ha pronunciato la seguente
                                SENTENZA
 nei  giudizi di legittimita' costituzionale dell'art. 247 del decreto
 legislativo  28  luglio  1989,  n.  271  (Norme  di  attuazione,   di
 coordinamento  e transitorie del codice di procedura penale), e degli
 artt. 438, primo comma, e 440, primo comma, del codice  di  procedura
 penale  del  1988,  in  relazione  all'art. 442, secondo comma, dello
 stesso codice, promossi con le seguenti ordinanze:
      1) ordinanza emessa il 9 novembre 1989 dal Tribunale di Roma nel
 procedimento penale a carico di Issaa El Sayed Ali ed altri, iscritta
 al  n.  646  del  registro ordinanze 1989 e pubblicata nella Gazzetta
 Ufficiale della Repubblica n. 49,  prima  serie  speciale,  dell'anno
 1989;
      2)  ordinanza  emessa  il 20 novembre 1989 dal Tribunale di Roma
 nel procedimento  penale  a  carico  di  Zaccagnini  Ivan  ed  altri,
 iscritta  al  n.  648  del registro ordinanze 1989 e pubblicata nella
 Gazzetta Ufficiale della Repubblica  n.  50,  prima  serie  speciale,
 dell'anno 1989;
    Visto  l'atto  di  intervento  del  Presidente  del  Consiglio dei
 ministri;
    Udito  nell'udienza  pubblica  del  17  gennaio  1990  il  Giudice
 relatore Giovanni Conso;
    Udito  l'Avvocato  dello Stato Franco Favara per il Presidente del
 Consiglio dei ministri;
                           Ritenuto in fatto
    1.  -  Nel  corso  delle formalita' di apertura del dibattimento a
 carico di Issaa El Sayed Ali ed altri il Tribunale di Roma - rilevato
 che  gli  imputati  avevano  tempestivamente  richiesto  il  giudizio
 abbreviato, ma che il pubblico ministero aveva negato il suo consenso
 -  con  ordinanza  del  9 novembre 1989, ha sollevato, in riferimento
 agli artt. 3, 24 e 101, secondo comma, della Costituzione,  questione
 di legittimita' dell'art. 247 del decreto legislativo 28 luglio 1989,
 n. 271,  "in  quanto  l'insindacabile  rifiuto  di  aderire  al  rito
 abbreviato   da   parte  del  Pubblico  Ministero  si  pone  come  un
 insuperabile  ostacolo  sia  per  la  difesa  sia  per  il   giudice,
 all'applicabilita'  della diminuente" prevista dall'art. 442, secondo
 comma, del codice di  procedura  penale  del  1988,  "mentre  analogo
 ostacolo  non  si ravvisa nell'analogo procedimento dell'applicazione
 della pena su richiesta delle parti"  previsto  dall'art.  448  dello
 stesso  codice,  richiamato  dall'art. 248 del decreto legislativo 28
 luglio 1989, n. 271.
    L'ordinanza,   ritualmente   notificata  e  comunicata,  e'  stata
 pubblicata nella Gazzetta Ufficiale n. 49, prima serie speciale,  del
 1989.
    E'   intervenuto   il   Presidente  del  Consiglio  dei  ministri,
 rappresentato  e  difeso  dall'Avvocatura   Generale   dello   Stato,
 chiedendo che la questione sia dichiarata non fondata.
    Quanto  alla  dedotta  violazione  del  principio  di eguaglianza,
 l'Avvocatura richiama la "giurisprudenza  costante  di  questa  Corte
 Costituzionale",  stando  alla quale, "nell'ambito di una ragionevole
 discrezionalita'   legislativa",   l'ordinamento    puo'    prevedere
 trattamenti  differenziati  per fini costituzionalmente apprezzabili.
 Nella specie, la diversita' degli istituti posti a confronto (il rito
 abbreviato  e  l'applicazione  di  pena  su  richiesta  delle  parti)
 giustificherebbe ampiamente la diversita' di disciplina.
    Quanto  al  dedotto  contrasto  con  l'art. 24 della Costituzione,
 l'Avvocatura osserva, da  un  lato,  che  le  diverse  modalita'  del
 diritto  alla  tutela  giurisdizionale  si armonizzano pienamente con
 l'inviolabilita' del  diritto  di  difesa  e,  dall'altro  lato,  che
 l'impossibilita'  di  applicare la diminuente prevista dall'art. 442,
 secondo comma, del codice di procedura penale  del  1988,  "non  puo'
 considerarsi impedimento al diritto di difesa".
    Non   sarebbe,   infine,   violato   nemmeno   l'art.   101  della
 Costituzione: e cio' perche', alla stregua  della  giurisprudenza  di
 questa  Corte, le norme costituzionali che garantiscono la liberta' e
 l'indipendenza  dei  giudici  adempiono  lo  scopo   "di   vincolarne
 l'attivita'  solo  alla legge" che devono applicare "senza interventi
 od interferenze al di fuori di  essa",  tali  da  incidere  sul  loro
 convincimento.  E'  consentito,  pero',  al legislatore emanare norme
 che,  senza  incidere  su  quei  princi'pi,   "valgano   a   regolare
 l'attivita' degli organi Costituzionali".
