IL PRETORE
    Ha  pronunciato  la  seguente  ordinanza nel procedimento penale a
 carico di Clemente Leonardo (n.  57/1987  reg.  gen.),  imputato  del
 delitto  di  cui  agli  artt.  624 e 625, n. 1, del c.p., per essersi
 impossessato,  al  fine  di  trarne  profitto,  di   un   portafoglio
 contenente  la  somma  di  L. 200.000 ed un assegno di L. 150.000 che
 sottraeva dalla abitazione di Salerno Lucio, in agro di Porto Cesareo
 il 28 luglio 1986.
                           PREMESSO IN FATTO
    Con  rapporto  giudiziario  del  7  gennaio 1987, i carabinieri di
 Porto Cesareo informavano questo pretore che, in data 16 agosto 1986,
 si  era  presentato  presso quella caserma Salerno Lucio da Trepuzzi,
 denunziando che, in data 28 luglio 1986, nelle  ore  pomeridiane,  si
 era  allontanato  dalla  sua  abitazione  estiva ubicata in localita'
 "Club Azzuro".
    Alle  ore  21 circa, nel fare ritorno, constatava che ignoti erano
 penetrati nell'interno di detta abitazione, asportando un portafoglio
 contenente  la  somma  di  L.  200.000 circa in banconote, nonche' un
 assegno tratto sulla Banca Vincenzo Tamborrino, con sede in Maglie  e
 con  filiale in Lecce; assegno avente il n. 0668490 su c/c n. 748/41,
 a firma di Petrucci Francesco, per un importo di  L.  150.000  ed  in
 favore del Salerno.
    In   seguito  a  cio',  gli  stessi  carabinieri  accertavano  che
 l'assegno  suddetto  era  stato  incassato  da   Clemente   Leonardo,
 residente  in  Sandonaci,  presso  la  Banca  Sud Puglia della stessa
 citta' il 14 agosto 1986.
    Il  Salerno,  reso  edotto,  precisava  che la firma col suo nome,
 apposta nella girata dell'assegno, era apocrifa e che  non  conosceva
 affatto il Clemente.
    Veniva,  quindi, sentito quest'ultimo dai carabinieri di Sandonaci
 ai quali dichiarava: che la sua firma era l'ultima apposta per girata
 sul retro dello stesso assegno; che non conosceva la persona la quale
 gli aveva consegnato il titolo, ma che della  stessa  era  creditore,
 per  cui  riceveva  la somma di L. 200.000, consistente in L. 150.000
 contenute dal suddetto assegno e  L.  50.000  in  banconote;  che  il
 prestito allo sconosciuto era stato fatto in una piazza di Veglie nel
 corso della festa Patronale e le caratteristiche di costui gli  erano
 rimaste  impresse  e,  in  seguito  ad  un  confronto, avrebbe potuto
 riconoscerlo; che, portato  l'assegno  all'incasso  presso  la  Banca
 Popolare  Sud  Puglia  con  filiale in Sandonaci, lo stesso era stato
 pagato senza difficolta', ma, dopo qualche  tempo,  veniva  richiesta
 dai  funzionari  di detta filiale la restituzione della somma portata
 dal titolo, in quanto, tale assegno era stato  o  rubato  o  trovato;
 che,  aderendo  alla  richiesta; aveva restituito all'istituto teste'
 indicato la somma di L. 150.000.
    I  carabinieri  facevano  presente pero' che le dichiarazioni rese
 dal Clemente non potevano ritenersi attendibili,  in  quanto  avevano
 dichiarato  di  essersi  ricevuto  l'assegno  da  persona  da lui non
 conosciuta, una settimana dopo i festeggiamenti di  S.  Giovanni,  in
 Veglie  avvenuti  il  10  - 11 - 12 agosto 1986, mentre l'assegno era
 stato negoziato in data 31 luglio 1986 e pagato dalla  banca  traente
 il 6 agosto 1986.
    I  medesimi  carabinieri  denunziavano, quindi, il Clemente per il
 delitto di ricettazione ex art. 648 del c.p., iniziatosi procedimento
 penale  a  carico  del  suddetto  Clemente,  costui veniva rinviato a
 giudizio davanti a questo pretore per rispondere del reato  di  furto
 aggravato  di  cui in epigrafe. Al dibattimento del 21 novembre 1989,
 preliminarmente,  l'imputato   ed   il   suo   difensore   chiedevano
 l'applicazione  della  pena  ex  art.  444  del c.p.p., approvato con
 decreto d.P.R. 22 settembre 1988, n. 447, nella misura di mesi sei di
 reclusione  e  L.  200.000 di multa; subordinando tale richiesta alla
 concessione della sospensione condizionale della pena, alla quale  si
 era  giunti  partendo dalla pena base di mesi nove di reclusione e L.
 300.000 di multa, previa  applicazione  delle  attenuanti  generiche,
 ritenute equivalenti alla contestata aggravante.
    Il  p.m.  d'udienza,  in  persona del v. procuratore onorario avv.
 Antonio Paladini (espressamente delegato dal sig.  procuratore  della
 Repubblica  di  Lecce  presso  la  pretura  circondariale  di  Lecce)
 prestava il suo consenso. Stante  l'ora  tarda  e  la  necessita'  di
 approfondire  i  problemi  inerenti  all'istituto la cui applicazione
 veniva richiesta, anche a livello di legittimita' costituzionale,  il
 dibattimento  veniva  rinviato,  su  accordo  delle parti all'udienza
 fissa del 14 dicembre 1989.
    In  quest'ultima  udienza,  dopo aver sentito le stesse parti, che
 concludevano  in  atti,  questo  Pretore,  ritiratosi  in  camera  di
 consiglio, con il dispositivo dell'ordinanza letto in udienza.
                          OSSERVAVA IN DIRITTO
    Sono ben note le vicende che hanno caratterizzato il nuovo c.p.p.,
 approvato con d.P.R. 22 settembre 1988, n. 447, ed entrato in  vigore
 il  24  ottobre  1989,  nonostante  le  gravi perplessita' - da tutti
 riconosciute, sino a  poche  ore  prima  -  stante,  la  mancanza  di
 strutture  adeguate per la funzionalita' del primo codice dell'Italia
 repubblicana.
    In   particolare,   per   quanto   riguarda,   il  nuovo  istituto
 dell'applicazione  della  pena  su  richiesta   delle   parti   (c.d.
 patteggiamento), previsto dagli artt. 444, 448 e 563 relativamente al
 processo pretorile, non possono tenersi in  adeguata  considerazione,
 anzitutto,  i  lavori  preparatori  su detto istituto che meritano di
 essere qui riportati,  sia  pure  in  parte:  relazione  al  progetto
 preliminare  del  codice  di  procedura  penale Omisis... Titolo II -
 Applicazione della pena su richiesta delle parti.
