IL TRIBUNALE Ha pronunciato la seguente ordinanza nel procedimento penale contro Esposito Giuseppe, nato a Catanzaro il 5 aprile 1948, residente in Garessio, via Valcasotto n. 31 (dom. ex art. 171 del c.p.p.), difeso di fiducia dall'avv. Vittorio Bassino di Mondovi', libero, non comparso, imputato del reato di cui all'art. 4, primo comma, n. 7, legge 7 agosto 1982, n. 516, poiche', a scopo di evasione fiscale, in qualita' di presidente del consiglio di amministrazione e rappresentante della S.r.l. "Edil-Valle", redigeva la dichiarazione annuale dei redditi per l'anno di imposta 1983 dissimulando componenti positivi di reddito (ricavi per L. 15.784.000) tali da alterare in misura rilevante il risultato della dichiarazione. Accertato in Mondovi', il 1 settembre 1986. All'udienza del ventitre novembre 1989 l'imputato ha chiesto la definizione del processo con il rito abbreviato di cui all'art. 438 del c.p.p.; la difesa si e' associata alla richiesta ed ha sollevato questione di legittimita' costituzionale dell'art. 247 disp. att. del c.p.p. nella parte in cui - relativamente ai procedimenti in corso alla data di entrata in vigore del nuovo codice di procedura penale - in contrasto con l'art. 3 della Costituzione, limitata l'ammissibilita' del rito abbreviato ai procedimenti nei quali non siano state ancora compiute le formalita' di apertura del dibattimento. Il pubblico ministero ha ritenuto rilevante e non manifestamente infondata l'eccezione d'illegittimita' costituzionale dell'art. 247 disp. att. del c.p.p. Per valutare la fondatezza della questione di legittimita' costituzionale sollevata dalla difesa, e' necessario innanzitutto esaminare la natura giuridica dei procedimenti speciali previsti dal libro sesto del nuovo codice di procedura penale e, precisamente, se essi hanno natura processuale o sostanziale. Il giudizio abbreviato e l'applicazione della pena su richiesta delle parti prevedono da un lato una diversa e piu' rapida procedura di definizione del processo, dall'altro una rilevante diminuzione della pena ed altre conseguenze giuridiche piu' favorevoli al reo (v. art. 445, relativamente all'esclusione dell'applicazione di pene accessorie e di misure di sicurezza e della condanna al pagamento delle spese processuali nonche' all'estinzione del reato). Qualunque definizione si accolga della norma processuale penale, e' indubbio che i c.d. riti speciali introdotti dal nuovo codice di procedura, poiche' non si limitano soltanto a diciplinare l'accertamento della notizia criminis, le attivita' esperite nel processo dai soggetti processuali e le forme degli atti processuali, ma incidono direttamente sulla quantificazione della pena, sull'applicabilita' di pene accessorie e misura di sicurezza e sulla estinzione del reato, hanno natura penale sostanziale. Il problema non e' nuovo nel nostro ordinamento poiche' tali riti hanno natura giuridica identica ed altri istituti ben noti, quali l'oblazione e l'applicazione di sanzioni sostitutive su richiesta dell'imputato prevista dall'art. 77 della legge 24 novembre 1981, n. 689. Nessuno ha mai posto in dubbio che gli istituti dell'oblazione o del c.d. "patteggiamento" ex art. 77 della legge n. 689/1981, abbiano natura penale sostanziale, anche se le forme e le modalita' per esservi ammessi sono diciplinate da norme processuali. Alle medesime conclusioni deve pervenirsi per i procedimenti previsti dagli artt. 438 e 444 del c.p.p. La riduzione della pena e gli altri benefici che da essi conseguono hanno natura sostanziale. Le norme, invece, che disciplinano le forme in cui debbono essere esperiti hanno natura processuale. L'art. 2, terzo comma del c.p. stabilisce il principio generale che nel caso di successioni di leggi penali deve applicarsi "quella le cui disposizioni sono piu' favorevoli al reo, salvo che sia stata pronunciata sentenza irrevocabile". La migliore dottrina, che questo pretore condivide, ha posto in risalto che dalla lettura congiunta dei primi tre commi dell'art. 2 del c.p. si evince che il nostro sistema penale non accoglie, come comunemente si ripete, il principio della irretroattivita', bensi' il principio superiore che al reo e' assicurato il trattamento piu' favorevole tra quelli stabiliti dalla legge a partire dalla commissione del fatto e sino alla sentenza irrevocabile irrevocabile. Tale principio superiore, ispirato al favor libertatis, si specifica poi in quello della irretroattivita' nel primo comma, in quello della retroattivita' (anche oltre la sentenza irrevocabile) nel secondo comma, in quello della legge piu' favorevole nel terzo comma. Alcuni Autori, dalla degradazione della irretroattivita' a semplice corollario di un principio superiore, argomentano che il legislatore costituzionale nel momento in cui nell'art. 25, secondo comma - recependo una lunga e consolidata tradizione storica degli stati liberali (v. art. 8 della "Dichiarazione dei diritti dell'uomo e del cittadino" del 1789) - ha accolto il principio della irretroattivita' della legge penale, ha necessariamente, sia pure implicitamente, recepito anche il principio piu' generale che ne e' il fondamento. Da cio' si e' dedotto che le disposizioni materialmente, anche se non