IL TRIBUNALE
    Visti   gli  atti  del  procedimento  penale  a  carico  di  Magri
 Elisabetta, generalizzata ed imputata come da atti;
                      RITENUTO IN FATTO E DIRITTO
    L'art. 4 della legge n. 516/1982, nel prevedere al punto 7 del suo
 primo comma la condotta di chi rediga (tra l'altro) la  dichiarazione
 annuale   dei  redditi.  .  .  "dissimulando  componenti  positivi  o
 simulando componenti negativi del  reddito",  le  attribuisce  penale
 significazione  sol  quando  la  stessa sia stata tale da alterare in
 misura rilevante il risultato della dichiarazione stessa.
    E,  ben  ovviamente,  spetta  al  giudice valutare la rilevanza di
 quella  alterazione  al  fine  di  stabilire  la  ricorrenza  o  meno
 dell'antigiuridicita'  - sotto il profilo penale - di quella condotta
 connessiva od omissiva che sia.
    Per  la  formulazione d'un siffatto giudizio (che si risolve nella
 mera valutazione di un quantum) il giudice non puo'  far  ricorso  ad
 alcun  criterio di natura integrativa o sussidiaria magari offertogli
 da norme concorrenti (di legge o  regolamentari)  ovvero,  come  pura
 talvolta  potrebbe  verificarsi,  da  regole  di  comune e ben sicura
 esperienza (si pensi  all'ipotesi  criminosa  di  cui  all'art.  116,
 secondo   comma,   del   r.d.   21   dicembre   1933,  n.  1736,  per
 l'individuazione della cui ricorrenza risulta  d'obbligo  il  ricorso
 all'art.  133  del c.p., ovvero all'ipotesi criminosa di cui all'art.
 72 della legge n. 685/1975 per l'individuazione della cui ricorrenza,
 con  riferimento  alla "modica" quantita', risulta agevole il ricorso
 all'esperienza mutuabile dalle piu' comuni  acquisizioni  in  materia
 clinico-tossicologica e medico-legale.
    E   se,   quindi,  in  subiacta  materia,  il  giudizio  (rectius:
 valutazione) del giudice e' disancorato - per sua stessa natura -  da
 ogni  criterio  di  sicuro  riferimento  va  da se' che la previsione
 penale in argomento ha carattere di indeterminatezza ed  il  relativo
 giudizio  finisce  inevitabilmente  per  rivelarsi arbitrario e, come
 tale, ne' voluto ne' dovuto.
   Al   giudice,  verrebbe,  cioe'  attribuita  non  una  funzione  di
 interpretazione nella norma (tipica del suo ministero), bensi' quella
 di  posizione  della  norma  stessa.  A ben vedere, infatti, la ratio
 sottostante alla norma in argomento appare essere  non  quella  della
 persecuzione   sempre   e   comunque   dell'infedelta'   fiscale  del
 contribuente  bensi'  quella  della  persecuzione  di   un   siffatto
 comportamento  sol quando la dimensione assunta dallo stesso sia tale
 da risultare intollerabile da parte della collettivita' e, come tale,
 meritevole di adeguata reprimenda.
    Attribuire  percio'  al  giudice  il  compito  di stabilire se sia
 "rilevante" l'alterazione del risultato  dell'infedele  dichiarazione
 significa   in  definitiva  conferirgli  una  funzione  di  carattere
 normativo che non puo' e non deve esser ritenuta sua propria:  quella
 di  stabilire  non  "se"  un  comportamento  umano  abbia  o  meno  a
 costituire reato per la sua corrispondenza al modello legale astratto
 della  relativa  fattispecie incriminatrice speciale, bensi' "quando"
 un siffatto comportamento, in relazione alle esigenze di tutela degli
 interessi  della  collettivita',  possa e debba esser riguardato come
 reato e cioe', come fatto penalmente rilevante.
    Ebbene  questo  tipo di valutazione e' proprio del legislatore cui
 in  via  esclusiva  va  attribuito  il  potere-dovere  di  stabilire,
 facendosi  interprete  delle  ragioni  e  delle  esigenze  del  corpo
 sociale,  se  e  quando  una   umana   condotta   risultti   talmente
 pregiudizievole da meritare i rigori della reprimenda penale.
    La  conseguenza e', in un siffatto distorto sistema di usurpazione
 di competenze, che ai  consociati  non  viene  proposto  un  precetto
 chiaro  e  determinato dal quale discenda un preciso loro obbligo, di
 fare o di non fare, bensi' un imperativo  nebuloso  e  dal  contenuto
 incerto  che non consente a chiunque dei suoi naturali destinatari di
 adeguare  in  senso  corretto  la  propria  condotta,  in  quanto  la
 statuizione   normativa   in  parola  viene  ad  acquistare  corpo  e
 specificazione non gia' in  tal  momento  dalla  sua  statuizione  ed
 espressione  ma soltanto da quello successivo della sua applicazione.