   L'istituto dell'applicazione della pena su richiesta delle parti ha
 fatto la sua comparsa,  nell'iter  parlamentare  della  legge-delega,
 nella  direttiva 35, terza parte, del testo licenziato nel marzo 1982
 dal comitato ristretto della commissione giustizia della  Camera  dei
 deputati.
    L'esigenza  di  una  adeguata differenziazione dei riti penali era
 stata tradotta, per  l'appunto,  non  solo  nella  previsione  di  un
 giudizio   immediato   (che  era  venuto  a  sostituire  il  giudizio
 direttissimo gia' indicato nelle proposte  governative  del  febbraio
 1980)  e  nella  delineazione  di un giudizio per decreto (nuovamente
 limitato alle sole pene pecuniarie, sia pure sostitutive  della  pena
 detentiva),  bensi'  anche  nell'individuazione  di  due nuovi schemi
 processuali, nei quali  era  stato  attuato  in  termini  inediti  il
 principio  del  premio-incentivo  per  atteggiamenti  di meritorieta'
 processuale dell'imputato.
    Ed  uno  dei  procedimenti  cosi'  strutturati  era  quello  della
 direttiva 35, terza parte, che richiamava da vicino le forme del c.d.
 patteggiamento,  introdotto pochi mesi prima con la legge 24 novembre
 1981, n. 689.
    Rispetto all'istituto disciplinato negli artt. 77 e 85 della legge
 689/1981, comunque, si poteva subito rilevare l'indubbio  ampliamento
 delle  ipotesi  applicative  e  la particolare significativita' della
 previsione premiale: difatti, si prevedeva che il: p.m., ottenuto  il
 consenso  dell'indiziato o dell'imputato, e questi ultimi ottenuto il
 consenso del pubblico ministero, potessero  chiedere  al  giudice  in
 apposita  udienza,  o  nell'udienza preliminare o nel giudizio fino a
 che  non  siano   state   compiute   le   formalita'   di   apertura,
 l'applicazione  -  nei  casi  consentiti  -  di  una  delle  sanzioni
 sostitutive della detenzione previste dalla legge, ovvero di una pena
 detentiva  pari  a  quella  edittale per il reato per cui si procede,
 diminuita di un  terzo  e  comunque  non  superiore  a  tre  mesi  di
 reclusione o di arresto.
    Il   prosieguo   del   cammino  parlamentare  della  futura  della
 legge-delega doveva segnare, senza alcuna  inversione  di  rotta,  un
 ulteriore   e   progressivo   allargamento   degli   spazi  operativi
 dell'istituto  in  esame,  sulla  base  della  consapevolezza   degli
 innegabili  vantaggi per la deflazione e la celerita' della giustizia
 derivanti dal potenziamento, in generale, dei meccanismi  processuali
 differenziati   e,   in   particolare,  di  questa  nuova  specie  di
 patteggiamento. Si e' cosi' giunti all'attuale testo della  direttiva
 45,  nella  quale  si  prevede  che:  il  pubblico  ministero, con il
 consenso  dell'imputato,  ovvero  l'imputato  con  il  consenso   del
 pubblico  ministero,  possano  chiedere al giudice, fino all'apertura
 del dibattimento, l'applicazione delle sanzioni sostitutive nei  casi
 consentiti,  o  della  pena  detentiva irrogabile per il reato quando
 essa, tenuto conto delle circostanze e diminuita fino  ad  un  terzo,
 non  superi  due  anni  di reclusione o di arresto soli o congiunti a
 pena pecuniaria, e che, il giudice, in udienza, applichi la  sanzione
 nella misura richiesta, provvedendo con sentenza inappellabile.
    E'  stato  inoltre demandato al legislatore delegato il compito di
 disciplinare in rapporto ai diversi tipi di sanzioni  applicare,  gli
 effetti della pronuncia.
    Si  tratta  indubbiamente  di  una  scelta  coraggiosa,  in quanto
 consente il ricorso al rito differenziato per una gamma  assai  ampia
 di  imputazioni.  Del  resto,  nella  sua  relazione  alla Camera (29
 gennaio 1987), l'on.le Casini aveva fatto rilevare come "buona  parte
 dell'efficienza del nuovo codice" fosse "affidata a questo istituto",
 che consente, non solo di risparmiare tutto il dibattimento, ma anche
 di eliminare un grado di impugnazione, vista l'inappellabilita' della
 sentenza emessa su accordo delle parti; istituto che se da un lato si
 ricollega   nella   ispirazione  al  patteggiamento  della  legge  n.
 689/1981,  dall'altro  se  ne  differenzia   notevolmente   per   una
 impostazione  piu'  matura  e  robusta, che ha superato le originarie
 incertezze, anche di natura costituzionale.
    Illustrazione degli articoli... Omissis...
    Nel  secondo  comma  e' delineata l'attivita' demandata al giudice
 per la decisione sulla richiesta.
    La  decisione  viene  presa  sulla  base  degli atti, senza quindi
 acquisire ulteriori elementi probatori.
    Anche  alla  luce  di  alcune  indicazioni  ricavabili  dai lavori
 parlamentari, si e' peraltro riconosciuto al  giudice  il  potere  di
 rifiutare  la  ratifica  dell'accordo  quando egli non conviene sugli
 elementi giuridici che determinano la cornice entro cui  e'  avvenuta
 la commisurazione della pena.
    Pertanto  il  giudice  non provvedera' secondo la richiesta quando
 riterra' che la qualificazione giuridica del  fatto  sia  diversa  da
 quella  operata  e  comporti  una  pena maggiore o che le circostanze
 attenuanti prospettate non ricorrano  od  ancora  che  diverso  debba
 essere l'esito del giudizio di comparazione.
    Per  contro,  al  giudice  non  viene riconosciuto alcun sindacato
 sulla  congruita'  della  pena  richiesta,  trattandosi  di   materia
 riservata alla determinazione esclusiva delle parti.
    Quindi,  una  volta  verificata la corretteza della qualificazione
 giuridica  del  fatto,  dell'applicazione  delle  circostanze  e  del
 giudizio  di  comparazione,  il  giudice  non  potra'  fare altro che
 applicare la pena nella specie e nella misura indicata dalle parti.
    Resta  pero'  il  potere-dovere  del  giudice  di  pronunciare  il
 proscioglimento a norma dell'art. 128, se ricorrono le condizioni.
