ha pronunciato la seguente
                                SENTENZA
 nel  giudizio  di  legittimita' costituzionale degli artt. 139, 142 e
 158 della legge 16 febbraio 1913, n. 89 (Ordinamento del notariato  e
 degli archivi notarili), promosso con ordinanza emessa il 14 dicembre
 1988 dal Tribunale di  Roma  nel  procedimento  penale  a  carico  di
 Colombi  Carlo  ed  altri,  iscritta al n. 431 del registro ordinanze
 1989 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della  Repubblica  n.  39,
 prima serie speciale, dell'anno 1989;
    Visto l'atto di costituzione di Colombi Carlo ed altri;
    Udito  nell'udienza  pubblica  del  28  novembre  1989  il Giudice
 relatore Ettore Gallo;
    Udito l'avv. Giuseppe Gianzi per Colombi Carlo ed altri;
                           Ritenuto in fatto
    1.  -  Con  ordinanza  14  dicembre  1988  il Tribunale di Roma ha
 sollevato questione di legittimita' costituzionale degli  artt.  139,
 142  e  158  della  legge  16  febbraio  1913  n. 89 (Ordinamento del
 notariato e degli archivi notarili) con riferimento all'art. 3  della
 Costituzione.
    Secondo  il  Tribunale  di  Roma le norme della legge notarile che
 prevedono la destituzione e l'inabilitazione di  diritto  del  notaio
 che  abbia riportato condanna per alcuno dei reati indicati nell'art.
 5 n. 3 della legge medesima, contrasterebbero  con  il  principio  di
 ragionevolezza di cui all'art. 3 della Costituzione: e cio' in quanto
 le dette sanzioni troverebbero applicazione automatica, senza che  la
 condotta   del   notaio  venga  valutata  in  sede  disciplinare.  In
 proposito, l'ordinanza richiama la sentenza n. 971 del 1988 di questa
 Corte,  che  ha dichiarato l'illegittimita' dell'art. 85 lett. a) del
 d.P.R. 10 gennaio 1957 n. 3 (Statuto  degli  impiegati  civili  dello
 Stato)  nonche'  di  altre  norme,  proprio  nella  parte in cui "non
 prevedono in luogo del  provvedimento  di  destituzione  di  diritto,
 l'apertura e lo svolgimento del procedimento disciplinare".
    Secondo  il Tribunale, i principi ai quali ha fatto riferimento la
 Corte nella richiamata sentenza non possono non valere per  le  norme
 della legge notarile sopra richiamate; e cio' in quanto anche in esse
 l'applicazione  delle  gravi  misure  della  inabilitazione  e  della
 destituzione   avviene   in   via  automatica,  senza  quel  doveroso
 approfondimento del caso concreto, come avviene in sede disciplinare.
    Ne'  potrebbe  aver rilievo, ad avviso del Tribunale, la natura di
 misura cautelare che  secondo  parte  della  giurisprudenza  dovrebbe
 riconoscersi alla inabilitazione.
    Ed invero, quale che sia il fine cui tende tale misura, nulla esso
 toglie al carattere afflittivo della stessa, posto che ne consegue la
 preclusione  all'esercizio delle funzioni notarili, cosi' come per la
 destituzione;  che',  anzi,  rispetto  a  questa,  tale  effetto   e'
 immediato,   essendo  la  pronunzia  della  inabilitazione  esecutiva
 nonostante appello, (art. 158, quarto comma, della legge  impugnata).
    2.  -  L'ordinanza  e' stata regolarmente notificata, comunicata e
 pubblicata   nella   Gazzetta   Ufficiale.   Dinanzi    alla    Corte
 costituzionale  si  e'  costituito  il Colombi rappresentato e difeso
 dall'avv.  Giuseppe  Gianzi  che,   sviluppando   le   argomentazioni
 dell'ordinanza,   chiede   che   venga   dichiarata  l'illegittimita'
 costituzionale delle norme denunziate.
    All'odierna  udienza il difensore della parte privata ha insistito
 nelle gia' prese conclusioni.
