IL TRIBUNALE
    Ha  emesso  la  seguente  ordinanza,  nel  procedimento  penale n.
 7585/89 promosso nei confronti di Ragno Claudio, imputato  di  rapina
 pluriaggravata  ed altro, per fatti accertati in Roma, il 15 dicembre
 1988; detenuto in atttesa di giudizio di primo grado;
    Vista   l'istanza   avanzata  dall'imputato  nei  preliminari  del
 dibattimento di primo grado, con la quale,  ai  sensi  del  combinato
 disposto  di cui agli artt. 247 del d.-l. 28 luglio 1989, n. 271, 438
 e 440 del c.p.p., e' stato richiesto che il processo a suo carico sia
 definito allo stato degli atti, con il rito abbreviato;
    Preso  atto  della  mancata espressione del prescritto consenso da
 parte del p.m., appositamente interpellato;
    Vista  l'istanza avanzata dal difensore del citato imputato con la
 quale  e'  stato  richiesto  di  rimettere  gli   atti   alla   Corte
 costituzionale  deducendosi  la  illegittimita' degli artt. 247 delle
 disposizioni transitorie del c.p.p.,  438,  439  e  440  del  c.p.p.,
 perche'  in  contrasto  con  gli  artt.  3,  25,  102,  e  107  della
 Costituzione, laddove le norme in questione non prevedono per il p.m.
 l'obbligo  della  motivazione  del mancato consenso alla richiesta di
 rito abbreviato e, conseguentemente, la possibilita'  di  valutazione
 del dissenso medesimo da parte del giudice, cosi' privando l'imputato
 della possibilita' di ottenere, in  caso  di  condanna,  una  congrua
 diminuzione  della  pena;  norme  che  mal  si concilierebbero con il
 principio costituzionale della uguaglianza di tutti  i  cittadini  di
 fronte   alla   legge   (con  particolare  riguardo  alla  proclamata
 partecipazione dell'accusa e della difesa su basi di parita' in  ogni
 stato  e  grado  del  procedimento penale); del principio del giudice
 naturale; del principio grazie al quale la  funzione  giurisdizionale
 non  puo'  che  essere esercitata da magistrati ordinari distinti fra
 loro soltanto per diversita' di funzioni;
    Rilevato:
      1)  che  le  norme  sulla  definizione  del  processo  con  rito
 abbreviato previsto dal titolo I del libro VI  del  nuovo  codice  di
 procedura  penale,  sono  state estese anche ai procedimenti pendenti
 alla data di entrata in vigore del codice stesso ai  sensi  dell'art.
 247 delle norme transitorie di cui al d.leg. n. 271/1989;
      2)  che il nuovo codice subordina l'accoglimento della richiesta
 di rito abbreviato avanzata dall'imputato al consenso del p.m.  (art.
 438, primo comma) in relazione al citato art. 247, terzo comma, delle
 norme transitorie;
      3)   che   il   richiamato  dissenso  non  va  motivato  e  che,
 conseguentemente, una  volta  manifestato,  preclude  al  giudice  la
 possibilita'  di  valutare la sussistenza o meno delle condizioni per
 pronunziare sentenza "allo stato degli atti", senza che si dia  luogo
 al dibattimento vero e proprio;
      4)  che,  in  concreto,  nel  presente  processo, sarebbe invero
 possibile definire il processo stesso "allo stato  degli  atti",  nei
 confronti dell'imputato, essendo stato sorpreso in quasi-flagranza di
 reato e comunque confesso;
      5)  che  la  questione  di  legittimita' costituzionale proposta
 appare rilevante  per  la  definizione  del  giudizio  nei  confronti
 dell'imputato  che  ha  richiesto  il  rito  abbreviato, incidendo la
 risoluzione della questione medesima non soltanto  sulla  scelta  del
 rito,  ma  principalmente sulla determinazione della pena, in caso di
 condanna;
                             O S S E R V A
    Il  nuovo  c.p.p., in effetti, si fonda sul principio, proprio del
 sistema accusatorio, della parita'  assoluta  ed  inderogabile  della
 partecipazione dell'accusa e della difesa, e pertanto, ne' l'accusa e
 ne' la difesa debbono  potersi  condizionare  vicendevolmente,  fermo
 restando  il  diritto  di ciascuna di esse, nel proprio interesse, di
 richiedere l'applicazione delle norme sancite  nel  nuovo  codice,  e
 quindi anche di quelle che prevedono e consentono la scelta del rito;
 e fermo restando il potere-dovere del giudice-terzo di verificare  la
 sussistenza  delle  condizioni sostanziali per l'accoglibilita' delle
 richieste stesse (nella specie, per quanto attiene alla richiesta  di
 rito  abbreviato, quella della sussistenza delle condizioni per poter
 definire il processo "allo stato degli atti").