    In  conclusione il compito del giudice e' di accertare, sulla base
 degli atti, se esistono le condizioni per il  proscioglimento  e,  in
 caso  negativo,  se e' esatto il quadro nel cui ambito le parti hanno
 determinato la pena, mentre  non  occorre  un  positivo  accertamento
 della responsabilita' penale.
    Soprattutto  per questa ragione si e' escluso che il giudice possa
 decidere su eventuali domande della parte  civile,  ma  si  e'  anche
 considerato  che  una  soluzione  diversa  sarebbe  stata  fortemente
 disincentivante per l'imputato, la cui richiesta avrebbe  finito  con
 il comportarne la soccombenza nella controversia civile... Omissis...
    Pertanto,  nel  terzo  comma  dell'art.  339  si  e' espressamente
 prevista la possibilita' per l'imputato di subordinare  la  richiesta
 di   applicazione  della  pena  alla  concessione  della  sospensione
 condizionale,  di  modo  che  il  giudice  si  trovera'   di   fronte
 all'alternanza  di  accogliere integralmente la richiesta, concedendo
 anche la sospensione condizionale, ovvero di rigettarla facendo venir
 meno  la possibilita' di adottare le forme del procedimento speciale.
    L'art. 440 regola gli effetti della sentenza di applicazione della
 pena su richiesta, risolvendo espressamente  alcune  delle  questioni
 che  si  sono  poste  con  riferimento  all'art.  77  della  legge n.
 689/1981.
    Sono  stati  quindi  ribaditi  gli  aspetti  di  premialita'  gia'
 presenti nell'art. 77 cit., aspetti che acquistano  senza  dubbio  un
 peso  consistente in considerazione dell'ampio ambito di operativita'
 del nuovo istituto, e si  e'  chiarito  che  la  sentenza  emessa  su
 accordo delle parti non comporta la condanna al pagamento delle spese
 del  procedimento  e  non  ha  efficacia   nei   giudizi   civili   o
 amministrativi.
    Per  quanto non espressamente previsto la sentenza e' equiparata a
 una pronuncia di condanna, cosi' ad esempio, e'  valutabile  ai  fini
 della recidiva, se non vi e' stata l'estinzione degli effetti penali,
 previsti dal secondo comma.
    Nel secondo comma emergono gli altri aspetti premiali, costituiti,
 nell'ordine,  dall'estinzione  del  reato,  dall'estinzione  di  ogni
 effetto penale e dalla non ostativita' dell'applicazione su richiesta
 rispetto ad una successiva sospensione condizionale... Omissis...
    L'ultimo  comma  dell'art.  441,  nello  stabilire che nel caso di
 dissenso  sulla  richiesta  dell'imputato  il  p.m.  e'   tenuto   ad
 enunciarne le ragioni, introduce una disponibilita' che si ricollega,
 come si vedra', a quella del terzo comma dell'articolo successivo, il
 quale  da'  al  giudice  il  potere di sindacare l'eventuale dissenso
 dell'organo dell'accusa. Occorre sottolineare che  la  determinazione
 del  p.m.  e'  discrezionale,  non arbitraria; per negare il consenso
 devono  esistere  delle  valide  ragioni,  che   vanno   esternate...
 Omissis...
    In ogni caso, e cioe' anche se prima e' stato negato, come preciso
 il terzo comma, il consenso puo' essere dato fino  a  quando  non  e'
 spirato   il   termine   finale,   che   e'  quello  dell'esposizione
 introduttiva del giudizio di primo grado.
    Quando  vi  e'  la  concorde  volonta'  delle parti e ricorrono le
 condizioni  indicate  nell'art.   339,   il   giudice,   nell'udienza
 preliminare  o  nel giudizio, pronuncia immediatamente la sentenza di
 applicazione della pena su richiesta.
    Il  quarto  comma  aggiunge  che  dopo la chiusura del giudizio di
 primo grado o nel giudizio di impugnazione il giudice puo' accogliere
 la  richiesta  dell'imputato anche in mancanza del consenso del p.m.,
 se ritiene che il consenso e' stato negato ingiustificatamente.
    Con  quest'ultima  disposizione sono state recepite le indicazioni
 contenute  nella  sentenza  30  aprile  1984,  n.  120,  della  Corte
 costituzionale,  che  con  una pronuncia interpretativa di rigetto ha
 escluso l'illegittimita' costituzionale degli artt.  77  e  78  della
 legge n. 689/1981.
    La  Corte  ha  ritenuto  che  il parere del pubblico ministero sia
 vincolante per il rito ma non per il merito e cioe', che nel caso  di
 parere  negativo  sia precluso l'epilogo anticipato del procedimento,
 ma non l'accoglimento della  richiesta  dell'imputato  da  parte  del
 giudice una volta completato regolarmente il dibattimento.
    Si   e'  gia'  detto  che  il  p.m.  si  muove  in  un  quadro  di
 discrezionalita' e deve enunciare le ragioni  del  proprio  dissenso;
 non  e' e non puo' essere arbitro delle sorti dell'imputato, e quindi
 non puo' precludergli un trattamento vantagioso quando  ne  ricorrono
 le   condizioni   e  il  dissenzo,  all'esame  del  giudice,  risulta
 ingiustificato.
    E'  invece un potere tipico del pubblico ministero come parte, non
 sindacabile  dal  giudice,  quello  di  consentire  o  meno  che   il
 procedimento  si  svolga  in forme diverse dalle ordinarie, ed e' per
 questa ragione che se manca il consenso del p.m., cosi'  come  da  un
 lato  deve  essere  escluso  un  epilogo  anticipato, dall'altro deve
 essere riconosciuto a tale parte il  diritto  di  proporre  l'appello
 contro   la   sentenza  di  primo  grado,  anziche'  il  ricorso  per
 Cassazione, che e' l'unico mezzo consentito invece per le  parti  che
 hanno  richiesto  l'applicazione  della  pena  o che su di essa hanno
 concordato.
    Sempre in relazione ai lavori preparatori, merita di essere tenuto
 presente,  tra  i  numerosi  altri  commenti,  quanto  precisato  dal
 Lattanzi nel convegno di studio "Enrico De Nicola" ("Problemi attuali
 di diritto e procedura penale". "Verso una nuova  giustizia  penale".
 "Il nuovo codice di procedura penale al vaglio di docenti, magistrati
 ed avvocati") svoltosi in Lecce nel marzo 1988,  a  cura  del  Centro
 studi   giuridici   Michele   Di   Pietro:   "Giudizio  abbreviato  e
 patteggiamento". Uno dei difetti piu' vistosi della delega del 1974 e
 del   progetto  preliminare  del  1978,  che  ne  era  derivato,  era
 costituito dalla rigidita' del sistema, privo di variazioni  rispetto
 allo schema tipo e quindi privo di procedimenti semplificativi.