                         Considerato in diritto
    1.  - Il Tribunale di Roma, richiamandosi alla sentenza n. 971 del
 1988 di questa Corte, ha rilevato che gli  stessi  principi,  cui  la
 Corte si e' riferita nella detta sentenza, debbono essere applicati a
 quelle norme della legge notarile che  prevedono  nei  confronti  dei
 notai  gravi  provvedimenti  de  jure,  come  la  inabilitazione o la
 destituzione di diritto. Si tratta di misure  fortemente  afflittive,
 che  privano  il  notaio  dell'esercizio  della  professione,  e  che
 conseguono automaticamente a determinate  situazioni,  senza  che  la
 condotta  del  notaio  possa  essere adeguatamente valutata, caso per
 caso, ne' da parte del giudice penale, ne' in sede disciplinare.
    In  riferimento agl'impiegati civili dello Stato, questa Corte ha,
 infatti, dichiarato  l'illegittimita'  costituzionale  dell'art.  85,
 lett.  a),  del  d.P.R.  10  gennaio  1957, n. 3, e di altre analoghe
 norme, proprio "nella parte  in  cui  non  prevedono,  in  luogo  del
 provvedimento di destituzione di diritto, l'apertura e lo svolgimento
 del procedimento disciplinare".
    Secondo  il  Tribunale  -  a  quanto si evince dall'ordinanza - la
 Corte avrebbe dovuto estendere la declaratoria d'illegittimita' anche
 agli  artt.  139,  142  e  158  della  legge  16 febbraio 1913, n. 89
 (Ordinamento del notariato e degli Archivi  notarili).  In  mancanza,
 viene  sollevata  l'odierna questione in riferimento all'art. 3 della
 Costituzione, per violazione del principio di ragionevolezza.
    2.  -  La  proposta  questione  coinvolge due misure che non hanno
 identica natura: e' opportuno, percio',  esaminare  separatamente  il
 profilo di legittimita' costituzionale che le riguarda.
    E'  evidente,  infatti,  che l'inabilitazione e' misura cautelare.
 Cio' risulta chiaramente gia' dal testo degli artt. 139 e  140  della
 legge  notarile, che prevedono la misura in relazione a situazioni di
 carattere  provvisorio,  concernenti  la  pendenza  di   procedimento
 disciplinare  o  di  processo penale, oppure l'espiazione di una pena
 restrittiva della liberta' personale ma conseguente alla condanna per
 reati  diversi  da  quelli  lesivi  del  prestigio o del decoro della
 professione.
    Una  misura,  percio',  che  e'  essa  stessa provvisoria, perche'
 destinata a caducarsi o ad essere revocata quando vengono  a  cessare
 le situazioni che l'hanno determinata, o ad essere sostituita con una
 sanzione disciplinare definitiva.
    La  giurisprudenza  della magistratura ordinaria e' ormai pacifica
 sul punto, da quando nell'anno 1962 le Sezioni Unite della  Corte  di
 Cassazione   hanno   sottolineato   il   carattere   provvisorio  del
 provvedimento, percio' definito "cautelare", finalizzato appunto alla
 salvaguardia del prestigio e del decoro della funzione notarile.
    Sotto tale riguardo, quindi, non sembra meritare censura il quarto
 comma  dell'art.  158   impugnato,   che   tutela   l'efficacia   del
 provvedimento cautelare, nonostante l'appello; cosi' come, del resto,
 si verifica per i provvedimenti interdittivi cautelari  disposti  dal
 giudice  penale,  e  perfino  per  quelli cautelari restrittivi della
 liberta' personale,  nonostante  vengano  sottoposti  a  giudizio  di
 riesame o alle ordinarie impugnazioni (artt. 309, 310 e 311 codice di
 procedura penale); con la  sola  eccezione  dell'ipotesi  in  cui  il
 Tribunale,   accogliendo  l'appello  del  pubblico  ministero,  abbia
 disposto una misura cautelare che il giudice aveva negato (art.  310,
 terzo comma, codice procedura penale).
