  incidentale, preclusioni varie sia in ordine alle prove
 nuove che alle nuove incombenze varie).
    Se  la  introduzione del rito camerale in appello significasse che
 le norme ivi da applicarsi rimangono  quelle  del  rito  contenzioso,
 salva  solo  la fase finale del grado, non si vedrebbe quale utilita'
 pratica possa avere indotto il legislatore a  una  tale  riforma,  la
 quale   finirebbe   soltanto  con  l'abolire  la  precisazione  delle
 conclusioni e la pubblicita' della successiva discussione.
    Se,  invece,  come  ritiensi,  ora  deve  intendersi  che le norme
 procedurali  applicabili  in  appello  non  sono  piu'   quelle   del
 contenzioso, si constata che non si dice, nel dodicesimo comma, quali
 esse siano; e questa  appare  una  genericita'  tale  da  non  essere
 ordinatamente  colmabile con l'interpretazione (cioe' una genericita'
 tale da produrre vizio di costituzionalita' della norma).