    2. - Prima ancora di aprire il dibattimento a carico di Zaccagnini
 Ivan, Lanciotti  Silvano,  Mei  Giuseppe  e  Narduzzi  Beniamino,  il
 Tribunale  di Roma, premesso che gli imputati avevano tempestivamente
 richiesto la definizione del processo con rito abbreviato  e  che  il
 pubblico  ministero  aveva negato il suo consenso alla richiesta, ha,
 con ordinanza del 20 novembre 1989, sollevato,  in  riferimento  agli
 artt.  3,  25,  27,  102  e  107  della  Costituzione,  questione  di
 legittimita' degli artt.  247,  primo  e  terzo  comma,  del  decreto
 legislativo  28  luglio  1989, n. 271, 438, primo comma, e 440, primo
 comma, del codice di procedura penale del 1988, nelle parti  in  cui,
 per  i procedimenti pendenti alla data di entrata in vigore del nuovo
 codice di procedura penale, "non prevedono che il p.m., nel negare il
 proprio  consenso  alla  definizione del processo con rito abbreviato
 "allo stato degli atti", sia tenuto a motivarlo e nella parte in cui,
 conseguentemente,  non  e'  consentito  al  giudice  di  valutare  le
 condizioni addotte a giustificazione  del  dissenso  medesimo,  e  di
 applicare,   una   volta  ritenutolo  ingiustificato,  nei  confronti
 dell'imputato medesimo, la riduzione di pena prevista e  disciplinata
 dall'art. 442, secondo comma, c.p.p.".
    In punto di rilevanza il Tribunale osserva che il processo sarebbe
 definibile allo stato degli atti, sia perche' alcuni  degli  imputati
 sono  o  arrestati  in flagranza o confessi sia perche' nessuna nuova
 acquisizione probatoria risulta essere stata richiesta.
    In punto di non manifesta infondatezza, il giudice a quo muove dal
 principio dell'assoluta ed inderogabile parita' dell'accusa  e  della
 difesa  nel  nuovo processo penale anche in relazione alle norme "che
 prevedono e consentono la scelta del rito": con  la  conseguenza  che
 spetta  solo  al  giudice verificare l'esistenza delle condizioni per
 l'accoglibilita' delle richieste formulate da ciascuna delle parti.
    Al principio di parita' tra accusa e difesa si sottrarrebbe l'art.
 438, primo comma, del codice di procedura penale del 1988,  allorche'
 subordina  al consenso del tutto immotivato del pubblico ministero la
 verifica ad opera del giudice della possibilita' che il processo  sia
 definibile  allo  stato  degli  atti,  cosi' vulnerando, oltre che il
 principio di eguaglianza, anche gli artt.25, 102,  secondo  comma,  e
 107, terzo comma, della Costituzione.
    Le  norme  denunciate  sarebbero,  altresi',  in contrasto con "il
 combinato disposto degli artt. 3 e 27, primo  e  terzo  comma,  della
 Costituzione". Infatti, per effetto dell'immotivato potere preclusivo
 attribuito al pubblico ministero, non e'  consentito  al  giudice  di
 accertare  i  presupposti  per  l'abbreviazione  del rito e - "quando
 all'esito dell'esame degli atti e/o  del  dibattimento  la  richiesta
 risulti fondata" - di applicare all'imputato la riduzione di pena che
 l'art. 442 del codice di procedura penale riconosce a suo favore.
    E  cio'  perche',  configurandosi  il  principio di "eguaglianza",
 sulla base dell'art. 27,  primo  e  terzo  comma,  "  come  relazione
 necessaria  tra  soggetto  e  sanzione  penale",  il  principio  di "
 colpevolezza costituzionale"  dovrebbe  garantire  al  cittadino  "la
 certezza che egli potra' essere chiamato a rispondere penalmente solo
 per azioni da lui controllabili e  mai  per  comportamenti  che  solo
 fortuitamente  producono  conseguenze  penalmente  sanzionate". Donde
 l'ulteriore violazione del principio di legalita' di cui all'art.  25
 della  Costituzione,  in quanto, alla stregua delle norme denunciate,
 la  graduazione  della  pena  non  si  ricollegherebbe  a  situazioni
 controllabili  dal  reo,  ma  "a mera scelta processuale dell'accusa,
 insindacabile dall'organo giurisdizionale (giudice 'naturale')".
    Una  tale violazione "assume connotati piu' evidenti" raffrontando
 la posizione di chi fruisca  e  di  chi  invece  non  fruisca  di  un
 consenso  immotivato  del  pubblico  ministero  all'abbreviazione del
 rito.  In  tal  caso  le  pene   irrogabili   in   concreto   saranno
 "sproporzionate"    rispetto    ai   fatti   ed   alla   personalita'
 dell'imputato,  violando  cosi'   il   "canone   di   adeguatezza   e
 proporzione" derivante dall'art. 3 della Costituzione.
    L'ordinanza,   ritualmente   notificata  e  comunicata,  e'  stata
 pubblicata nella Gazzetta Ufficiale n. 50, prima serie speciale,  del
 13 dicembre 1989.
    Anche   in  questo  giudizio  e'  intervenuto  il  Presidente  del
 Consiglio  dei  ministri,  rappresentato  e  difeso   dall'Avvocatura
 Generale dello Stato, chiedendo che la questione venga dichiarata non
 fondata.
    Premesso   che   l'oggetto   della   questione   si  incentra  non
 sull'applicabilita'  della  diminuente  prevista  dall'art.  442  del
 codice  di  procedura penale (e che e' "mera "meccanica" conseguenza"
 di un giudizio abbreviato definito con una decisione di condanna), ma
 sulla  sindacabilita' del dissenso del pubblico ministero in presenza
 di una richiesta di abbreviazione del rito, rileva  l'Avvocatura  che
 ammettere  un simile sindacato equivarrebbe ad "attribuire al giudice
 questioni determinanti nella scelta del rito", cosi'  riconoscendogli
 un   ruolo   che   il  nuovo  legislatore  ha  voluto  escludere  con
 l'"assegnare  in  via  esclusiva  alle  parti  la  definizione  della
 strategia processuale".