    Cio'  che, invece, non puo' essere piu' accettato, in relazione ai
 principi costituzionali, come  giustamente  lamenta  l'ordinanza,  e'
 l'automatismo  della  misura  cautelare,  che  deve  inderogabilmente
 essere applicata sol che si presentino le situazioni di cui  all'art.
 139 della legge notarile.
    Vero e' che, per due di esse (numeri 1 e 3), venendo a trovarsi il
 notaio in istato di privazione della  liberta'  personale,  anche  se
 relativa  (ipotesi di arresti domiciliari, etc..), e' impensabile che
 possa essergli consentito di esercitare le funzioni notarili.  Ma,  a
 parte  le  difficolta'  di  fatto  che  vi  si opporrebbero, le dette
 ipotesi sono estranee alla rilevanza del caso  di  specie,  anche  se
 l'ordinanza  di rimessione ha investito l'intero art. 139 della legge
 notarile.
    Il giudizio, pertanto, dovra' essere limitato all'ipotesi prevista
 nel n. 2 dell'art. 139 predetto: ipotesi pacificamente affidata  alla
 competenza del giudice che procede, al quale dev'essere consentito di
 valutare discrezionalmente, in relazione alla gravita'  del  fatto  e
 delle  sue circostanze nonche' alla personalita' del soggetto agente,
 l'opportunita' di applicare o  meno  la  misura  cautelare.  Esigenza
 tanto   piu'   sentita   nell'attuale   evoluzione   dell'ordinamento
 giuridico-processuale, ove si rifletta che nemmeno in tema di  misure
 cautelari  coercitive  della  liberta'  personale  esiste piu' alcuna
 preclusione, anche per i casi piu' gravi,  al  libero  esercizio  del
 potere discrezionale del giudice che procede. E' ormai inaccettabile,
 percio', che preclusioni gli  vengano  poste  in  ordine  a  semplici
 misure interdittive, quando il codice processuale penale non le pone,
 affidando  alla  discrezione   del   giudice   sia   la   sospensione
 dall'esercizio  di  un  pubblico  ufficio  (art. 289), sia il divieto
 temporaneo di esercitare determinate attivita'  professionali.  E  vi
 sono sicuramente pubblici uffici, se non professioni, le cui funzioni
 rivestono non minore delicatezza e  pari  importanza  delle  funzioni
 notarili.
    Sotto    questo    aspetto,   pertanto,   l'irrazionalita'   della
 disposizione che determina un trattamento gravemente differenziato  a
 seconda che il pubblico ufficio sia quello inerente alle funzioni del
 notaio, o a quelle di altro pubblico ufficiale, appare  evidente  nel
 contesto  dell'art.  3 della Costituzione: e cio' anche a prescindere
 dalla comparazione con altre professioni, come quella  forense,  dove
 pure  esistono  funzioni  pubbliche, come quella di autenticazione di
 firme, senza che per questo la  legge  imponga  de  jure  il  divieto
 temporaneo  di  esercitare  la  professione  in  caso di condanna non
 definitiva per falsita', oppure per altro dei delitti elencati nel n.
 3 dell'art. 5 della legge notarile.
    Va,  quindi,  dichiarata  l'illegittimita' costituzionale del n. 2
 dell'art. 139 della legge notarile in quanto fa obbligo al giudice di
 inabilitare  de  jure, anziche' sulla base delle valutazioni inerenti
 ai suoi poteri discrezionali, il notaio che sia stato condannato  per
 alcuni  dei  reati  indicati nell'art. 5 n. 3 con sentenza non ancora
 passata in cosa giudicata. La  facolta'  discrezionale  del  giudice,
 peraltro,  e'  gia'  prevista  nel secondo inciso dell'art. 140 della
 legge, ed essa  si  estendera'  conseguentemente,  dopo  la  presente
 declaratoria  d'illegittimita',  a  "qualunque  reato",  ivi compresi
 quelli di cui all'ora delegittimato n. 2 dell'art. 139.