    Anche nella relazione al disegno di legge n. 845/C, presentato dal
 Ministro Morlino il 31 ottobre  1979  per  un'ulteriore  proroga  del
 termine  per  l'esercizio  della  delega  del 1974, nel fare il punto
 sullo stato dei lavori per il nuovo codice e  su  alcune  indicazioni
 critiche che nel corso di questi erano emerse, era venuta in evidenza
 la "fondata  esigenza  da  piu'  parti  sottolineata  ai  fini  della
 funzionalita'  del  nuovo sistema... di realizzare differenti modelli
 processuali, riservando cosi' i meccanismi piu'  articolati  ai  casi
 piu'  complessi  ed  in  quanto  tali  non suscettibili di una rapida
 progressione verso il dibattimento".
    In  realta'  la  delega del 1974 non aveva preso in considerazione
 neppure il processo  pretorile,  mettendo  in  seria  difficolta'  il
 legislatore  delegato,  chiamato  a  decidere  se  ed in quale misura
 almeno questo processo potesse essere costruito con  diverse  e  piu'
 agili regole processuali.
    Era  chiara  l'impraticabilita'  di  un  sistema  processuale  che
 pretendeva di applicare in tutti i casi un unico schema, che appunto,
 perche'  unico,  era stato strutturato per far fronte alle situazioni
 piu' complesse. Occorreva non  solo  evitare  un  inutile  spreco  di
 energie   giudiziarie,   che  gia'  erano  cosi'  carenti,  ma  anche
 realizzare un codice che  non  imponesse  ingiustificati  trattamenti
 uguali per situazioni disuguali.
    Si  trattava di individuare gli strumenti e le garanzie necessarie
 e sufficienti in relazione ai vari casi che presenta normalmente  una
 realta'  giudiziaria  assai  diversificata  e solo quegli strumenti e
 quelle garanzie; perche', un eccesso di attivita' procedimentale puo'
 costituire  un  inutile aggravio, oltre che per la collettivita', per
 lo stesso imputato.
    Ed   e'  un  principio  costituzionale  cardine  che,  cosi'  come
 situazioni uguali devono  avere  un  trattamento  uguale,  situazioni
 diverse richiedono trattamenti diversi.
    Nel  lungo  iter  legislativo  che ha portato alla nuova delega, i
 procedimenti speciali, generalmente indicati  nel  corso  dei  lavori
 parlamentari    con    le    espressioni    "meccanismi   processuali
 differenziati" e "riti differenziati", sono stati fra  le  parti  del
 nuovo  sistema  sulle quali piu' approfonditamente e proficuamente si
 e' esercitata la riflessione,  originando  una  gamma  articolata  di
 meccanismi divergenti, per uno o piu' aspetti, dallo schema tipo.
    Non  tutti  originali, questi meccanismi nel progetto preliminare,
 sono raggruppati con la denominazione di procedimenti  speciali,  nel
 libro  VI, che comprende il giudizio abbreviato, l'applicazione della
 pena su richiesta delle parti, il giudizio direttissimo, il  giudizio
 immediato e il procedimento per decreto.
    A   questi   si   aggiunge   con  caratteristiche  particolari  il
 procedimento davanti al pretore.
    Il giudizio direttissimo e il procedimento per decreto, pur se con
 alcune diversita', ricordano modelli ben noti, ed anche  il  giudizio
 immediato, caratterizzato da un intervento del giudice che dispone il
 giudizio senza fissare l'udienza preliminare, si ricollega  a  schemi
 processuali  tradizionali,  tendenti  in  presenza di situazioni meno
 complesse a semplificare la fase che precede il giudizio.
    Una novita' assoluta e' costituita invece dal giudizio abbreviato,
 mentre l'applicazione della  pena  su  richiesta  ricorda  per  molti
 aspetti  il  patteggiamento  della  legge n. 689/1981, anche se se ne
 differenzia nettamente.
    La   denominazione   "procedimenti   speciali"  riecheggia  quella
 attuale, "giudizi speciali", ma la parola procedimenti sottolinea che
 non sempre c'e' la fase del giudizio.
    Anche  la  collocazione  diversa: tra le indagini preliminari e il
 giudizio, anziche' dopo  questo,  dato  che  il  decreto  penale,  il
 giudizio  abbreviato e il patteggiamento tendono ad escludere la fase
 processuale del giudizio.
    Negli  ultimi  due  procedimenti  la  specialita'  si collega alla
 volonta' delle parti: nel  giudizio  abreviato  (direttiva  53  della
 delega)  la  richiesta  dell'imputato  e  il  consenso  del  pubblico
 ministero  fanno  si'  che  la  decisione  venga  presa  nell'udienza
 preliminare,  escludendo il dibattimento, e che si riducano i casi di
 appellabilita';  nell'applicazione  della  pena  su  richiesta,   che
 costituisce il nuovo patteggiamento, le parti concordano la sanzione,
 anche detentiva, ed il giudice provvede ad  applicarla  con  sentenza
 inappellabile.
    Nella   ricerca  di  forme  semplificative  per  giungere  ad  una
 pronuncia di condanna anche a pene detentive il Governo inizialmente,
 nel  febbraio  1980,  con  un  emendamento  alla  direttiva  36 aveva
 proposto la "previsione di un procedimento per decreto, per  condanne
 a   pene   detentive   non  superiori  a  tre  mesi  purche'  sospese
 condizionalmente o estinte per indulto".
    Sembrava  il  massimo  che  si  potesse  fare  per giungere ad una
 condanna  a  pena  detentiva  nei  casi  in  cui  l'accertamento  non
 richiedeva   il   dibattimento   e  poteva  contarsi  su  un'adesione
 dell'imputato, attraverso la rinuncia a proporre opposizione; poi  e'
 sopraggiunta  la  legge  24 novembre 1981, n. 689, con gli artt. 77 e
 segg.,  che  hanno  introdotto  il   patteggiamento   aprendo   nuove
 prospettive nel nostro ordinamento.
    Ispirandosi  al  patteggiamento,  il  legislatore  ha  abbandonato
 l'idea, di scarsa  utilita'  e  per  piu'  aspetti  discutibile,  del
 decreto  penale  per  pene  detentive  ed ha intrapreso la strada dei
 procedimenti semplificati con il consenso dell'imputato,  incentivato
 con  riduzioni  di  pena  ed altri vantaggi. Cosi' sono nati il nuovo
 patteggiamento e il giudizio abbreviato,  che  hanno  fatto  la  loro
 prima  comparsa  nel testo licenziato nel 1982 dal comitato ristretto
 della commissione giustizia  della  Camera  dei  deputati  (direttive
 rispettivamente  35-  ter  e  39,  lettera  e),  trasfuse  poi  nelle
 direttive 41 e 47, lettera e), del testo approvato dalla  commissione
 giustizia).