    L'art.  438,  primo  comma, peraltro, subordina tale verifica alla
 manifestazione (immotivata) del consenso (o del dissenso) ad opera di
 una delle parti (il p.m.), a differenza di quanto prevede e prescrive
 l'art. 448, primo comma (sull'applicazione della pena richiesta delle
 parti),  non  senza  tener  conto  che, ai sensi dell'art. 446, sesto
 comma, nella fattispecie il p.m. e' tenuto "ad enunciare le  ragioni"
 del  proprio  dissenso,  ragioni che poi saranno liberamente valutate
 dal giudice.
    Ne  consegue  che  la  manifestazione,  per giunta immotivata, del
 dissenso da parte del p.m., ben puo' ipotizzarsi essere in  contrasto
 con  la  proclamata  parita' processuale fra accusa e difesa e quindi
 anche in contrasto con il principio costituzionale della  parita'  di
 tutti  i  cittadini,  con parita' di diritti e doveri, di fronte alla
 legge (art. 3 della Costituzione), non potendosi piu' riconoscere  al
 p.m.,  in  questa  fase  processuale,  alcuna posizione di supremazia
 sull'imputato,  tale  da  condizionare  l'esercizio  della   funzione
 giurisdizionale  spettante  esclusivamente  al giudice, in ossequio a
 quanto sancito negli artt. 25,  102,  secondo  comma,  e  107,  terzo
 comma, della Carta costituzionale.
    Ne'  appare ammissibile che una "parte", per di piu' in assenza di
 una qualsiasi apparente valida ragione, possa unilateralmente  e,  in
 ipotesi,  illegittimamente,  non  soltanto  impedire  al  giudice  di
 verificare la sussistenza delle condizioni perche' si proceda con  un
 determinato  rito,  ma altresi' all'imputato di fruire di una congrua
 riduzione della pena che la legge riconosce in suo favore.
   Va  altresi'  osservato  che  il fatto che la richiesta di giudizio
 abbreviato trovi ostacolo nel dissenso immotivato  e  vincolante  del
 p.m.,  potrebbe  essere  in contrasto con il combinato disposto degli
 artt. 3 e 27, primo e terzo comma della Costituzione, nella misura in
 cui  non  e'  consentito  al giudice di riconoscere al richiedente la
 gia' richiamata riduzione di pena  ex  art.  442  del  c.p.p.,  anche
 quando  all'esito  dell'esame  degli  atti  e/o  del  dibattimento la
 richiesta risulti fondata.
    Nell'art. 27, primo e terzo comma, della Costituzione si configura
 il  principio  costituzionale  di   "colpevolezza"   come   relazione
 necessaria   fra  soggetto  e  sanzione  penale.  L'attuazione  della
 funzione di garanzia  assolta  dal  principio  di  legalita'  conduce
 d'altra  parte  a configurare il diritto penale come titolo idoneo di
 intervento contro la criminalita' e insieme  come  garanzia  dei  cd.
 destinatari  della legge: il principio di colpevolezza costituzionale
 deve garantire quindi il cittadino sulla certezza  delle  conseguenze
 delle  sue  scelte  comportamentali,  e  cioe'  che  sara' chiamato a
 rispondere penalmente solo per azioni da lui controllabili e mai  per
 comportamenti che solo fortuitamente producano conseguenze penalmente
 sanzionate.
    Orbene,  non  solo  il  principio  di  colpevolezza,  ma  anche il
 principio di legalita' viene sostanzialmente leso se un  soggetto  e'
 chiamato  a rispondere penalmente, sotto il profilo della graduazione
 della pena (nel caso di specie per un terzo di sanzione in piu' o  in
 meno) - per situazioni che non puo' comunque impedire e che non e' in
 grado, senza sua colpa, di evitare o controllare: situazioni  legate,
 come   nel   caso  che  qui  interessa,  a  mera  scelta  processuale
 dell'accusa,  insindacabile  dall'organo   giurisdizionale   (giudice
 "naturale").
    Tale  lesione  assume  connotati  piu' evidenti ove si colleghi la
 situazione di chi, nella medesima situazione processuale, fruisca  di
 un consenso immotivato del p.m., con quella di chi trovi ostacolo nel
 dissenso, altrettanto  immotivato,  ed  insindacabile,  dello  stesso
 p.m.,   poiche'   allora  le  pene  irrogabili  in  concreto  saranno
 certamente  "sproporzionate"  fra  loro  rispetto  ai  fatti  (intesi
 nell'accezione  di  cui all'art. 649 del c.p.p.) ed alla personalita'
 dell'imputato (la cui subiettivita' e' richiamata come  misura  della
 pena dal terzo comma dell'art. 27 della Costituzione), e violerebbero
 quel  canone  di  adeguatezza  e  proporzione  (sanzioni  diverse  in
 situazioni  diverse,  ma  sanzioni  uguali  in situazioni uguali) che
 costituisce  il  precetto   piu'   importante   dell'art.   3   della
 Costituzione;