    E'  alle parti che spetta la scelta del rito "alternativo": ma, se
 non e' previsto che il pubblico ministero debba motivare  il  proprio
 dissenso,  non  e'  nemmeno previsto che l'imputato debba motivare la
 propria richiesta. Del resto, un onere  di  tale  tipo  non  potrebbe
 essere tecnicamente adempiuto, "atteso che, per soddisfarlo, la parte
 dovrebbe anticipatamente  risolvere  il  problema  della  valutazione
 delle prove, che rappresenta invece il merito sul quale dovra' cadere
 la decisione giudiziale".
    Nessuna  comparazione  potrebbe,  infine, essere utilmente operata
 con  il  dissenso  del  pubblico   ministero   sulla   richiesta   di
 applicazione  della pena avanzata dall'imputato, in quanto l'istituto
 in parola non  riguarda  il  "rito",  ma  il  "merito":  il  pubblico
 ministero  dissente  solo perche', a suo avviso, la pena proposta non
 e' adeguata. Con la conseguenza che, se, in esito al dibattimento, il
 giudice  ritenga  congrua  la  pena  richiesta, deve "necessariamente
 valutare 'inadeguato' il parere del pubblico ministero".
                         Considerato in diritto
    1.  - Con la prima delle due ordinanze in epigrafe il Tribunale di
 Roma sottopone al vaglio della Corte l'"art. 247 D.L. 28 luglio 1989,
 n.  271"  (Norme  di  attuazione,  di coordinamento e transitorie del
 codice di procedura penale), "in relazione agli artt. 3, 24 e 101  II
 co.  della Costituzione, in quanto l'insindacabile rifiuto di aderire
 al rito abbreviato da parte del Pubblico Ministero si  pone  come  un
 insuperabile  ostacolo  all'applicabilita'  della  diminuente  di cui
 all'art. 442 II co. cpp 1988".
    La  seconda  ordinanza,  emessa  alcuni  giorni  dopo  da un'altra
 sezione del medesimo Tribunale, denuncia gli  "artt.  247,  1›  e  3›
 comma  del decreto legislativo 28 luglio 1989 n.  271, 438 1› comma e
 440 1› comma c.p.p., nelle parti in cui non prevedono  che  il  p.m.,
 nel  negare  il proprio consenso alla definizione del processo con il
 rito abbreviato "allo stato degli atti" richiesto dall'imputato,  sia
 tenuto  a  motivarlo  e  nella parte in cui, conseguentemente, non e'
 consentito  al  giudice  di  valutare   le   condizioni   addotte   a
 giustificazione  del  dissenso  medesimo  e  di  applicare, una volta
 ritenutolo ingiustificato, nei confronti dell'imputato  medesimo,  la
 riduzione  di  pena  prevista  e disciplinata dall'art. 442, 2› comma
 c.p.p., per contrasto con gli artt.  3,  25,  27,  102  e  107  della
 Costituzione".
    Avendo  entrambe  le  ordinanze  quale oggetto parzialmente comune
 l'art. 247, primo e  terzo  comma,  delle  norme  di  attuazione,  di
 coordinamento  e  transitorie  del  nuovo  codice, i relativi giudizi
 possono essere riuniti e decisi con un'unica pronuncia.
    2. - Le due ordinanze sono state emesse anteriormente all'apertura
 di dibattimenti relativi a  processi  gia'  in  corso  alla  data  di
 entrata   in  vigore  del  nuovo  codice  di  procedura  penale,  con
 conseguente necessita' di  tener  conto  dell'art.  241  delle  norme
 approvate con il decreto legislativo n. 271 del 1989: articolo che ha
 assunto a regola generale per "i procedimenti in corso alla  data  di
 entrata  in  vigore  del  codice"  giunti  ad uno stadio successivo a
 quello istruttorio il loro proseguimento  "con  l'applicazione  delle
 norme  anteriormente  vigenti". A tale articolo sono state, tuttavia,
 apportate non poche eccezioni,  tra  cui,  appunto,  quella  prevista
 dall'art. 247, oggetto di censura nei giudizi a quibus.  Prima ancora
 che per il  contenuto  del  rispettivo  petitum  e  per  i  parametri
 invocati,  le  ordinanze  si  differenziano  per  il  diverso modo di
 considerare i rapporti tra la normativa transitoria denunciata  e  la
 corrispondente  normativa  codicistica. Una delle ordinanze, infatti,
 ha per oggetto soltanto l'art. 247: la  norma,  cioe',  appositamente
 dettata  per rendere possibile anche in fase transitoria una forma di
 definizione anticipata riconducibile allo schema  ordinario  di  quel
 giudizio   abbreviato,   che,  inserito  in  apertura  del  libro  VI
 (Procedimenti speciali), rappresenta una delle principali novita' del
 codice del 1988. L'altra ordinanza, invece, coinvolge, oltre al primo
 ed al terzo comma dell'art. 247, due disposizioni del  codice,  cioe'
 gli artt. 438, primo comma, e 440, primo comma.
    3.  -  In  base  al  fondamentale  canone che vuole commisurato il
 requisito della rilevanza alla concreta applicabilita' nel giudizio a
 quo  delle norme di volta in volta denunciate, il passaggio all'esame
 del merito delle questioni dedotte  trova  giustificazione  solo  per
 quanto   riguarda   l'art.   247   delle   norme  di  attuazione,  di
 coordinamento e transitorie del nuovo codice: piu' particolarmente, i
 suoi  primi tre commi, concernenti l'ipotesi nella quale la richiesta
 di giudizio abbreviato venga, come nelle due fattispecie oggetto  dei
 giudizi  a  quibus,  formulata  "prima  che  siano  state compiute le
 formalita' di apertura del dibattimento di primo grado".
