IL TRIBUNALE MILITARE Ha pronunciato la seguente ordinanza nel procedimento penale a carico di D'Addazio Biagio, nato il 31 luglio 1970 a Penne (Pescara), e residente a Riva di Pinerolo (Torino) in via Maestra, 2, recluta, effettivo all'11 btg ftr. "Casale" in Casale Monferrato (Alessandria), arrestato il 3 novembre 1989, imputato del reato di: "rifiuto del servizio militare di leva" (art. 8 secondo comma della legge 15 dicembre 1972, n. 772, come sostituito dall'art. 2 della legge 24 dicembre 1974, n. 695) perche', chiamato alle armi e presentatosi il 3 novembre 1989 al btg. ftr. "Casale" in Casale Monferrato (Alessandria) cui era destinato per adempiere ai propri obblighi militari, il 3 novembre 1989 rifiutava, prima di assumerlo, il servizio militare di leva adducendo imprescindibili motivi di coscienza, e di contrarieta' personale in ogni circostanza all'uso delle armi, a causa delle proprie convinzioni religiose di appartenere al credo dei "Testimoni di Geova" e rifiutava altresi' di richiedere l'eventuale ammissione ai servizi sostitutivi di quello militare di leva, previsti dalla legge sulla obiezione di coscienza. O S S E R V A Con sentenza n. 409 depositata il 18 luglio 1989 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale del 26 successivo la Corte costituzionale ha dichiarato l'illeggittimita' costituzionale dell'art. 8, secondo comma, della legge 15 dicembre 1972, n. 772, "nella parte in cui determina le pena edittale ivi comminata nella misura minima di due anni anziche' di quella di sei mesi e nella misura massima di quattro anni anziche' in quella di due anni"; Evidente il contenuto "legislativo" della decisione, espresso chiaramente dalla Corte stessa in conclusione di motivazione: "A seguito delle precedenti considerazioni la pena edittale per il delitto di cui al secondo comma dell'art. 8 della legge n. 772 del 1972 va fissata tenuto conto della pena edittale comminata dall'art. 151 del c.p.m.p. nella misura di sei mesi nel minimo e di due anni nel massimo". La Corte costituzionale con la sentenza in esame ha del tutto abbandonato l'orientamento (vedasi le sentenze nn. 42 e 102 del 1977; 151, 152 e 155 del 1980; 73 e 137 del 1981; 71 del 1983) secondo il quale, ricercando i limiti alla potesta' normativa che le deriva dal regime degli effetti delle sentenze di accoglimento, aveva escluso di poter emettere, in materia penale, sentenze "manipolative" o "sostitutive", ostandovi i principi costituzionali di legalita' e tassativita' della pena. Gia' in precedenza (sentenze nn. 26/1979, 103/1982, 173/1984 e 102/1985 in materia di insubordinazione e di abuso di autorita') la Corte costituzionale, dichiarando l'illegittimita' della sanzione aveva suggerito all'interprete, peraltro solo nella parte motiva della decisione, di reperire, per i precetti che aveva mantenuto in vita, le sanzioni contenute nella legge penale comune, chiaramente cosi' applicando un procedimento analogo. Dopo un periodo nel quale la giurisprudenza di merito ha adottato le soluzioni piu' varie (integrando i precetti con le pene previste dal codice penale per i reati contro la persona, contro la pubblica amministrazione, con quelle previste dal codice penale militare o ritenendo i reati stessi caducati, con le conseguenze del caso) la Corte di cassazione, richiamando le posizioni gia' assunte nel 1974, con la sentenza 26 maggio 1984, c. Sommella, a sezioni unite ha affermato che le proposizioni precettive residuali dopo i citati interventi ablativi della Corte costituzionale sugli artt. 186 e 189 del c.p.m.p. sono prive di rilevanza giuridica in quanto prive dell'indicazione della pena operata direttamente dal legislatore: per il principio di legalita' posto dall'art. 14 preleggi, 25, secondo comma, della Costituzione e 1 del c.p. deve escludersi la rilevanza penale di un precetto - o di una fattispecie - se il collegamento del precetto - o della fattispecie - con la sanzione non e' stabilito dalla legge. Il collegamento precetto-sanzione e' stato effettuato dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 409/1989 