    Era  quello il periodo della prima applicazione del patteggiamento
 e della  ostilita'  di  numerosi  giudici  nei  confronti  del  nuovo
 istituto,  che  era  stato  investito con una raffica di eccezioni di
 incostituzionalita', non solo legate a specifici momenti della  nuova
 disciplina ma anche volte ad invalidarla totalmente.
    Era  stato  contestato il ruolo dominante attribuito alle parti ed
 erano nati i paragoni con  prassi  americane  (plea  bargaining)  che
 apparivano   incompatibili  con  il  nostro  sistema  costituzionale;
 sembrava  che  in  un  sol  colpo  fossero  stati  traditi   principi
 fondamentali come quello dell'inviolabilita' della liberta' personale
 (art. 13 della Costituzione), della presunzione di non  colpevolezza,
 della  nulla  poena  sine  iudicio  (art.  27,  secondo  comma  della
 Costituzione) e dell'obbligatorieta'  dell'azione  penale  (art.  112
 della Costituzione).
    Principi  troppo  spesso  intesi  in  senso  solo  formalistico ed
 invocati per conservare un sistema non privo di ipocrisie, nel  quale
 un  ossequio  formale  per  i  diritti  fondamentali della persona si
 unisce  non  di  rado  una  prassi  che  li  disattende   in   misura
 intollerabile.
    Dubbi di un giudice penale non abituato a percepire esattamente la
 sua collocazione nel processo, preoccupato in questo caso di svolgere
 funzioni di tutela dell'imputato, cosi' come in altri casi si e' dato
 e continua a darsi carico di funzioni, di tutela della  collettivita'
 e  di  lotta  all'una  o  all'altra  manifestazione  delittuosa,  che
 spettano piuttosto al p.m. e ad  altri  organi  pubblici.  Dubbi  che
 avevano  determinato  nel  legislatore  del nuovo codice di procedura
 penale  qualche  incertezza  di  cui  e'  traccia   nella   relazione
 dell'on.le  Sabatini  al testo della commissione, ma che tuttavia non
 gli avevano fatto abbandonare la strada intrapresa, coerente  con  le
 direttrici  del nuovo processo, se era esatto il giudizio del Cordero
 che nel commentare gli artt. 77 e segg. della legge n. 689/1981 aveva
 qualificato  molto  accusatoria questa situazione caleidoscopicamente
 variabile, aggiungendo: quest'ancora confuso ordigno  costituisce  un
 segnale  positivo:  se  il  nostro  legislatore fosse attento ai dati
 sperimentali, delle future esperienze forse nascerebbe  qualcosa.  Il
 legislatore  non  ha deluso le attese ed ha continuato a lavorare sul
 nuovo patteggiamento e sul giudizio abbreviato, mettendo a punto  gli
 istituti  ed  ampliandone  la  sfera  di  applicazione.  Superate  le
 perplessita' non e' stato un lavoro controcorrente perche'  dal  1982
 (anno  nel quale le direttive sui due procedimenti avevano cominciato
 a formarsi) al 1987 (anno nel quale sono state definite nei nn. 45  e
 53  della  nuova  delega) molte cose sono cambiate. Il patteggiamento
 della legge n. 689/1981, anche se  con  un  ruolo  marginale,  si  e'
 radicato  nel  sistema  e  nella  cultura  giuridica  e se ne e' anzi
 generalmente auspicato un potenziamento. Dall'auspicio si sono  fatti
 interpreti  i Ministri di giustizia succedutisi dal 1985 ad oggi, che
 hanno tentato di promuovere un potenziamento del  patteggiamento,  ed
 e'  in  questo mutato clima culturale e di opinione che sono maturate
 le scelte del legislatore delegante.
    Ma c'e' di piu': e' mutata in parte la prassi giudiziaria.
    Concessioni  reciproche,  anche  se  non  "patteggiate"  e neanche
 vicendevolmente dichiarate, sono non infrequenti e si legano non solo
 ai fenomeni del c.d. pentitismo con chiamate in correita', ma piu' in
 generale, alla semplice ammissione della propria responsabilita', con
 disponibilita'  a subire sanzioni che, nella misura e nelle modalita'
 di esecuzione introdotte dall'orientamento  penitenziario,  risultano
 accettabili per l'imputato, e accade non infrequentemente che questi,
 specie  se  in   custodia   cautelare,   si   induca   a   rinunciare
 all'impugnazione   per  accellerare  la  definizione  del  proceso  e
 scontare la pena usufruendo delle misure alternative alla detenzione.
    In  realta'  esiste  una  sfera di discrezionalita' di un'ampiezza
 della quale forse non si e' presa ancora piena consapevolezza.
    La  differenza, non di poco conto, e' che nel nostro sistema tutto
 passa attraverso il controllo del giudice.
    E'  in  questo  quadro  normativo  e  di  prassi  che  i due nuovi
 procedimenti vanno visti per valutarne caratteristiche e prospettive.
 La  formula  iniziale  contenuta  nella direttiva 35-ter del comitato
 ristretto, che prevedeva il nuovo patteggiamento per  pene  detentive
 non  superiori  a  tre  mesi  e' stata via via modificata portando il
 limite prima ad un anno, nel testo approvato dalla Camera  (direttiva
 44),  e  infine  a  due anni nel nuovo testo del Senato, poi divenuto
 legge, e si tratta di due anni determinati  in  concreto,  dopo  aver
 operato  quella  riduzione di un terzo della pena irrogabile prevista
 per incentivare il ricorso da  parte  dell'imputato  al  procedimento
 speciale.
    Non occorre sottolineare quanto sia ampia la sfera di applicazione
 del nuovo patteggiamento, che risulta  utilizzabile  per  la  maggior
 parte dei procedimenti penali; va piuttosto rilevato che il passaggio
 dai tre mesi ai due anni ha fatto acquisire la consapevolezza che  ci
 si  trova  di  fronte  ad  un  istituto  totalmente diverso da quello
 introdotto con la legge n. 689/1981.
    Non  si  tratta  di  un  "beneficio", come e' stato qualificato il
 patteggiamento della legge n. 689/1981, e correlativamente  non  sono
 state previste esclusioni per alcuni reati, ne' condizioni soggettive
 ostative... Omissis...