    Si  e',  infatti, in presenza di un istituto notevolmente diverso,
 sia sotto il profilo funzionale sia  sotto  il  profilo  strutturale,
 rispetto all'istituto previsto dagli artt. 438 e 443 del codice. Nato
 come tipico  strumento  di  deflazione  dei  carichi  giudiziari,  il
 giudizio  abbreviato,  nella  sua forma ordinaria (cioe', nella forma
 presa in considerazione dalla  seconda  delle  due  ordinanze,  senza
 coinvolgere  le  forme atipiche di cui agli artt. 452, secondo comma,
 458, 460, primo comma lettera e, 461, primo comma, 464, primo  comma,
 556,  primo  comma,  557,  560),  postula la definizione del processo
 anteriormente all'emanazione del decreto che dispone il dibattimento,
 trovando  specifica collocazione nell'udienza preliminare, allorche',
 in base all'art. 438, primo comma, l'imputato ne  formuli  "richiesta
 con  il  consenso  del  pubblico ministero" ed il giudice ritenga, ai
 sensi dell'art. 440, primo  comma,  "che  il  processo  possa  essere
 definito allo stato degli atti".
    Sotto  il  profilo  funzionale, la piu' consistente differenza del
 meccanismo congegnato dalle norme transitorie sta nel  fatto  che  la
 finalita'  perseguita  dai  primi  tre  commi  dell'art.  247  e'  la
 deflazione del solo dibattimento, in  limine  al  quale  il  medesimo
 giudice preposto alla fase dibattimentale definisce immediatamente il
 processo, utilizzando nell'udienza in camera di consiglio i soli atti
 che,  depositati  in cancelleria ai sensi dell'art. 410 del codice di
 procedura penale del 1930, sarebbero suscettibili di utilizzazione in
 sede dibattimentale. Nella disciplina del codice, invece, il consenso
 delle parti da' al giudice la  possibilita'  di  utilizzare  ai  fini
 della  decisione  all'esito  dell'udienza  preliminare anche atti che
 potrebbero non essere utilizzabili all'esito del dibattimento.
    Sotto  il  profilo  strutturale,  se e' vero che l'art. 247, primo
 comma, richiama, per la richiesta dell'imputato, la  "forma  prevista
 dall'art.  438  del  codice" e, per la definizione del processo "allo
 stato degli atti", l'art. 442 del codice,  e'  altrettanto  vero  che
 tale  duplice  rinvio  ha  il  solo  scopo  di individuare l'inizio e
 l'epilogo  del  rito  abbreviato,  demandando   tutta   la   restante
 regolamentazione  alla  minuziosa  disciplina procedimentale dettata,
 proprio per i processi gia' in corso, nell'art. 247.  Una  disciplina
 da  cui  si ricava, anzitutto, come - a differenza di quanto previsto
 nel nuovo codice - la richiesta  presentata  prima  che  siano  state
 compiute  le  formalita'  di apertura del dibattimento assume,in ogni
 caso, autonomo rilievo giuridico,  poiche',  anche  in  mancanza  del
 concomitante  consenso  del  pubblico  ministero,  vale  comunque  ad
 introdurre  la  procedura  prodromica  all'instaurazione   del   rito
 abbreviato. Infatti, a seguito della presentazione della richiesta di
 giudizio  abbreviato  non  accompagnata  dal  consenso  del  pubblico
 ministero,   il   giudice  e'  tenuto,  previa  sospensione  delle  "
 formalita' di apertura del dibattimento se  gia'  iniziate",  a  dare
 avviso  della  richiesta "al pubblico ministero che nei cinque giorni
 successivi esprime o nega  il  proprio  consenso",  in  base  ad  una
 prescrizione  (art. 247, secondo comma) che, diversamente dal codice,
 contempla in modo esplicito l'atto di dissenso del pubblico ministero
 ('nega il proprio consenso').
    Anche  il  basilare  riferimento  dell'art.  438, primo comma, del
 codice  del  1988  alla  definizione   del   processo   "nell'udienza
 preliminare"  non  puo' che rivelarsi incompatibile con la disciplina
 transitoria, essendo tale articolo  strettamente  coordinato  ad  una
 tipica fase del nuovo processo, destinata a delibare l'accusa ai fini
 del rinvio a giudizio richiesto dal  pubblico  ministero  (art.  419,
 primo  comma):  una  delibazione  che,  invece,  si  e' gia' da tempo
 esaurita nei processi pervenuti alle soglie del dibattimento  con  il
 "vecchio" rito.
    Del  resto,  la  seconda  delle  due  ordinanze di rimessione, pur
 sottoponendo a controllo di legittimita' anche gli artt.  438,  primo
 comma,  e  440,  primo comma, del nuovo codice, mostra chiaramente di
 riferirsi alla sola disciplina transitoria, quando, nel precisare  il
 petitum,  indica  come  giudice  chiamato  a  sindacare  il "dissenso
 immotivato" del pubblico ministero lo stesso giudice investito  della
 fase dibattimentale, che vi dovrebbe provvedere "all'esito dell'esame
 degli atti e/o del dibattimento".
    Data,  dunque,  la  differenza  della  normativa  transitoria, che
 delinea  un  istituto  non  certo  identico  all'ordinario   giudizio
 abbreviato  previsto  dal  codice, le questioni aventi ad oggetto gli
 artt. 438, primo comma, e 440, primo comma, del codice  di  procedura
 penale  del  1988,  devono  essere dichiarate inammissibili, relative
 come sono a norme non applicabili nei giudizi a quibus.