    Il  secondo  inciso  dell'art. 140, pertanto, dovra' d'ora innanzi
 essere letto cancellando dal testo  l'aggettivo  indefinito  "altro",
 sicche'  la  nuova  versione  risultera'  la  seguente:  "Puo' essere
 inabilitato all'esercizio delle sue funzioni... il notaro  contro  il
 quale  sia  stata  pronunciata condanna non definitiva, per qualunque
 reato, a pena restrittiva della liberta' personale  non  inferiore  a
 tre mesi".
    Resta,  tuttavia, da decidere la sorte del secondo inciso del n. 2
 in parola, concernente l'ipotesi in cui  "sia  stata  pronunciata  la
 destituzione con sentenza o con provvedimento non ancora definitivi".
    Anche  di  questa parte dovra' essere dichiarata l'illegittimita',
 per le ragioni che vengono di seguito esposte.
    3. - Sulla natura giuridica dell'istituto della "destituzione" del
 notaio molto si  e'  dibattuto.  Anche  se  contestata  in  dottrina,
 sostanziale  prevalenza  ha  avuto  in  giurisprudenza  la tesi della
 cosidetta "natura mista", secondo cui  essa  ha  natura  di  sanzione
 disciplinare  in  relazione  agli  illeciti  previsti dal primo comma
 dell'art. 142 della  legge  notarile,  mentre  avrebbe  carattere  di
 "effetto  penale" della condanna la destituzione prevista dall'ultimo
 comma dell'art. 142.
    L'opinione  relativa  a questa seconda ipotesi si e' evidentemente
 formata  con  riguardo  alla  competenza,  pacificamente   attribuita
 all'autorita' giudiziaria in ragione del fatto che a questa spetta la
 pronunzia della condanna da cui scaturisce de jure  la  destituzione.
 In  realta', invece, la nozione di "effetti penali della condanna" si
 sostanzia  in  quelle  conseguenze  giuridiche  sfavorevoli  che   si
 ricollegano  direttamente  alla  condanna  stessa  e  che  consistono
 nell'incapacita'  di  conservare,  esercitare  o  acquistare   taluni
 diritti  soggettivi  o  facolta'  giuridiche,  oppure  di  conseguire
 benefici di diritto  penale,  o  che  sottopongono  il  condannato  a
 particolari  aggravi. Si tratta di restrizioni giuridiche che trovano
 la loro matrice  nello  stesso  illecito  criminoso  accertato  dalla
 sentenza,  sicche' e' da escludere che vi possano essere ricompresi i
 provvedimenti  di  carattere  privatistico  o   amministrativo   che,
 soltanto  per  motivi  di  connessione,  si affiancano al dispositivo
 penale, come la condanna ai danni  o  alle  restituzioni  quando  sia
 stata  esercitata  in  sede  penale l'azione civile riparatoria, o la
 inflizione  di  sanzioni   disciplinari   a   determinate   categorie
 (impiegati civili dello Stato, magistrati, avvocati, notai).
    Certo si tratta di provvedimenti connessi che sono occasionalmente
 condizionati dalla contestualita'  della  condanna  penale,  ma  essi
 rappresentano  la reazione dell'ordinamento ad un illecito diverso da
 quello penale, anche se accertato congiuntamente ad esso.
    Tanto  meno,  poi,  si  puo' parlare di "pena accessoria", come e'
 stato ventilato da lontana ed isolata giurisprudenza  ordinaria,  sia
 per  le stesse ragioni ora accennate a proposito degli altri "effetti
 penali della condanna", sia perche', se qualche incertezza e'  potuta
 sorgere  a  proposito  di  questi  ultimi, e' dipeso dal fatto che il
 codice  non  li  definisce,  ed  occorre,  percio',   enuclearne   la
 fisionomia  contenutistica  attraverso  la numerosa e varia casistica
 del codice e delle leggi speciali. Le pene accessorie, al  contrario,
 sono  espressamente  e  tassativamente  elencate  dal  codice  penale
 nell'art.  19,  e  non   esiste   disposizione   transitoria   o   di
 coordinamento  che  equipari  la  "destituzione  del notaio" prevista
 dalla legge n. 89 del 1913 ad alcuna delle pene accessorie  predette.