direttamente nel dispositivo, solo con un rinvio all'entita' ma non al tipo di pena, che nell'art. 151 del c.p.m.p. e' quella della reclusione militare. Anche cosi', tuttavia, l'interprete potrebbe giungere ad affermare, seguendo gli orientamenti gia' formulati da giurisprudenza (vedasi Cass. civ. 7 luglio 1978, n. 3372) e dottrina, che, alla luce del carattere meramente normativo-negativo attribuibile alle decisioni della Corte costituzionale, solo la parte ablativa e' vincolante erga omnes, mentre la parte manipolativa-ricostruttiva-legislativa ha il valore di mero orientamento interpretativo. E cio' sopratutto sarebbe valido in materia penale, ove vigono i principi di legalita', tassativita', e il connesso divieto di ragionamento analogico. Inoltre la sostituzione della pena edittale operata dalla Corte con la sentenza n. 409/1989 sembra inconciliabile - essendo la prefissazione in positivo del trattamento sanzionatorio attivita' squisitamente politica, di esclusiva competenza del legislatore - con il disposto dell'art. 28, legge 11 marzo 1953, n. 87, secondo il quale: "Il controllo di legittimita' della Corte costituzionale su una legge o un atto avente forza di legge esclude ogni valutazione di natura politica ed ogni sindacato sull'uso del potere discrezionale del Parlamento". Il tribunale si e' pertanto posto il problema se ritenere semplicemente abrogato l'art. 8, secondo comma, della legge n. 772/1972 per effetto della dichiarata incostituzionalita' della pena edittale in esso prevista, con la conseguente ipotizzabilita' dei reati volta a volta posti in essere dall'obiettore, non presentandosi alle armi nei cinque giorni dal termine fissato (mancanza alla chiamata, art. 151 del c.p.m.p.) oppure rifiutando di indossare l'uniforme una volta giunto al reparto (disobbedienza, art. 173 del c.p.m.p.). A tale soluzione sembra opporsi la categoricita' del dispositivo della sentenzza n. 409/1989, con il quale la Corte impone una chiara, inequivoca sostituzione di pena edittale in una norma espressamente dichiarata ancora vigente. Ma se l'art. 8, secondo comma, della legge n. 772/1972 deve ritenersi tuttora vigente, e' evidente che si tratta di una norma ricostruita, nuova (in tal senso, per la norma che risulta dalla parziale incostituzionalita', Cass., 30 marzo 1976, c. Carloni), con l'inefficacia propria delle fonti primarie, e come tale soggetta al vaglio della Corte costituzionale. Per valutare appieno se la nuova norma penale contenuta nell'art. 8 citato contrasti o meno con principi costituzionali - sotto il profilo delle fonti e della ragionevolezza - occorre esaminare brevemente le motivazioni della sentenza n. 409/1989. Escludendo ogni valutazione in ordine alle ragioni che hanno spinto la Corte a dichiarare irragionevole il precedente trattamento sanzionatorio, le quali in questa sede non possono essere messe in discussione, vediamo come il giudice delle leggi sia giunto, da un lato a richiamare le pene previste per la mancanza alla chiamata, dall'altro a giustificare la sostituzione di queste a quelle originariamente previste nell'art. 8, secondo comma, della legge n. 772/1972. La Corte, al fine di non essere vincolata dal divieto contenuto nel citato art. 28 della legge n. 87/1953, ha affermato che essa ". . . nel riferire la sanzione penale di cui al secondo comma dell'art. 8 della piu' volte citata legge a quella edittalmente prevista per il delitto di cui all'art. 151 del c.p.m.p. non fa che vincolatamente attuare, anche per il fatto di cui al ricordato secondo comma dell'art. 8, la valutazione che il legislatore opera in ordine al disvalore dello stesso (od analogo) fatto di cui all'art. 151 del c.p.m.p.". La Corte in precedenza aveva affermato, in sede di comparazione del trattamento sanzionatorio, che il reato di rifiuto ex art. 8 e la mancanza alla chiamata, "pur subiettivamente diversificati, ledono, con modalita' oggettive analoghe, uno stesso interesse, quello ad una regolare incorporazione degli obbligati al servizio di leva nell'organizzazione militare, (. . .) non puo' non sottolinearsi