 In buona sostanza, cioe' il cittadino fiscalmente "infedele",  sapra'
 che  la  sua  condotta  integra estremi di reato non dalla preventiva
 lettura della norma ma dalla successiva determinazione del giudice.
    Ne'  quest'ultimo perverra' (per tutto quanto in precedenza detto)
 alla determinazione stessa in modo facile.
    Basti  riflettere  al  fatto che la "rilevanza" di cui e' discorso
 puo' essere intesa in una duplice eccezione: quale valore  in  se'  e
 quale  valore  rapportato  al  complessivo  della  dichiarazione  dei
 redditi (ancorche' quest'ultima appaia la piu' probabile).
    Orbene,  se  la si riguarda quale valore in se', occorrera' che il
 giudice stabilisca quale sia l'entita' (da tradursi in una  cifra  di
 denaro) della "simulazione" o "dissimulazione"; la si riguarda' quale
 valore riferito al complesso della dichiarazione ancora una volta  il
 giudice   dovra',   sulla   scorta  dell'esclusivo  e  personale  suo
 intendimento,  quale  rapporto  (anch'esso  traducibile  in  numerica
 espressione)  debba intercorrere tra l'entita' di quanto nella specie
 simulato (o dissimulato) e l'entita' della dichiarazione. In entrambi
 i  casi,  comunque,  il  cittadino apprendera' sol dopo aver posto in
 essere la sua condotta, quale diverso  atteggiamento  avrebbe  dovuto
 tenere.
    Altrettanto    ovvia    (e   necessariamente   derivata)   e'   la
 considerazione che in siffatta situazione e per naturale  portato  di
 cose  si  creeranno  a danno dei cittadini non tanto e non solo delle
 abnormi sperequazioni di trattamento quanto e soprattutto una vera  e
 propria moltiplicita' di previsioni normative (tante quante saranno i
 diversi intendimenti dei  vari  giudici  al  cuo  vaglio  decisionale
 verranno sottoposte le singole fattispecie maturate nella pratica).
    Se  cosi' e', appare di tutta evidenza che la norma in esame (art.
 4, primo comma, n. 7, della legge n. 516/1982) cosi' come formulata e
 strutturata  si  pone  in deciso contrasto con gli artt. 25 e 3 della
 Costituzione  perche'  collide  in  modo  vistoso  con   i   principi
 rispettivamente  conclamati  in quei citati articoli di "legalita'" e
 di "uguaglianza".
    Quanto al primo di detti principi, vale osservare, preliminarmente
 come la stessa Corte costituzionale (v. sentenza 29 aprile  1982,  n.
 79, in Giur. Cost. 1982, I, 712) abbia stabilito che "il principio di
 legalita'. . . implica una stretta riserva di legge  che  postula  la
 specificazione  del fatto previsto come reato; in questa affermazione
 e' dato di cogliere la sottolineatura del principio di "tassativita'"
 (principio  nel  quale  quello  di  legalita' si articola), che ha da
 intendersi quale dovere del  legislatore  di  precedere,  al  momento
 della  creazione  della  norma,  ad  una precisa determinazione della
 fattispecie legale, affinche' risulti tassativamente  stabilito  cio'
 che  e'  penalmente  lecito  e  cio'  che e' penalmente illecito e di
 quello che, derivato  e  conseguente,  di  "tipicita'"  dell'illecito
 penale   stesso,   principio   risaputamente  posto  a  tutela  della
 ragionevolezza  e  coerenza  dell'esercizio  del  potere  legislativo
 sicche' costituisce indizio sintomatico della sua violazione non gia'
 l'esistenza di  uno  spazio  interpretativo  attribuito  al  giudice,
 bensi' l'ambiguita' esplicita o latente della valutazione normativa e
 l'eccessiva   estensione   dell'area   dei   comportamenti    storici
 abbracciati dalla previsione normativa stessa.
    Nella  surricordata  decisione la Corte ha, tra l'altro, osservato
 che a base del principio di tassativita' sta in primo luogo l'intento
 di  evitare arbitri nell'applicazione di misure limitative. . . della
 liberta' personale ed ha affermato che per effetto di tale  principio
 e'  onere  della  legge  penale  quello di determinare la fattispecie
 criminosa con  connotati  precisi,  in  modo  che  l'interprete,  nel
 ridurre  un'ipotesi  concreta alla norma di legge, possa esprimere un
 giudizio di corrispondere sorretto da fondamento controllabile; e  la
 stessa  Corte  ha  aggiunto  che  tale onere richiede una descrizione
 intellegibile  della  fattispecie  astratta,  sia   pure   attraverso
 l'impiego di espressioni indicative e di valore e risulta soddisfatto
 fintantoche' nelle norme penali vi sia riferimento a fenomeni la  cui
 possibilita'  di  realizzazione sia stata accertata in base a criteri
 che  allo  stato  delle  attuali  conoscenze  appaiono  verificabili,
 sicche'  ove  abbia a difettare un simile accertamento, "l'impiego di
 espressioni intelligibili non sia piu' idoneo ad adempiere  all'onere
 di   determinare   la   fattispecie   in   modo   da  assicurare  una
 corrispendenza tra  fatto  storico  che  concretizza  un  determinato
 illecito ed il relativo modello astratto".