    A  ben  vedere  la  parentela  del nuovo patteggiamento con quello
 della legge n. 689/1981 risulta alla fine abbastanza remota.
    Con  riferimento  al  patteggiamento  della  legge n. 689/1981 era
 stata  prospettata  la   tesi   che   l'applicazione   su   richiesta
 determinasse  una  modificazione  della natura della sanzione, mentre
 ora quella che viene  applicata  e'  indiscutibilmente  una  sanzione
 penale.  E'  venuta  meno anche qualunque ragione di incompatibilita'
 con la sospensione condizionale della pena, in quanto non ci si trova
 piu'  in presenza di un meccanismo estintivo come quello dell'art. 77
 della  legge  n.  689/1981,  che  puo'  apparire   alternativo   alla
 sospensione condizionale e collegato all'esecuzione della sanzione.
    E la novita' non e' di poco conto, perche' uno degli ostacoli alla
 diffusione del patteggiamento della legge  n.  689  e'  rappresentato
 proprio   dalla   sua   alternativita'   rispetto   alla  sospensione
 condizionale della pena, che l'imputato nella maggior parte dei  casi
 considera piu' conveniente... Omissis...
    In conclusione il nuovo patteggiamento e' un procedimento speciale
 con un unico limite segnato dall'entita'  della  pena,  nel  caso  di
 reati  puniti  con  la  reclusione  o  con l'arresto; un procedimento
 caratterizzato da un accordo tra imputato e pubblico ministero  sulla
 sanzione  da  applicare  e da una correlativa modificazione del rito,
 che si esemplifica e da' luogo a un  esito  parzialmente  diverso  da
 quelli generali... Omissis...
    Nel  patteggiamento  il giudice e' vincolato dalla richiesta delle
 parti, nel senso che non puo' applicarsi una  sanzione  diversa,  ne'
 riggettare la richiesta perche' ritiene incongrua la pena.
    E'  il testo della direttiva, nella formula risultante, in seguito
 alla modifica apportata dal Senato  che  ha  imposto  questo  schema,
 coerente  in un sistema che intende valorizzare il ruolo delle parti.
 La differenza tra il testo della Camera e quello del Senato e'  netta
 perche'  dal  primo,  che  conteneva  le  parole  "previsione  che il
 giudice..., in caso  di  accoglimento,  applichi  la  sanzione  nella
 misura  richiesta"  e  non  si vede quale altro significato dare alla
 soppressione se non quello di sottrarre al giudice ogni apprezzamento
 discrezionale   sulla   richiesta.  In  questo  senso  del  resto  la
 modificazione e' stata intesa, anche  se  con  qualche  perplessita',
 dall'on.le  Casini,  quando nella sua ultima relazione alla Camera ha
 in proposito  osservato  che  il  testo  del  Senato  sembra  rendere
 obbligatoria  la  pronuncia  del giudice una volta che ci sia accordo
 tra p.m. e imputato.
    Tutto  considerato  pero' il vincolo per il giudice finisce con il
 risultare meno astratto di quanto appaia a prima vista.
    Infatti  al  giudice  resta il potere di decidere in modo difforme
 quando  non  condivide  il  quadro  giuridico  entro  cui  e'   stata
 determinata  la  pena,  quadro  che  e'  costituito  non  solo  dalla
 qualificazione  del   fatto,   ma   anche   dell'applicazione   delle
 circostanze  e  dal  giudizio  di  comparazione,  e  se  si considera
 l'incidenza  che  nella  realta'  hanno   il   riconoscimento   delle
 attenuanti generiche e il giudizio di comparazione diviene chiaro che
 resta al giudice il potere di non sanzionare con la propria decisione
 trattamenti  di  eccessivo  favore,  visto che questi non possono che
 passare attraverso l'applicazione dell'art. 62 - bis del c.p.  e  una
 valutazione di prevalenza... Omissis...
    Di  fronte  alla richiesta delle parti al giudice quindi non resta
 che verificare la  correttezza  della  qualificazione  giuridica  del
 fatto,   dell'applicazione   delle  circostanze  e  del  giudizio  di
 comparazione;  non  gli  si  chiede  un  positivo   accertamento   di
 responsabilita',  ma  si  dice  espressamente che deve pronunciare il
 proscioglimento se gli risulta  che  il  fatto  non  sussiste  o  che
 l'imputato  non lo ha commesso o che il fatto non costituisce reato o
 che il reato e' estinto o che manca una condizione di procedibilita'.
 La  motivazione  ha  una struttura molto semplice e il dispositivo e'
 costituito dall'applicazione della pena e dalla enunciazione "che  vi
 e' stata la richiesta delle parti".
    Reazioni  negative,  all'istituto in esame, non sono pero' affatto
 mancate e, per compiutezza di indagine,  debbono  essere  rammentate,
 anche per l'autorevolezza delle fonti. Si fa riferimento al Leone, al
 Dell'Andro (il quale, nel corso di un incontro di studiosi sul  nuovo
 processo  penale in Pretura, dopo le prime applicazioni dello stesso,
 ha osservato, tra l'altro, secondo quanto riportato dalla stampa  "Si
 e'  parlato di processi lunghi e sono previsti i riti speciali; ma se
 il nuovo codice di procedura penale deve  servire  per  eliminare  il
 dibattimento,  non  posso  essere d'accordo"; ed, ancora, al Virgilio
 (il quale in un articolo  pubblicato  su  un  noto  quotidiano  della
 capitale  il  5 dicembre 1989 dal titolo "Subito da emendare il nuovo
 codice" ha rilevato: "... Omissis... e' sufficiente porre in evidenza
 che  l'istituto del patteggiamento della pena, appare il piu' lontano
 dalla nostra cultura giuridica.
    Attraverso   il  meccanismo  della  pena  su  richiesta  di  parte
 (imputato e p.m.) il giudice si spoglia parzialmente  della  funzione
 di  infliggere  la  sanzione  ritenuta  congrua al fatto reato di cui
 abbia acquisito la  prova,  limitandosi  in  sostanza  a  convalidare
 l'accordo  intervenuto  tra  i soggetti suindicati, con esclusione di
 ogni efficace ingerenza della persona offesa dal fatto criminoso.
    Per  dimostrare  quanto  cio'  contrasti  con  i principi generali
 dell'ordinamento giuridico basta ricordare che perfino nella  materia
 civile  e'  vietato  rimettere  alla  decisione  di arbitri, cioe' di
 giudici  privati,   nominati   dalle   parti,   alcune   controversie
 particolari,  per  le  quali  e'  ritenuto indispensabile l'esercizio
 della potestas decidendi del giudice dello Stato.