    Ne'  potrebbe essere diversamente, ove si consideri che l'art. 135
 della legge notarile ricomprende al n. 5  la  "destituzione"  fra  le
 sanzioni  disciplinari previste per i notai (anche se impropriamente,
 attesa la cultura  dell'epoca,  le  definisce  "pene"),  sicche'  non
 dovrebbe  sussistere  alcun dubbio che tale sia effettivamente la sua
 natura. La circostanza che la competenza ad  infliggere  la  sanzione
 sia attribuita al giudice quando l'illecito disciplinare sia connesso
 alla commissione di un illecito penale, non ha altra  spiegazione  se
 non nel fatto che il giudice penale accerta contestualmente e l'uno e
 l'altro illecito, e  non  ha  particolari  valutazioni  da  esprimere
 sull'illecito  disciplinare  essendo la conseguente sanzione prevista
 de jure. Ma, in ogni altro caso, quando una valutazione di  gravita',
 di  opportunita',  di  circostanze, s'impone, la sanzione e' inflitta
 dal giudice disciplinare che, per i notai, e' il Tribunale civile  in
 camera  di  consiglio:  cosi'  come spetta sempre al Tribunale civile
 intervenire ogniqualvolta il  giudice  penale  abbia  concesso  delle
 attenuanti,   aprendo  alla  possibilita'  della  sostituzione  della
 sanzione massima con quella  molto  meno  grave  della  "sospensione"
 (art. 144 della legge notarile).
    Una  volta  cosi'  accertato che la "destituzione", prevista per i
 notai che mancano al proprio dovere dall'art.  135  della  legge,  ha
 natura  di  sanzione  disciplinare,  sia  quando  viene applicata dal
 giudice civile, sia quando venga inflitta de jure dal giudice  penale
 in occasione della condanna per uno dei reati indicati nell'art. 5 n.
 3 della legge, la soluzione del quesito  proposto  dal  Tribunale  di
 Roma con la sollevata questione e' consequenziale alla premessa.
    A  questo punto, infatti, non puo' esservi piu' alcuna difficolta'
 a riconoscere che le ragioni che hanno indotto la Corte a dichiarare,
 nella   invocata   sentenza   n.  971  del  1988,  l'incompatibilita'
 dell'automatismo della sanzione della  "destituzione"  dell'impiegato
 civile  di  un  ente  pubblico  (condannato  per  un  delitto  che la
 comportava de jure) nei confronti  dell'art.  3  della  Costituzione,
 valgono  integralmente  per  l'analoga sanzione prevista per i notai.
 Nell'uno come nell'altro caso, e' indispensabile che il "principio di
 proporzione"  che  e'  alla  base  della  razionalita'  che domina il
 "principio  di  eguaglianza",  regoli  sempre   l'adeguatezza   della
 sanzione al caso concreto.
    Ma  e'  evidente  che  l'automatismo di un'unica massima sanzione,
 prevista indifferentemente per l'infinita  serie  di  situazioni  che
 stanno nell'area della commissione di uno stesso pur grave reato, non
 puo' reggere il confronto con il principio di eguaglianza  che,  come
 esige  lo  stesso  trattamento  per  identiche situazioni, postula un
 trattamento differenziato per situazioni diverse.
    Dev'essere,  quindi,  dichiarata  l'illegittimita'  costituzionale
 dell'art. 142, ultimo comma, della legge notarile, nella parte in cui
 sancisce  che  "e'  destituito di diritto" il notaio che ha riportato
 condanna per uno dei reati indicati nell'art. 5, n. 3.
    4.  - Ma una volta eliminate dall'ultimo comma dell'art. 142 della
 legge le parole "e' destituito di  diritto",  anche  l'ultimo  comma,
 cosi'   ridotto,   viene  ad  allinearsi  all'elencazione  del  comma
 precedente, i cui alinea tutti iniziano  con  le  parole  "il  notaro
 che...".  Cio'  significa  che  anche  l'ipotesi  del  notaio "che ha
 riportato una delle condanne indicate nell'art. 5,  n.  3"  viene  ad
 assumere  la  sua  corretta  posizione  sistematica  fra le altre che
 comportano la sanzione disciplinare discrezionale della destituzione.