    4.  -  Cio'  premesso  in  ordine  alla rilevanza, le questioni da
 affrontare nel merito, con riguardo ai vari parametri  costituzionali
 invocati,  vengono  a  profilarsi  idealmente  lungo tre linee: l'una
 avente per oggetto l'art. 247, primo, secondo e  terzo  comma,  delle
 norme  di  attuazione,  di  coordinamento e transitorie del codice di
 procedura penale, approvate con  il  decreto  legislativo  28  luglio
 1989, n. 271, "nella parte in cui non prevede che il p.m., nel negare
 il proprio  consenso  alla  definizione  del  processo  con  il  rito
 abbreviato  "allo  stato  degli  atti",  richiesto dall'imputato, sia
 tenuto a motivarlo"; la seconda avente per oggetto lo stesso articolo
 "  nella parte in cui, conseguentemente, non e' consentito al giudice
 di valutare le condizioni  addotte  a  giustificazione  del  dissenso
 medesimo";  la  terza  avente ancora per oggetto il suddetto articolo
 nella parte in cui non e' consentito al giudice  "di  applicare,  una
 volta   ritenuto   (il   dissenso)   ingiustificato,   nei  confronti
 dell'imputato medesimo, la riduzione di pena prevista e  disciplinata
 dall'art.   442,  2›  comma,  c.p.p.".  Questo,  almeno,  nell'ottica
 adottata  dalla  piu'  complessa  delle  due  ordinanze,  limitandosi
 l'altra   ad   un   approccio   estremamente  sintetico  ("in  quanto
 l'insindacabile rifiuto di aderire al rito abbreviato  da  parte  del
 Pubblico  Ministero  si  pone  come  insuperabile ostacolo sia per la
 difesa sia per il giudice all'applicabilita' della diminuente di  cui
 all'art. 442 II co cpp 1988").
    La  progressione  logica  che  caratterizza  il passaggio dall'una
 all'altra delle  linee  sopra  tracciate,  la  prima  finalizzata  al
 raggiungimento  della  seconda  e,  di  qui,  al raggiungimento della
 terza,  appare  evidente,  tant'e'  vero  che  i  parametri   addotti
 riguardano egualmente tutte le questioni sollevate.
    Il  pubblico  ministero  - si sottolinea in quell'ordinanza - deve
 motivare il suo dissenso cosi' da rendere  possibile  al  giudice  di
 verificare  se  questo  sia  o  non sia giustificato, permettendogli,
 nella seconda eventualita', di addivenire alla riduzione di pena  (o,
 per  le  imputazioni piu' gravi, alla sostituzione dell'ergastolo con
 la reclusione di anni trenta) prevista dall'art. 442, secondo  comma,
 del  nuovo  codice,  richiamato dall'art. 247, primo e secondo comma,
 quarto  periodo,  delle  norme  di  attuazione,  di  coordinamento  e
 transitorie. Pretendere che il dissenso venga motivato e non renderlo
 suscettibile di alcun sindacato, cosi' da non farne  derivare  alcuna
 conseguenza,  significherebbe  -  e' l'implicita conclusione - negare
 alla prescrizione in tal modo introdotta ogni reale valore giuridico.
    Le questioni vanno, quindi, esaminate congiuntamente.
    5.   -   I   parametri   di   riferimento   oscillano  tra  quelli
 sinteticamente indicati dalla prima ordinanza (gli "artt. 3, 24 e 101
 II  co.  della  Costituzione",  in  quanto,  come  gia' ricordato, il
 "rifiuto di aderire al rito abbreviato" diventa ostacolo insuperabile
 per  la  difesa  e  per  il  giudice, "mentre analogo ostacolo non si
 ravvisa nell'analogo procedimento  dell'applicazione  della  pena  su
 richiesta  delle  parti,  ai  sensi dell'art. 448 cpp 1988 richiamato
 dall'art. 248 D.L. 28  luglio  1989  n.  271",  il  cui  primo  comma
 riguarda  anch'esso i giudizi in corso alla data di entrata in vigore
 del nuovo codice, trovando applicazione "prima che siano compiute  le
 formalita'  di  apertura  del  dibattimento")  e quelli in piu' vasta
 gamma delineati dalla seconda ordinanza,  pure  essa  preoccupata  di
 rimarcare la "differenza" con quanto prevede l'art. 448, primo comma,
 secondo periodo, sottolineando come, ai sensi  dell'art.  446,  sesto
 comma,  il  pubblico ministero sia tenuto ad enunciare le ragioni del
 suo dissenso dalla richiesta di  applicazione  della  pena  formulata
 dall'imputato.  Da  tale differenza, riscontrabile anche con riguardo
 all'art.  248,  primo  comma,   delle   norme   di   attuazione,   di
 coordinamento  e  transitorie  del  nuovo  codice,  che espressamente
 recepisce i disposti dell'art. 446, sesto  comma,  e  dell'art.  448,
 primo  comma,  del  codice  di procedura penale del 1988, "consegue",
 anzitutto, un contrasto con la "proclamata  parita'  processuale  fra
 accusa  e  difesa"  e con la "parita' di tutti i cittadini" di fronte
 alla  legge  (art.  3  della  Costituzione),  ed  il  condizionamento
 dell'"esercizio     della    funzione    giurisdizionale    spettante
 esclusivamente al giudice" (artt. 25,  102,  secondo  comma,  e  107,
 terzo   comma,   della   Costituzione)".  Il  dissenso  immotivato  e
 vincolante del pubblico ministero impedirebbe, inoltre,  all'imputato
 "di fruire di una congrua riduzione della pena" riconosciutagli dalla
 legge, dando cosi' luogo ad un "contrasto con il  combinato  disposto
 degli artt. 3 e 27, 1› e 3› comma della Costituzione": da un lato, il
 principio di legalita' ed il principio di colpevolezza risulterebbero
 lesi  dal  "legare"  la riduzione di un terzo della pena ad una "mera
 scelta processuale  dell'accusa"  e  dal  sottrarre  all'imputato  la
 "certezza   delle  conseguenze  delle  sue  scelte  comportamentali";
 dall'altro, la disparita' di trattamento  fra  "chi,  nella  medesima
 situazione processuale, fruisca di un consenso immotivato del p.m." e
 "chi  trovi  ostacolo  nel  dissenso,  altrettanto   immotivato,   ed
 insindacabile,  dello  stesso p.m.", traducendosi nell'irrogazione di
 pene sproporzionate fra loro, violerebbe "quel canone di  adeguatezza
 e  proporzione"  (che vuole sanzioni uguali in situazioni uguali), al
 centro della tutela di cui all'art. 3 della Costituzione.