formalmente, costituzionali, con la conseguenza che la loro modifica o deroga comporterebbe il procedimento aggravato di revisione costituzionale. Anche se la conseguenza a cui questi Autori pervengono in un sistema di costituzione rigida non appare condivisibile, e' certo che il principio dell'applicabilita' della legge piu' favorevole, posto dai primi tre commi dell'art. 2 del c.p., incidendo sullo status libertatis e sui diritti fondamentali del cittadino, ha rilevanza costituzionale per cui la sua eventuale deroga deve essere giustificata da ragioni aventi pari rilevanza costituzionale. Stabilito che i riti speciali di cui agli artt. 438 e 444 del c.p.p. costituiscono disposizioni penali sostanziali piu' favorevoli all'imputato, ne deriva che - ai sensi dell'art. 2 del c.p. - la loro applicabilita' non puo' essere limitata ai procedimenti iniziati successivamente al 24 ottobre 1989, data in cui il nuovo codice e' entrato in vigore, ma dovrebbe essere estesa a tutti i procedimenti pendenti in tale data. Il principio dell'applicabilita' del trattamento piu' favorevole al reo e' stato accolto soltanto parzialmente del nuovo codice processuale. Gli artt. 247 e 248 delle disposizioni di attuazione, infatti, da un lato estendono i riti speciali ai procedimenti in corso, dall'altro ne limitano l'ammissibilita' a quelli nei quali non sono state ancora compiute le formalita' di apertura del dibattimento. Il problema di costituzionalita' riguarda appunto tale limitazione. La difesa ha sostenuto che essa determina una ingiustificata disparita' di trattamento tra gli imputati, a seconda se - per un fatto del tutto accidentale ed indipendente dalla loro volonta' - le formalita' di apertura siano o non siano state compiute. Per giungere ad una corretta soluzione e' necessario analizzare se la limitazione introdotta negli artt. 247 e 248 e' ragionevole e se e' posta a tutela di un interesse avente pari rilevanza costituzionale di quello dell'applicabilita' della legge piu' favorevole. Si assume che poiche' nel nuovo sistema processuale il giudizio abbreviato e l'applicazione della pena a richiesta delle parti hanno la funzione di giungere alla rapida definizione dei processi e la riduzione della pena costituisce solo un incentivo per l'imputato affinche' chieda tali riti, ingiustificato sarebbe stato estenderne l'ammissibilita' ai procedimenti pendenti, il cui iter - con l'apertura del dibattimento - sia giunto ad un punto tale da rendere non piu' apprezzabile il beneficio di una loro rapida definizione: che il nuovo sistema processuale abbia attribuito ai riti speciali la funzione di rendere piu' rapida la definizione dei processi ed alla riduzione della pena la funzione di incentivarne la richiesta, e' certamente vero. Che tutto cio' sia stato previsto allo scopo di assicurare, mediante la definizione rapida del maggiore numero di processi in camera di consiglio, la celebrazione dei dibattimenti con il rito accusatorio, e' ugualmente vero. Cio' nulla toglie, pero', che tali istituti hanno attribuito all'imputato un vero e proprio diritto soggettivo di chiedere tali riti e di ottenere la conseguenziale riduzione della pena indipendentemente dalla loro adozione. L'art. 448 prevede, in caso di dissenso del p.m. che il giudice ritenga ingiustificato, che la riduzione della pena puo' essere concessa anche nel giudizio d'impugnazione. Cio' prova che anche nel caso in cui il sistema processuale non abbia tratto alcun beneficio dal rito speciale, in quanto si e' gia' celebrato interamente il giudizio di primo grado e l'appello, ugualmente l'imputato conserva il suo diritto di ottenere la riduzione della pena accessorie e delle misure di sicurezza. Questa conseguenza e' giustificata dalla considerazione che i riti speciali, se esaminati dal lato del sistema processuale costituiscono un mezzo per giungere alla rapida definizione dei processi, visti dal lato dell'imputato costituiscono un vero e proprio diritto soggettivo per ottenere la riduzione della pena. Non appare ragionevole, pertanto, la giustificazione secondo cui gli artt. 247 e 248 avrebbero limitato l'ammissibilita' ai procedimenti pendenti in cui non siano state ancora compiute le formalita' di apertura per la considerazione che - oltre questo termine - il sistema processuale non ne avrebbe tratto alcun beneficio. Questa giustificazione, oltre ad essere infondata, non tiene conto che il principio dell'applicabilia' della legge piu' favorevole al reo, stabilito dall'art. 2 del c.p., incidendo sullo status libertatis e sui diritti fondamentali del cittadino ed essendo stato recepito dall'art. 25, secondo comma della Costituzione, ha rilevanza costituzionale. Si deve concludere che gli artt. 247 e 248 determinano una ingiustificata disparita' di trattamento tra gli imputati a seconda se nei loro procedimenti siano o non siano state compiute le formalita' di apertura del dibattimento. Conseguenzialmente va dichiarata non manifestamente infondata la questione di legittimita' costituzionale, sollevata dalla difesa, dell'art. 247 dispos. att. del c.p.p. in relazione all'art. 3 della Costituzione. La questione sollevata dalla difesa, incidendo sulla quantificazione della pena, e' certamente rilevante.