    Ed,  in  realta',  una  volta  cessata la ragione che giustificava
 l'attribuzione  al  giudice  penale,  allorquando  la   destituzione,
 essendo   prescritta   de  jure,  non  implicava  alcuna  valutazione
 discrezionale,   la   competenza   all'inflizione   della    sanzione
 disciplinare  deve  tornare  alla  sua  sede naturale, che e' appunto
 quella del Tribunale civile  quale  giudice  disciplinare.  Come  per
 tutte  le  altre  cause  di  destituzione  previste dall'art. 142, il
 giudice  disciplinare  valutera'  l'entita'   dei   fatti   e   delle
 circostanze nonche' la personalita' del condannato e decidera' in sua
 discrezione.
    Ne  consegue  che  del primo e del terzo comma dell'art. 158 della
 legge  dovra'  essere  dichiarata  l'illegittimita'   costituzionale,
 mentre  per il secondo comma la declaratoria consegue innanzitutto in
 quanto prevede l'obbligatorieta' dell'inabilitazione, anziche' la sua
 facoltativita',  ma  poi anche perche' si riferisce alle "sentenze di
 condanna che producono di diritto la destituzione del notaio" nonche'
 a  "quelle che pronunciano la destituzione", e percio' esclusivamente
 all'art. 139, anziche' semplicemente alle "sentenze di  condanna  per
 reati   che   possono   comportare   la   destituzione  del  notaio",
 conseguentemente  estendendo  il  riferimento  anche  all'art.   140,
 anziche' soltanto all'art. 139 della legge.
    5. - Nel momento in cui la competenza per la sanzione disciplinare
 della destituzione passa al giudice disciplinare anche per  l'ipotesi
 in  cui i fatti sieno stati oggetto di processo penale, si propone il
 problema della compatibilita' dell'art. 146 della legge con l'art.  3
 della Costituzione.
    Com'e'  noto,  infatti, il citato articolo stabilisce che l'azione
 disciplinare contro i notai, anche per le infrazioni punibili con  la
 destituzione, "si prescrive in quattro anni dal giorno della commessa
 infrazione, ancorche' vi siano stati atti di procedura".  Poiche'  la
 disposizione si riferisce anche alla piu' tenue delle sanzioni, quali
 l'avvertimento, sarebbe parso  ragionevole  attribuire  l'espressione
 "atti  di procedura" esclusivamente al procedimento disciplinare, sia
 quello   innanzi   al   Consiglio   dell'ordine   per   le   sanzioni
 dell'avvertimento  e  della  censura,  sia quello camerale innanzi al
 Tribunale civile per le sanzioni dell'ammenda,  della  sospensione  e
 della destituzione.
    Ma  la  giurisprudenza della Corte di Cassazione si e' consolidata
 nel senso che la disciplina dell'interruzione della prescrizione  non
 opera   in   nessun  caso  in  materia  di  prescrizione  dell'azione
 disciplinare contro i notai, sicche' il termine di quattro  anni  dal
 giorno della commessa infrazione e' quello massimo, entro il quale, a
 pena d'improcedibilita', deve intervenire la decisione  irrevocabile.
 Il  principio  stabilito dall'art. 159 codice penale - hanno detto le
 Sezioni Unite - non e' un principio  generale  dell'ordinamento,  ne'
 puo' essere applicato analogicamente all'azione disciplinare contro i
 notai,  in  quanto  mancherebbero  i  presupposti  del   procedimento
 analogico,  vale  a  dire:   la similarita' delle situazioni (art. 12
 delle preleggi) e la non eccezionalita' della situazione cui la norma
 dovrebbe  essere  applicata  (art.  14  delle preleggi). Mancherebbe,
 infatti,  secondo  la  Cassazione,  ogni  similarita'   fra   materia
 disciplinare   e  materia  penale,  anche  perche'  l'istituto  della
 prescrizione e'  strettamente  collegato,  nel  codice  penale,  alla
 valutazione  quantitativa  dei  reati  in relazione alla misura delle
 pene: il che e' escluso in materia disciplinare. In altri  termini  -
 ad avviso della Corte di Cassazione - la legge che prevede un termine
 di prescrizione per le  infrazioni  disciplinari  e'  lex  specialis,
 anche nell'ambito generale dell'ordinamento, e non consente, percio',
 l'applicazione analogica di altra legge speciale. Conseguentemente  o
 la legge concernente una determinata materia (ad esempio: professioni
 forensi o giornalistiche) prevede  essa  stessa  la  recezione  della
 disciplina ex art. 159 codice penale, o altrimenti non sarebbe lecito
 arguirlo dal solo fatto che sia previsto un termine di  prescrizione.