    6. - Le questioni sono fondate.
    Per  entrambe  le  ordinanze  il  primo parametro e' rappresentato
 dall'art. 3 della Costituzione, invocato in un caso  sotto  un  unico
 profilo e nell'altro sotto una pluralita' di profili.
    Certamente,  come  osserva  l'Avvocatura  dello  Stato, il profilo
 addotto dalla prima ordinanza - in questo su'bito riecheggiata  dalla
 seconda - nel senso di ritenere ingiustificata, sol perche' si tratta
 di procedimenti "analoghi", la diversa, anzi opposta, soluzione  che,
 in  ordine  al  dissenso  del  pubblico  ministero,  caratterizza  la
 disciplina  transitoria  del  giudizio   abbreviato   (dissenso   non
 motivato)  rispetto  alla  disciplina transitoria del procedimento di
 applicazione della pena su richiesta delle parti (dissenso motivato),
 non  puo'  considerarsi  di  per  se' sufficiente allo scopo, date le
 innegabili differenze che, accanto alle innegabili analogie, emergono
 raffrontando i due procedimenti.
    Cio',  tuttavia,  non  basta, quando si pongano a confronto le due
 discipline transitorie,  senz'altro  meno  distanti  fra  loro  delle
 rispettive discipline codicistiche, a legittimare la conclusione che,
 con non minore drasticita', la stessa Avvocatura dello Stato vorrebbe
 inversamente   trarne,   nel   senso   di   ritenere  ragionevole  la
 "differenza" contestata dai giudici a quibus, in quanto  causa  delle
 ulteriori  violazioni  costituzionali  prospettate  dalle  ordinanze.
 Soltanto una valutazione estesa alle  altre  differenze  e,  insieme,
 alle  analogie  ravvisabili  confrontando  il giudizio abbreviato con
 l'applicazione della pena su richiesta delle parti nell'ambito  delle
 rispettive  discipline  transitorie puo' permettere di verificare se,
 considerato l'intero quadro, l'aspetto della  motivazione  o  no  del
 dissenso trovi razionale collocazione tra le differenze.
    In  termini  rigorosamente  normativi,  la differenza lamentata si
 sostanzia non tanto, come vorrebbe la prima ordinanza, nella  mancata
 estensione  al  giudizio  abbreviato della previsione che l'art. 448,
 primo comma, secondo periodo, del nuovo codice - richiamato  in  sede
 di  disposizioni  transitorie  dall'art.  248,  primo  comma,  quinto
 periodo - dedica all'applicazione della pena su richiesta proveniente
 dall'imputato  senza  il  consenso  del  pubblico  ministero  ("...il
 giudice provvede dopo la chiusura del dibattimento di primo  grado  o
 nel  giudizio  di  impugnazione,  quando  ritiene  ingiustificato  il
 dissenso  del  pubblico  ministero  e  congrua  la   pena   richiesta
 dall'imputato", aspetto quest'ultimo sicuramente estraneo al giudizio
 abbreviato), quanto, come sottolinea la seconda ordinanza, nel  fatto
 che  la  prescrizione di cui all'art. 446, sesto comma (" Il pubblico
 ministero, in caso  di  dissenso,  deve  enunciarne  le  ragioni")  -
 anch'essa  dettata  in  tema  di richiesta di applicazione della pena
 proveniente dall'imputato ed anch'essa richiamata in sede transitoria
 dall'art. 248, primo comma, terzo periodo - e' priva di riscontro sia
 nella disciplina del codice  sia  nella  disciplina  transitoria  del
 giudizio  abbreviato.  Stando all'ottica del parametro costituzionale
 invocato, il quesito per entrambe le ordinanze  si  traduce,  dunque,
 nel  domandarsi,  anzitutto, se sia o no razionale che l'enunciazione
 delle ragioni  del  dissenso  opposto  dal  pubblico  ministero  alla
 richiesta  dell'imputato,  enunciazione  ritenuta  necessaria  per la
 disciplina codicistica non meno che per la disciplina transitoria  di
 uno  dei  due  riti (applicazione della pena su richiesta), non venga
 ritenuta necessaria almeno per la disciplina  transitoria  dell'altro
 (giudizio abbreviato).
    7.  -  Con ovvio riferimento alle rispettive discipline introdotte
 dal codice del  1988,  la  Relazione  al  progetto  preliminare,  nel
 distinguere  il  giudizio  abbreviato  e l'applicazione della pena su
 richiesta  delle  parti  dagli  altri  procedimenti  speciali,   pure
 ispirati  ad "evidenti ragioni di economia processuale", li qualifica
 immediatamente "riti abbreviati", affidando all'aggettivo,  adoperato
 per  contraddistinguere  il  primo  dei  due,  anche  il  compito  di
 designare  la  categoria  entro  la  quale  e'  possibile  accostarlo
 all'altro. E precisa, su'bito dopo, come ad entrambi sia "affidata la
 funzione di evitare il passaggio alla fase dibattimentale di un  gran
 numero  di  procedimenti,  secondo  uno schema di deflazione comune a
 tutti i sistemi processuali che si ispirano al modello accusatorio" e
 come   entrambi  si  fondino  "sull'accordo  tra  accusa  e  difesa",
 quest'ultima   variamente   "incentivata"    ad    avvalersene.    Le
 differenziazioni  tra  i due riti muovono proprio di qui. Diverse, al
 di la' degli impliciti vantaggi comuni ad entrambi (costi  ridotti  e
 pubblicita' del dibattimento evitata), le soluzioni premiali; diversi
 gli strumenti di approdo.  L'applicazione  della  pena  su  richiesta
 delle  parti  -  possibile,  ad  iniziativa  congiunta di entrambe o,
 indifferentemente, dell'una o dell'altra, in quanto si tratti di  una
 sanzione  sostitutiva  o  di una pena pecuniaria diminuita fino ad un
 terzo o di una pena detentiva che, tenuto conto delle  circostanze  e
 diminuita  fino  ad  un terzo, non superi due anni di reclusione o di
 arresto - "sta ad indicare  un  accordo  tra  pubblico  ministero  ed
 imputato sul merito dell'imputazione (responsabilita' dell'imputato e
 pena conseguente)", con  in  piu'  gli  effetti  favorevoli  previsti
 dall'art.  445  del  nuovo  codice. Invece, nel giudizio abbreviato -
 applicabile per qualsiasi reato su  richiesta  del  solo  imputato  -
 l'accordo tra pubblico ministero ed imputato "non tocca in alcun modo
 il merito della imputazione, in  quanto  concerne  esclusivamente  il
 rito  semplificato  da  seguire", con attribuzione all'imputato - che
 non deve riconoscere la propria responsabilita', solo  accettando  di
 essere giudicato allo stato degli atti - del diritto alla diminuzione
 di un terzo della pena in caso di condanna.
