LA CORTE D'APPELLO Ha pronunciato la seguente ordinanza nella causa civile iscritta a ruolo in data 11 novembre 1988 al n. 561/88 r.g. e promossa con atto di citazione in appello notificato in data 4 novembre 1988 da Miori Romeo, rappresentato e difeso dagli avvocati Sandro Canestrini di Rovereto e Daniela Botteri di Trento, quest'ultima domiciliataria, per delega a margine dell'atto di citazione di appello, appellante, contro Kusar Antonia, rappresentata e difesa dall'avv. Patrizio Molesini di Trento, domiciliato, per delega in calce alla copia notificata del ricorso introduttivo e pedissequo decreto presidenziale, appellata, con l'intervento del p.m. di questa corte d'appello. Oggetto: separazione coniugale. Appello avverso la sentenza del tribunale di Trento n. 619/88 r.g. Causa ritenuta in decisione all'udienza collegiale del 21 novembre 1989. F A T T O Il tribunale di Bolzano, con sentenza 16 agosto 1988, n. 619 (notificata 5 ottobre 1988) ha pronunciato la separazione personale dei coniugi, con rigetto delle reciproche domande di "addebito" e con affidamento dei figli minori alla convenuta madre. Con atto di citazione di appello notificato 4 novembre 1988 (iscrizione a ruolo depositata li' 11 novembre 1988) l'attore ha proposto impugnazione avanti a questa corte d'appello. Ha chiesto l'addebito alla moglie. Questa, costituitasi, ha chiesto l'addebito al marito. Precisate le conclusioni avanti al cons. istr., seguiva udienza collegiale camerale. Il p.m., intervenutovi, ha chiesto denucia di incostituzionalita' (alla quale la difesa della appellata si e' associata). D I R I T T O L'udienza collegiale si e' svolta con rito camerale ex artt. 8 e 23 della legge 6 marzo 1987, n. 74. Cio' premesso, rilevasi che, secondo il cod. proc. civ., tutte le decizioni dei giudici collegiali avvengono in camera di consiglio (artt. 276 e 737 del c.p.c.). Di conseguenza, secondo questa corte, la espressione contenuta nel dodicesimo comma del nuovo art. 4 della legge n. 898/1970 come mod. dalla legge n. 74/1987 ("L'appello e' deciso in camera di consiglio"), per avere un reale contenuto, va intesa nel senso che la "impugnazione" (v. conferma in art. 23, terzo comma, stessa legge n. 74/1987) e quindi tutta la conseguente procedura segue il rito camerale, anziche' il normale contenzioso. A questo punto, osservasi che, col rito camerale, le impugnazioni vanno introdotte mediante ricorso (depositato nel termine) e non mediante citazione (notificata nel termine). Nella specie, l'appellante Miori Romeo ha depositato il proprio atto di citazione (ammettesi: l'atto di citazione e' "conservabile" come ricorso e l'iscrizione a ruolo vale come diposito di esso) oltre il termine predetto cioe' oltre il trentesimo giorno dalla notificazione della sentenza (cfr. data sopra). Il che, se e' valida la normativa suddetta che impone il rito camerale, comporterebbe inammissibilita' dell'impugnazione del Miori, con impedimento ad entrare nel merito di essa. Passando, ora, dall'esame della "rilevanza" della questione di costituzionalita', a quello della "non manifesta infondatezza" di essa, osservasi che la pubblicita' dell'udienza collegiale (rif. art. 101, primo comma, della Costituzione) puo' essere rinunciata, dal legislatore ordinario, soltanto eccezionalmente; per obbiettiva e razionale giustificazione (cfr. da ultimo Corte costituzionale 16 febbraio 1989, n. 50). Non sembra a questa corte, che, nella materia delle separazioni personali e dei divorzi, tali giustificazioni esistessero. Le necessita' di sollecitudine non bastano: altri infatti sono i mezzi processuali idonei a dar luogo a corsie preferenziali: ad es. codificazione di priorita' di trattazione, oppure procedure contenziose particolari. Lo stesso fatto che, per il primo grado, sia risultato al legislatore ancora necessaria la forma contenziosa, contraddice la non necessita' di essa per il secondo grado. Tanto piu' che poi, in grado di Cassazione, il processo torna ad essere contenzioso. E tanto piu' che appare irrazionale che le maggiori garanzie del contenzioso vengano meno proprio nel grado ultimo della cognizione in punto di fatto, e cioe' nel grado piu' incisivo di "merito". Distintamente osservasi che tali rilievi finiscono col riflettersi sull'intera scela del rito camerale in luogo di quello naturale contenzioso d'appello, fatta dal legislatore (rif. artt. 3, primo comma, 24, secondo comma, della Costituzione). Ferma, di principio, la facolta' del legislatore di trasferire alla trattazione camerale anche materie di contenute contenzioso, ritiensi che l'esercizio della facolta' stessa non possa essere privo di limiti. Ora, sembra al collegio che la scarna normativa del camerale sia insufficiente a ricevere e regolare processi titpicamente altamente conflittuali e complessi quale quello in cui si debbano accertare "addebitabilita'" di separazione personale ecc. Tanto piu' se un grado e' disarticolato, per il diverso rito, dall'altro. La formula "Il giudice puo' assumere informazioni" contenuta nell'art. 738, terzo comma, del c.p.c. e' inidonea (se non mediante "evidente forzatura") a "consentire il normale esercizio di facolta' di prova": la Corte costituzionale lo ha gia' detto rispetto ad analoga formula contenuta in altra legge (cfr. Corte costituzionale 10 luglio 1975, n. 202). L'art. 4 mod. dodicesimo comma in esame, non solo non introduce la piena facolta' di ordinaria prova (e non estende, con razionale conseguente parallelismo, anche al primo grado la facolta' di atipiche "informazioni") ma neppure stabilisce quali norme procedurali debbano governare questi processi d'appello (rilevabilita' o no d'ufficio dei motivi, specificita' di essi, disciplina dell'impugnazione incidentale, disciplina delle preclusioni varie, assumibilita' delle prove da parte di un consigliere istruttore, e, se fuori sede, da parte di un pretore all'uopo delegato, ecc. ecc.). Se la introduzione del rito camerale, in appello significasse che le norme ivi da applicarsi rimangono quelle del rito contenzioso salva solo la fase finale del grado, ripetesi che non si vedrebbe quale utilita' pratica possa avere indotto il legislatore ad una tale riforma la quale praticamente finirebbe soltanto con l'abolire la pubblica discussione finale. Se, invece, come ritiensi, ora deve intendersi che le norme procedurali da applicarsi in appello non sono piu' quelle del contenzioso, constatasi che non si dice, nel dodicesimo comma stesso, quali esso siano; e questa appare una genericita' di grado talmente elevato da non essere ordinatamente colmabile con l'interpretazione: una genericita' di grado tale da produrre vizio di costituzionalita' della norma per la eccessiva discrezionalita' rimessa ai giudici art. 24 della Corte costituzionale, e per le conseguenti inevitabili disparita' applicative art. 3 della Costituzione.