    Siffatta  interpretazione (sulla cui esattezza questa Corte non ha
 ragioni per pronunziarsi) non  ha  comportato  gravi  conseguenze  in
 ordine  alla  sanzione  disciplinare  della  destituzione  finche' la
 competenza, in caso di procedimento penale, e'  rimasta  affidata  al
 giudice  penale. Deve dirsi, anzi, che probabilmente, proprio al fine
 di evitarne la prescrizione, si e' andata consolidando la tesi  della
 "destituzione",  come  effetto  penale  della condanna, o addirittura
 come "pena accessoria".
    Ma  una  volta che, con la presente sentenza, viene riconsciuta la
 natura di sanzione disciplinare, cosi' come emergente, del resto,  ex
 art.  142  legge  notarile,  e restituita alla competenza del giudice
 disciplinare  per  la  necessita'  di  procedere   alle   valutazioni
 discrezionali  del  caso,  attesa la dichiarata illegittimita' di una
 applicazione de jure, la gravita' delle conseguenze  della  riportata
 interpretazione si rende evidente.
    Poiche',   infatti,   la   Corte  di  Cassazione  esclude  che  la
 pregiudizialita' del processo penale rispetto a quello disciplinare -
 art.  28  vecchio codice, ora 653 codice procedura penale - (e quindi
 la necessita' di sospensione di quest'ultimo) svolga alcuna influenza
 sul  decorso  della  prescrizione,  la  sanzione  disciplinare  della
 destituzione resterebbe virtualmente  inapplicabile  nell'ordinamento
 notarile.
    E'  appena  il  caso  di rilevare, infatti, che, se gia' era arduo
 ritenere possibile una sentenza penale definitiva entro il termine di
 anni quattro, appare addirittura assurdo pensare che, entro lo stesso
 termine,  possano  altresi'  svolgersi  tre   ulteriori   gradi   del
 procedimento disciplinare.
    Orbene,  una  siffatta situazione determinerebbe manifestamente un
 irrazionale  trattamento  di  privilegio  a  favore  dei  notai   che
 commettono  le  infrazioni piu' gravi, e tali da dar luogo altresi' a
 processo penale.  Accadrebbe,  infatti,  che,  quando  il  fatto  non
 costutuisca   illecito   penale,   e'   possibile   che  le  sanzioni
 disciplinari (destituzione compresa) vengano inflitte entro il  breve
 termine  di prescrizione previsto dalla legge, mentre quando il fatto
 e' molto piu' grave, al  punto  da  meritare  anche  un  processo  ed
 eventualmente  una  pena,  resterebbe  virtualmente  escluso  che una
 qualsiasi  sanzione  disciplinare  possa  essere   inflitta   perche'
 risulterebbe impossibile l'osservanza di quel termine.
    Deve  essere ben chiaro, percio', che in questo caso non si tratta
 soltanto di una semplice situazione di fatto, ma  di  una  situazione
 tale  che  derivando  dall'attuale pronunzia, comporta in realta' una
 vanificazione  definitiva  della  situazione  giuridica   concernente
 l'attivita'  disciplinare  nei  confronti  dei  notai colpevoli delle
 violazioni piu' gravi.
    La  manifesta  incompatibilita'  di  tale situazione nei confronti
 dell'art. 3 della  Costituzione  va,  quindi,  eliminata,  applicando
 l'art. 27 della legge 11 marzo 1953, n. 87.