    Si  tratta,  comunque,  di risultati cui sempre si addiviene sulla
 base  degli  atti  acquisiti  al  momento  della  formulazione  della
 richiesta,  con  una  notevole  differenza  di  ordine temporale: nel
 giudizio abbreviato ordinario la richiesta puo'  aver  luogo  fino  a
 cinque  giorni  prima dell'udienza preliminare o nel corso di questa,
 mentre nel giudizio abbreviato transitorio  previsto  dall'art.  247,
 primo,   secondo  e  terzo  comma,  delle  norme  di  attuazione,  di
 coordinamento e transitorie la richiesta e' possibile fino a che  non
 siano  state  compiute  le formalita' di apertura del dibattimento di
 primo grado, allo stesso modo  di  quanto  avviene  nell'applicazione
 della  pena  su  richiesta  delle parti, allorche' la richiesta venga
 formulata ai  sensi  dell'art.  446  del  codice  o  ai  sensi  della
 previsione  transitoria  di cui all'art. 248, primo comma, e, quindi,
 sempre  allo  stato  degli  atti  della  fase  predibattimentale.  Ne
 consegue  un  ulteriore avvicinamento del giudizio abbreviato ex art.
 247, primo, secondo e terzo comma,  all'applicazione  della  pena  su
 richiesta ex art. 248, primo comma.
    Piu'   in   generale,  il  fatto  che  la  Relazione  al  progetto
 preliminare si preoccupi di ricordare come sin dai lavori preparatori
 della  legge-delega  il  giudizio abbreviato sia stato "efficacemente
 qualificato come 'patteggiamento sul rito' e in tal modo distinto dal
 'patteggiamento  sulla pena' o sul merito del processo", non equivale
 a disconoscere  la  realta',  invero  piu'  complessa,  del  giudizio
 abbreviato,  in  quanto  l'accordo  delle  parti  sul rito ha pure un
 effetto sul merito:  in  caso  di  condanna  tale  accordo  comporta,
 invero,  una  diminuzione  della pena per il solo fatto dell'adozione
 del rito speciale, pur  trattandosi  di  un  effetto  'indiretto"  ed
 'eventuale', dato che la pronunzia di merito potrebbe anche essere di
 proscioglimento. Allo stesso  modo  dell'instaurazione  del  giudizio
 abbreviato,  l'effetto sul merito dipende in primo luogo dal consenso
 del pubblico ministero, proprio come  dal  consenso  di  quest'ultimo
 dipende,   in   caso   di   applicazione   della  pena  su  richiesta
 dell'imputato,  non  soltanto  l'intesa  sulla  pena,   ma   altresi'
 l'adozione  del  rito  semplificato.  Allorche',  come  nelle ipotesi
 rispettivamente disciplinate dall'art. 247, primo,  secondo  e  terzo
 comma,  e dall'art. 248, primo comma, il rito viene sostanzialmente a
 corrispondere per quel che concerne giudice,  momento  e  sede  della
 decisione  finale,  non  si  giustifica che il pubblico ministero, di
 fronte ad una richiesta di giudizio  abbreviato,  possa  sacrificare,
 oltre  al  rito,  anche  l'effetto  sulla  pena,  senza neppure dover
 enunciare le ragioni del proprio dissenso,  a  differenza  di  quanto
 avviene  di  fronte ad una richiesta di applicazione della pena, dove
 un rito sostanzialmente corrispondente puo'  essere  sacrificato  dal
 pubblico   ministero  solo  enunciando  le  ragioni  del  dissenso  e
 l'effetto sulla pena puo' essere sacrificato solo con un dissenso non
 ritenuto  ingiustificato  dal giudice. Tanto piu' se si considera che
 nell'applicazione della pena su richiesta l'iniziativa  puo'  partire
 indifferentemente   dall'imputato   o  dal  pubblico  ministero,  con
 reciproca possibilita' di un dissenso che il  pubblico  ministero  e'
 tenuto  a  motivare  e l'imputato no, mentre nel giudizio abbreviato,
 essendo l'iniziativa  riservata  a  quest'ultimo,  il  dissenso  puo'
 essere   del   solo  pubblico  ministero,  con  conseguente  maggiore
 necessita' di una motivazione.