    Orbene,  nel caso di specie, per la gia' asserita indeterminatezza
 della formula legislativa (le "espressioni indicative"  sono  ridotte
 al  mero  aggettivo  "rilevante"  e quelle "di valore" sono del tutto
 assenti), manca proprio ogni e qualsiasi possibilita'  di  assicurare
 e,  quindi,  di  verificare la "corrispondenza" affermata dalla Corte
 tra  il  fatto  dell'infedelta'  fiscale  del  contribuente   ed   il
 corrispondente "modello".
    E  sorprende  non  poco  (ed  anzi  corrobora il convincimento del
 collegio sul punto) il poter constatare come nel corpo  della  stessa
 legge n. 516/1982 siano previste (artt. 1 e 2) figure di reato per la
 determinazione della configurabilita' si e' fatto  ricorso  da  parte
 del  legislatore  a  ben  precisi  ed articolati parametri di valore,
 sicche'   ancor   piu'   risulta   incomprensibile   e    censurabile
 l'indeterminatezza  invece  ricorrente  nella previsione della figura
 criminosa di cui all'art. 4 della legge medesima.
    Quanto  al  secondo  dei citati principi (quello di cui all'art. 3
 della Costituzione), s'e' gia' detto  che  le  pronunce  dei  giudici
 sulle   svariate  fattispecie  concrete  sottoposte  al  loro  vaglio
 decisorio  risultano   necessariamente   tali   da   realizzare   una
 sostanziale  condizione  di  disuguaglianza tra imputato ed imputato:
 alcuno di essi puo' esser condannato per un'evasione di valore minore
 ed  altri  assolti per un'evasione di valore maggiore, senza che alla
 base di siffatta disuguaglianza sia comunque rinvenibile qualsivoglia
 spunto di ragionevolezza|
    Ed  infatti  pure  a  volere,  a  mero titolo di esemplificazione,
 ipotizzare che il reato si configuri quando  il  reddito  dissimulato
 sia  pari  a  quello  dichiarato (ma potrebbe benissimo ipotizzare il
 doppio, il triplo etc.), verrebbe a verificarsi una situazione per la
 quale  il dissimulatore d'una fonte di reddito di L. 10.000.000 e che
 abbia esposto un reddito a quella somma almeno superiore non verrebbe
 punito, mentre lo sarebbe che avesse dissimulato un reddito inferiore
 ai citati 10 milioni ma corrispondente o magari superiore al  reddito
 da se' dichiarato. Non v'e' chi non veda che una siffatta conclusione
 (ben  possibile  nell'attuale  realta'  normativa  da  un   lato   e'
 giurisdizionale  dall'altro)  e'  aberrante  ed  in  contrasto con lo
 stesso ratio legis che,  richiamandosi  a  quanto  prima  detto,  non
 consiste nella individuazione e persecuzione da parte del legislatore
 della  maggiore  o  minore   "disonesta'   individuale"   riguardante
 attraverso un'ottica di tipo soggettivo ed ispirata a canoni di etica
 comportamentale,  bensi'  nell'individuazione  d'un   preciso   danno
 sociale  e nella valutazione della sua tollerabilita' o meno da parte
 della collettivita' secondo una visuale doverosamente  oggettiva  che
 e' l'unica a poter determinare un risultato di uguaglianza e, quindi,
 di sostanziale giustizia.
    Tutto   quanto   sopra   ritenuto  e  premesso,  la  questione  di
 costituzionalita' della norma di cui all'art. 4, primo comma,  n.  7,
 nella parte in cui non prevede un preciso limite di valore rimettendo
 ogni determinazione all'incontrollabile arbitrio del giudice, non  e'
 manifestamente  infondata  ed  e'  rilevante  per  la definizione del
 procedimento  in  corso  come  l'imputazione   rivolta   alla   Magri
 Elisabetta nel suo stesso letterale tenore rende evidente, sicche' il
 procedimento stesso andra' sospeso con  rimessione  degli  atti  alla
 Corte  costituzione  perche'  la  stessa  abbia  a pronunziarsi sulla
 sollevata questione.