la lesione, con analoghe modalita' oggettive, da parte di entrambi i fatti delittuosi, d'uno stesso bene giuridico. D'altra parte, il rimprovero di colpevolezza che si muove al soggetto attivo del delitto previsto dal secondo comma dell'art. 8 della legge in esame, non potendo, certo, essere quello d'aver addotto, a giustificazione (o spiegazione) del delitto commesso, motivi di coscienza, risulta identico (od almeno analogo) a quello mosso al militare che manca alla chiamata ex art. 151 del c.p.m.p., e' cioe' quello d'aver dolosamente leso l'interesse statale alla normale incorporazione nell'organizzazione militare. Va, pertanto, qui ribadito che l'adduzione di motivi di coscienza (come, del resto, di qualsiasi scelta ideologica) non puo', in nessun caso, condurre alla davvero sproporzionata (rispetto a quella ex art. 151 del c.p.m.p.) sanzione penale di cui al secondo comma dell'art. 8 della legge n. 772/1972". La sentenza poi cosi' continua: "si tenga conto che e' il legislatore che, nel codice penale militare di pace, ha liberamente e discrezionalmente scelto la disciplina sanzionatoria adeguata al disvalore del fatto di cui allo stesso articolo; disciplina applicabile a tutti i soggetti e quali che siano i moventi, i motivi dell'azione delittuosa. Non puo' lo stesso legislatore, nell'art. 8, secondo comma, della legge n. 772/1972, irrazionalmente contraddire la valutazione in precedenza operata (in generale e senza tener tipicamente conto dei motivi dell'azione criminosa) e valutare in maniera tanto diversa il disvalore dello stesso (od analogo) fatto sol perche' commesso adducendo uno specifico motivo: quello di coscienza". Il tribunale, alla luce delle interpretazioni della giurisprudenza in merito ai due reati posti a raffronti, deve escludere che l'interesse tutelato e le modalita' della lesione dello stesso siano nei due casi identiche e quindi che la scelta operata dalla Corte fosse l'unica possibile, vincolata, e percio' non di esclusiva competenza del legislatore. Infatti la mancanza alla chiamata, consistente nell'omessa presentazione alle armi nei cinque giorni successivi al termine assegnato, tutela la regolare incorporazione - sotto il profilo delle modalita' sia di tempo sia di luogo - dell'arruolato nel reparto militare al quale e' stato destinato. Le motivazioni del "ritardo" possono rilevare solo ai fini della quantificazione della pena ex art. 133 del c.p., salvo che il militare, cessata l'assenza arbitraria, dichiari che la stessa era determinata da motivi "di coscienza" (religiosi, filosofici, morali, di contrarieta' personale in ogni circostanza all'uso delle armi) e affermi cosi' il suo rifiuto globale e definitivo al servizio militare: in tale ultima ipotesi la giurisprudenza ha ravvisato un concorso apparente di norme e la sussistenzza del solo reato di rifiuto ex art. 8, della legge n. 772/1972. E' evidente che sia l'elemento psicologico sia la condotta del reato di rifiuto sono ben diversi, investendo non una modalita' (la tempestiva presentazione alle armi) bensi' l'obbligo del servizio militare globalmente considerato e dello stesso servizio non armato o civile sostitutivo, non richiesti o non concessi: ne consegue una ben differente gravita' della lesione o una oggettiva diversita' dell'interesse protetto, ricollegabile anche al piu' generico dovere di solidarieta' sociale violato. Accanto a questa forma di rifiuto, posta in essere con un'omissione e con l'adduzione dei motivi, vi e' la piu' comune disobbedienza che l'incorporato nei primi giorni di servizio realizza rifiutando di indossare l'uniforme per i tipicizzati motivi di coscienza, disobbedienza che, senza l'adduzione dei motivi tipici, integrerebbe solo la fattispecie di cui all'art. 173 del c.p.m.p.: anche in questo caso le modalita' oggettive della lesione dell'interesse protetto (che non e' quello di una regolare incorporazione, gia' avvenuta, bensi' quello piu' generale di svolgimento dell'intero servizio militare) sono completamente differenti rispetto a quelle riscontrabili nella mancanza alla chiamata. La