    Il patteggiamento e altri profili del codice vanno necessariamente
 emendati con urgenza, in attesa che il  tempo  faccia  emergere  piu'
 compiutamente  sia  gli  aspetti  positivi  che  negativi della nuova
 disciplina".
    E,  mentre  il  Grevi,  sul  "Corriere della Sera" del 16 novembre
 1989, ha raccomandato che: "...Si eviti un ricorso troppo disinvolto,
 e  percio',  obiettivamente iniquo, al nuovo modello processuale: sia
 da parte dell'imputato (che, mal consigliato, potrebbe talora indursi
 ad accettare pene piu' elevate del dovuto), sia, soprattutto da parte
 del  p.m.  (che,  spinto  dal  desiderio  di   concludere,   potrebbe
 accordarsi  su pene troppo lievi, tale da sconcertare il comune senso
 di giustizia); a quest'ultimo proposito e' necessario  che  il  p.m.,
 nel prestare il proprio consenso in sede di patteggiamento, si faccia
 carico - come non sempre e'  avvenuto,  a  quanto  pare,  nei  giorni
 scorsi  -,  di  tutti  gli interessi pubblici collegati alla funzione
 repressiva ivi compreso, l'interesse alla applicazione  di  una  pena
 adeguata  al  disvalore sociale del reato e alla gravita' dell'offesa
 causata alle vittime", il Messina, in un articolo su  Rivista  penale
 n. 10 del 1989 dal titolo: Arretramento della linea di difesa sociale
 con nuovo codice di procedura penale  (Intorno  ad  alcuni  dubbi  di
 illegittimita'  costituzionale)  ha  assunto  una  posizione di netto
 contrasto  con  l'istituto  in  esame,  merce'  varie  ed  articolate
 argomentazioni alle quali si rinvia.
    Infine,  sempre dalla stampa, si e' appreso che varie questioni di
 costituzionalita' sono state  gia'  sollevate  con  riferimento  allo
 stesso istituto.
    In  particolare,  verso la fine dell'ottobre 1989, il tribunale di
 Firenze ha rimesso gli atti a codesta Corte con riferimento  all'art.
 248  delle  disposizioni  di attuazione del c.p.p (applicazione della
 pena, su richiesta delle parti).
    Tale  rinvio  e'  scaturito dalle osservazioni dei difensori degli
 imputati del resto di diffamazione a mezzo stampa, ai quali era stato
 negato  il ricorso al patteggiamento in un procedimento gia' rinviato
 due volte, prima dell'entrata in vigore della riforma del c.p.p.  Gli
 stessi difensori avevano osservato che l'art. 248, ora citato, incide
 sulla  pena  e,  quindi,  si  e'  al  cospetto,  non  di  una   norma
 processuale, ma sostanziale. Pertanto non possono avere importanza le
 formalita'  di  apertura  del  dibattimento  se  la  condizione   del
 cittadino  imputato  resta  identica,  con conseguente violazione del
 principio di eguaglianza tra gli imputati  di  un  procedimento  gia'
 iniziato prima dell'entrata in vigore del nuovo codice e quella di un
 processo con inizio successivo.
    Nel  novembre  dello stesso anno, il tribunale di Busto Arsizio ha
 rimeso gli atti a codesta Corte, in relazione agli artt.  444  e  445
 del  c.p.p.  per violazione degli artt. 3 e 24 della Costituzione, in
 quanto il patteggiamento tra difesa ed accusa non lascia spazio  alla
 parte civile.
    Ancora,  il pretore di Vercelli, sempre nel novembre 1989, ha pure
 lui, rimesso gli atti a codesta Corte, in relazione all'art. 444  del
 c.p.p.  per  violazione  degli  artt.  101  e  24 della Costituzione,
 affermando, tra l'altro, nella  sua  ordinanza  (riportata  in  parte
 dalla  stampa  nazionale):  "Il  fatto  che una sentenza possa essere
 emanata  sulla  sola  base  di  atti  compiuti  durante  le  indagini
 preliminari,  qualunque  spessore semantico tali atti abbiano, sembra
 comporatare che una condanna possa essere emanata senza  accertamento
 di   responsabilita',   riducendo   entro   tali  limiti  angusti  la
 possibilita' concreta di emettere una pronunzia".
    Infine, il tribunale di Pistoia ha pure rimesso gli atti a codesta
 Corte, affermando che il c.d. patteggiamento  violerebbe  l'art.  101
 della  Costituzione  perche'  il collegio giudicante verrebbe privato
 del potere di determinazione di una pena adeguata alla  gravita'  del
 reato,  non  in base ad una situazione rigorosamente prefissata dalla
 legge,  ma  a  causa  dell'esercizio  di  un   potere   discrezionale
 attribuito alle parti (imputato e p.m.) e, comunque, non sindacabile.
    Cio'  premesso,  rivela,  anzitutto,  questo pretore, che, secondo
 l'orientamento  unanime  dottrinale  e  giurisprudenziale  (anche  di
 codesta  Corte),  compito  del giudice e' l'applicazione delle leggi,
 con la necessaria interpretazione delle stesse,  e  la  possibilita',
 qualora si ravvisi una questione di costituzionalita' rilevante e non
 manifestatamente infondata, di rimettere gli atti a codesta Corte per
 la  decisione  in  merito  (art. 134 della Costituzione; art. 1 della
 legge costituzionale 9 febbraio 1948 e artt. 1 e 23  della  legge  11
 marzo 1953, n. 87).
   Pertanto,  pur  dovendosi  tener  conto  -  specie  al  cospetto di
 recentissime normative e di nuovi  istituti  -  di  quanto  e'  stato
 osservato  da che si e' soffermato sugli stessi (e cio' giustifica la
 premessa della presente ordinanza), non si puo', a parere  di  questo
 pretore,   rimanere   suggestionati   dalle  fonti  autorevoli  e  da
 valutazioni tecnico-giuridiche,  che  sembrerebbero  -  prima  facie,
 sospinti  da  una  certa emotivita' inconscia - quasi ineccepibili ed
 indispensabili, sia in senso favorevole che in senso contrario.
    Conseguentemente,  anche  con riferimento all'istituto della "Pena
 su richiesta delle parti" previsto dalle norme sopra  indicate  (c.d.
 patteggiamento) - istituto che interessa il caso in esame l'approccio
 deve avvenire con serenita', senza prevenzione alcuna, non  potendosi
 disconoscere,  in  linea di principio, che lo stesso, come gli "altri
 riti  differenziati  per  una  gamma  assai  ampia  di   imputazioni,
 costituisce   una   scelta   coraggiosa,   tanto   che,  buona  parte
 dell'efficienza del nuovo codice e' stata affidata a questo  istituto
 che,  consente,  non  solo  di  risparmiare tutto il dibattimento, ma
 anche di eliminare un grado di impugnazione, vista l'inappellabilita'
 della  sentenza emessa su accordo delle parti" (relazione al progetto
 preliminare sopra indicata).