    Altro  problema  e'  quello  dei  parametri cui la motivazione del
 pubblico ministero dovrebbe  rapportarsi.  Secondo  la  Relazione  al
 progetto  preliminare,  tali  parametri  non sarebbero "tipizzati ne'
 tipizzabili dalla  legge",  cosi'  che  "sulla  scelta  del  pubblico
 ministero  potranno, di volta in volta, avere valore decisivo tutti o
 solo alcuni degli aspetti che differenziano  il  giudizio  abbreviato
 rispetto  al  giudizio ordinario". Ma - a prescindere dal rilievo che
 l'argomento concernente l'impossibilita' di "tipizzare"  i  parametri
 potrebbe  valere  per  la  sola  disciplina  del codice, dove il rito
 abbreviato ordinario si colloca nell'udienza preliminare,  fase  che,
 destinata  in  via  primaria al controllo della richiesta di rinvio a
 giudizio, renderebbe difficilmente ipotizzabile l'esternazione  delle
 ragioni  del  dissenso  del  pubblico ministero o, piu' precisamente,
 della mancata prestazione del suo consenso alla richiesta di giudizio
 abbreviato   formulata   dall'imputato   -  le  argomentazioni  della
 Relazione  in  tanto  sono  condivisibili  in  quanto   il   pubblico
 ministero,  non  tenuto  a motivare, possa liberamente determinarsi a
 dissentire.   Una   volta   dichiarata,    pero',    l'illegittimita'
 costituzionale  dell'art.  247,  primo,  secondo e terzo comma, nella
 parte in cui non prevede che il pubblico ministero debba enunciare le
 ragioni  del suo dissenso, cosi' da renderlo sindacabile dal giudice,
 il problema  dei  parametri  viene  a  prospettarsi  in  termini  ben
 diversi:  il fatto che nella disciplina transitoria l'instaurabilita'
 del giudizio abbreviato in presenza  del  consenso  delle  parti  sia
 legislativamente   condizionata   alla   ritenuta  definibilita'  del
 processo allo stato degli  atti  da  parte  del  giudice  (art.  247,
 secondo  comma:  "Se  il  consenso interviene e il giudice ritiene di
 poter decidere allo stato degli atti"...) non  parrebbe  autorizzare,
 al  momento - tanto piu' nel silenzio dell'art. 446, sesto comma, del
 nuovo codice assunto a tertium comparationis,  in  quanto  richiamato
 dall'art.  248, primo comma, terzo periodo, delle norme transitorie -
 altra interpretazione che quella di raccordare anche  la  scelta  del
 pubblico  ministero  alla definibilita' del processo allo stato degli
 atti. Restano salvi, si intende,  eventuali  interventi  legislativi,
 facilitati  dai  meccanismi  di  pronto  ed agile intervento previsti
 dall'art. 7 della legge delega 16 febbraio 1987, n. 81.
    8.  -  L'accertata  illegittimita'  costituzionale  dell'art. 247,
 primo,  secondo  e  terzo  comma,  delle  norme  di  attuazione,   di
 coordinamento  e transitorie, approvate con il decreto legislativo 28
 luglio 1989, n. 271, nella parte in cui non prevede che  il  pubblico
 ministero,  in  caso  di  dissenso,  debba enunciarne le ragioni, con
 conseguente assorbimento degli altri parametri  di  costituzionalita'
 addotti  dalle  due  ordinanze,  viene  a  rendere rilevanti anche le
 questioni aventi per oggetto lo stesso art.  247,  primo,  secondo  e
 terzo  comma,  nelle  parti  in  cui "non e' consentito al giudice di
 valutare le  ragioni  addotte  a  giustificazione  del  dissenso"  e,
 conseguentemente, "di applicare nei confronti dell'imputato medesimo,
 una volta ritenuto il dissenso ingiustificato, la riduzione  di  pena
 prevista e disciplinata dall'art. 442, 2› comma, c.p.p.".
    Dato  lo  stretto collegamento tra i due aspetti cosi' esplicitati
 dalla seconda ordinanza (in tanto il giudice ha motivo  di  sindacare
 le  ragioni  addotte  dal  pubblico  ministero in quanto, a sua volta
 dissentendone,  possa  far  luogo  alla  diminuzione  di   pena;   e,
 viceversa,  in  tanto  il  giudice puo' far luogo alla diminuzione di
 pena in quanto sia legittimato a sindacare le ragioni  enunciate  dal
 pubblico ministero), le relative questioni, sollevate con riferimento
 agli stessi parametri precedentemente richiamati, danno luogo ad  una
 sola censura, anch'essa fondata.
    L'analogia fra la disciplina transitoria del giudizio abbreviato e
 la disciplina transitoria dell'applicazione della pena  su  richiesta
 dell'imputato    rende    priva   di   giustificazione,   nell'ottica
 dell'invocato art. 3 della  Costituzione,  pure  l'omessa  previsione
 nell'art.  247,  primo, secondo e terzo comma, di un potere analogo a
 quello che l'art. 248, primo comma,  quinto  periodo,  attraverso  il
 rinvio  all'art. 448, primo comma, del codice, conferisce al giudice,
 allorche', alla fine  del  dibattimento,  ritenga  ingiustificato  il
 dissenso del pubblico ministero nei confronti dell'applicazione della
 pena  richiesta  dall'imputato.  Cio'  conduce  al   vero   risultato
 perseguito  dal  secondo  giudice a quo, la' dove lamenta che non gli
 sia permesso di riconoscere all'imputato la riduzione di pena ex art.
 442,  secondo  comma,  del  codice "quando all'esito dell'esame degli
 atti  e/o  del  dibattimento  la  richiesta  risulti  fondata"):   la
 declaratoria  di illegittimita' costituzionale dell'art.  247, primo,
 secondo e terzo comma, anche nella parte in cui non prevede che, dopo
 la  chiusura  del  dibattimento,  il  giudice  possa,  per il caso di
 condanna, applicare la  riduzione  di  pena  ricompresa  nel  duplice
 rinvio all'art. 442 del codice, quando sia da ritenere ingiustificato
 il dissenso del pubblico ministero.