lesione non solo dell'interesse "a una regolare incorporazione degli obbligati al servizio di leva nell'organizzazione militare", bensi' anche del servizio di leva globalmente inteso, meglio si ritrova nel reato, commissibile anche dagli arruolati ma non ancora incorporati (reato di competenza dei tribunali militari e sul quale la Corte costituzionale con la sentenza n. 112/1986 aveva ritenuto, pur occupandosi di altro problema, di non muovere alcun appunto sotto il profilo della ragionevolezza della pena edittale) di procurata infermita' al fine di sottrarsi permanentemente all'obbligo del servizio militare, ex art. 157 c.p.m.p., punibile con la reclusione da sei a quindici anni. Infine identita' di interesse protetto e' ancor piu' ravvisabile nel reato di rifiuto del servizio militare non armato, ex art. 8, primo comma, della legge n. 772/1972, reato nei cui confronti la Corte con la sentenza n. 470/1989, pur occupandosi di un presupposto per la commissibilita' dello stesso - la superiore durata del servizio non armato - ha ritenuto di non sollevare, neppure come monito per il legislatore, alcun dubbio sulla congruita' della pena (da due a quattro anni di reclusione, identica a quella originariamente contenuta nel secondo comma dello stesso articolo) Alla luce delle sopraesposte considerazioni il tribunale non puo' che escludere che la scelta operata dalla Corte nella sentenza n. 409/1989 per determinare la nuova pena edittale per il reato di rifiuto ex art. 8 della legge n. 772/1972, sia stata una scelta "vincolata", l'attuazione della volonta' e delle valutazioni di disvalore gia' espresse dal legislatore in ordine all'unico termine di paragone possibile, secondo la Corte, e cioe' il reato di mancanza alla chiamata. Il tribunale ritiene, quindi, non manifestamente infondata l'eccezione di legittimita' costituzionale - che solleva d'ufficio - dell'art. 8 della legge n. 772/1972, cosi' come modificato dalla sentenza n. 409/1989 della Corte costituzionale, in quanto la Corte stessa ha operato una modificazione di una norma penale sostituendosi al legislatore nella scelta fra piu' soluzioni possibili, in violazione dell'art. 28 della legge n. 87/1953, nonche' del principio di legalita' e tassativita' dei reati e delle pene e del connesso divieto di analogia quali si ricavano dagli artt. 14 preleggi e 25, secondo comma, della Costituzione. Ulteriore eccezione di legittimita' costituzionale il tribunale ritiene di dover sollevare d'ufficio in ordine al predetto art. 8 quale risulta dopo l'intervento ricostruttivo della Corte costituzionale, per violazione degli articoli 3 e 27, terzo comma della Costituzione, essendosi determinate, a causa dell'intervento necessariamente parziale e settoriale del giudice delle leggi, ingiustificate differenze e irragionevoli equiparazioni di trattamento sanzionatorio, il quale nell'art. 8 citato non risulta proporzionato al disvalore del fatto illecito commesso e non adempie alle funzioni di difesa sociale, rieducazione, prevenzione e dissuasione - scopi che deve perseguire la pena, cosi' come ribadito dalla Corte costituzionale con la sentenzza n. 107/1980 - ed anzi, tenuto conto dei ricollegabili effetti estintivi penali e amministrativi, concorre forse ad incentivare la commissione di tale tipo di reato. Infatti, come in precedenza evidenziato, ben differente e' la gravita' del reato ex art. 8 della legge n. 772/1972, lesivo del servizio di leva nel suo complesso stante la globalita' e definitiva del rifiuto, ricavabili dalla mera adduzione dei motivi tipici, rispetto alla semplice mancanza alla chiamata, lesiva unicamente del regolare e tempestivo inizio del servizio di leva: tuttavia, in conseguenza della sentenza n. 409/1989, ora per entrambe le fattispecie e' irrogabile la reclusione militare dai sei mesi a due anni. Per la mancanza alla chiamata sono applicabili circostanze aggravanti specifiche (artt. 152 e 154, n. 1 del c.p.m.p.) non estensibili al reato di rifiuto, ex art. 8 citato. Inoltre, prima dell'intervento modificativo del solo trattamento sanzionatorio da parte della Corte costituzionale il legislatore, in una visione globale d'insieme aveva predisposto, a fronte di una pena edittale piu' elevata, meccanismi per incentivare la rieducazione del condannato e comunque per evitare la "spirale delle condanne": tali accorgimenti non sono invece applicabili al condannato per mancanza alla chiamata. Ne consegue che ora, a parita' di pena edittale, e' piu' favorito colui che oppone un rifiuto globale del servizio di leva motivandolo - anche se falsamente - con i motivi tipici (il quale, dopo un giustificato direttissimo, un breve periodo di detenzione e l'affidamento in prova presso un ente civile - ex legge n. 167/1983 - non avra' piu' obblighi di leva, salvo che si sia pentito chiedendo di svolgere il servizio, e allora, se la domanda sara' stata accettata, il reato commesso sara' estinto e la detenzione scomputata dal servizio di leva) rispetto a colui che commetta una mancanza alla chiamata per piu' prosaici ma veri motivi famigliari o di lavoro il quale, una volta espiata la pena (senza possibilita' di pentirsi con gli effetti sopraevidenziati) dovra' poi ancora compiere l'intero servizio di leva. Sempre irragionevolmente troppo lieve risulta l'attuale pena comminata dall'art. 8, secondo comma, della legge n. 772/1972, se raffrontata alla pena tuttora prevista (e, come gia' evidenziato, mai censurata dalla Corte costituzionale neppure a livello di consiglio al legislatore, come invece in altri casi e' avvenuto) per i reati di rifiuto del servizio militare non armato - tutelante identici interessi - e di rifiuto del servizio civile sostitutivo - da ritenersi quantomeno di pari gravita' - di cui al primo comma dello stesso articolo. Qualora poi si intenda trarre una coerente applicazione del principio espresso nella sentenza n. 409/1989 dalla Corte costituzionale, secondo il quale l'adduzione di motivi di coscienza (come del reato di qualsiasi scelta ideologica) non puo' determinare una sproporzione di pena come quella prevista dall'art. 8 citato rispetto all'art. 151 del c.p.m.p., si deve affermare la sussistenza di un ulteriore momento di irragionevolezza. Infatti identica, se non piu' grave, sporporzione emerge ora, dopo la modifica giurisprudenziale delle sanzioni contenute nell'art. 8 della legge n. 772/1972, tra queste ultime e la pena edittale prevista dall'art. 173 del c.p.m.p. per il reato di disobbedienza. Come si e' gia' detto, nella quasi totalita' dei casi l'obiettore di coscienza si presenta regolarmente al reparto, viene incorporato e, al momento di indossare l'uniforme, rifiuta di obbedire all'ordine, ponendo cosi' in essere la condotta tipica del reato di disobbedienza: se non motiva il rifiuto o adduce motivi non tipici ad esempio politici - sara' passibile di una pena da un mese ad un anno di reclusione militare, altrimenti dovra' ritenersi realizzato il reato di rifiuto, comportante la pena della reclusione da sei mesi a due anni. Nel procedimento in corso le questioni di legittimita' sopraesposte appaiono non solo non manifestamente infondate, bensi' anche rilevanti, comportando la cassazione dell'art. 8, secondo comma, della legge n. 772/1972, cosi' come modificato dalla Corte, la punibilita' del fatto ascritto all'imputato ai sensi dell'art. 173 del c.p.m.p., e quindi l'applicazione di una pena minore, non potendo rivivere l'originaria pena (da due anni a quattro anni di reclusione) definitivamente espunta dall'ordinamento con la citata sentenza n. 409/1989. Infine, anche se si volesse circoscrivere l'indagine nell'ottica del troppo lieve trattamento sanzionatorio - sia sotto il profilo dell'irragionevolezza sia sotto quello della lesione del principio della rieducazione - e quindi ritenere denunziata una norma in favore, mentre da un lato l'accoglimento dovrebbe comportare lo stesso risultato ablativo e gli stessi effetti piu' favorevoli, dall'altro lato il tribunale ritiene che le questioni debbano essere comunque sollevate, sussistendo la rilevanza sotto il triplice profilo evidenziato dalla stessa Corte costituzionale con la sentenza n. 148/1983.