    Si  e'  poi ossevato che al giudice resta il potere di decidere in
 modo difforme dalla richiesta di applicazione dell'istituto in esame,
 quando  non  condivide  il  quadro  giuridico entro il quale e' stata
 determinata la  pena,  quadro  che  e'  costituito,  non  solo  dalla
 qualificazione   del   fatto,   ma   anche   dall'applicazione  delle
 circostanze e del giudizio di comparazione (art. 444, secondo  comma,
 del c.p.p.).
    Invece  il  giudice  e'  vincolato  all'entita'  della  pena; cio'
 risulta coerente con un "processo di parti" e, non  puo'  sorprendere
 il  fatto  che  lo  stesso  giudice  non possa applicare una sanzione
 maggiore o minore di quella concordata, ne' rigettare la richiesta  e
 procedere  con  le  forme  ordinarie, soltanto perche' ritiene che si
 dovrebbe applicare una sanzione diversa.
    In  particolare,  se si considera che e' il p.m. l'organo titolare
 dell'azione, non puo' meravigliare il fatto che il giudice non  possa
 applicare una sanzione maggiore di quella richiesta.
    Questo  limite, oltre che sul c.d. patteggiamento, e' presente nel
 procedimento per decreto, ma, a ben vedere, un divieto piu' generale,
 per il giudice, di andare nell'applicazione della pena, ultra petita,
 mentre non sarebbe  concepibile  in  un  sistema  inquisitorio,  come
 quello  gia'  vigente,  potrebbe  risultare  in sintonia con il nuovo
 sistema (Lattanzi sopra citato).
    Pur  se tali considerazioni possano ritenersi valide (e cio' sara'
 oggetto di un ulteriore specifico esame da parte di questo  pretore),
 ne  discende,  pero',  senza  alcun  dubbio,  che le stesse non siano
 compatibili con il sistema de codice del 1930.
    A  questo  punto,  sempre  con  riferimento a quest'ultimo codice,
 sembra opportuno far presente a codesta Corte,  quanto  dalla  stessa
 precisato  con  sentenza  n. 120 del 30 aprile 1984 (richiamata anche
 nei lavori preparatori al nuovo c.p.p.) e, con  successive  ordinanze
 n.  203  e  204  del  9  luglio  1984,  sia pure con riferimento alle
 sanzioni sostitutive di cui agli artt. 77, primo comma,  78,  secondo
 comma,  della legge n. 689/1981 in relazione all'art. 79 della stessa
 legge, sanzioni ritenute anch'esse risultato  di  un  patteggiamento,
 ben  diverso  pero'  da  quello  previsto dagli artt. 444 e segg. del
 c.p.p. del 1989.
    Invero,  pur  con  le  notevoli  differenze  or ora evidenziate, i
 criteri seguiti da codesta Corte al cospeto di numerose ordinanze  di
 rimessione  per  non  manifesta infondatezza della questione relativa
 alle norme contenute nella legge  n.  689/1981,  gia'  indicate,  per
 violazione  degli artt. 24 e 101, secondo comma, 3, primo comma, 102,
 primo comma, e 111, secondo comma, della  Costituzione,  meritano  di
 essere testualmente riportati:... 0missis...
    Fino  a  che il dibattimento non sia stato aperto, la formulazione
 di un parere negativo con efficacia  vincolante  da  parte  del  p.m.
 altro non significa che preclusione ad un epilogo del procedimento in
 anticipo  rispetto  alla  fase  processuale  maggiormente  garantita,
 qual'e' il dibattimento imperniato sul contraddittorio diretto tra le
 parti. In altre parole,  il  no  del  p.m.,  circoscritto  alle  fasi
 dell'istruzione  e degli atti predibattimentali, equivale, in armonia
 con le normali prerogative del p.m., ad una  determinata  scelta  del
 rito  processuale,  nel  senso  di  un  passaggio - assolutamente non
 eludibile  con  la  sentenza  che  dichiara  estinto  il  reato   per
 intervenuta  applicazione  della  sanzione  sostitutiva  su richiesta
 dell'imputato - alla fase del  dibattimento:  fase  nel  corso  della
 quale   le  parti  avranno  la  piena  possibilita'  di  tutelare  le
 rispettive  posizioni,  in  parita'  di   armi,   compresi   sia   il
 mantenimento  della  richiesta  di  una sanzione sostitutiva ai sensi
 dell'art. 77, primo comma, della legge  n.  689/1981,  sia  un  nuovo
 interpello  del  p.m.,  ed  il giudice avra' ogni potere decisionale,
 compreso quello  di  accogliere  o  no  la  richiesta  dell'imputato,
 indipendentemente dall'atteggiamento assunto dal p.m.
    Cosi'  circoscritta  alle fasi precedenti il dibattimento di primo
 grado, la norma che conferisce portata vincolante al parere  negativo
 del   p.m.   non   contrasta,   dunque   con  nessuno  dei  parametri
 costituzionali invocati.
       a)  non  con  il  primo  comma  dell'art.  3 della Costituzione
 perche' le ragioni del p.m. contrarie alla  richiesta  dell'imputato,
 non  si  impongono  in  modo definitivo al giudice, ma anch'esse come
 quelle dell'imputato, riceveranno obiettiva ed imparziale valutazione
 nella  fase del dibattimento; la differenza riscontrabile fra p.m. ed
 imputato  per  le  fasi   che   precedono   il   dibattimento   trova
 giustificazione  nelle esigenze sottostanti all'esercizio dell'azione
 penale, sulle cui forme e  modi  il  legislatore  chiama  il  p.m.  a
 vigilare, sino al punto di addivenire ad uno sdoppiamento tra pretore
 e  procuratore   della   Repubblica   nei   momenti   piu'   delicati
 dell'intervento pretorile;
       b) non con l'art. 24, primo e secondo comma della Costituzione,
 perche' la richiesta dell'imputato non viene ad essere  sottratta  in
 modo  definitivo  alla valutazione del giudice, restando acquisita al
 processo, in attesa di un  piu'  approfondito  esame  contraddittorio
 della fase dibattimentale;
       c)  non  con  l'art.  101,  secondo  comma, della Costituzione,
 perche', con il pretendere  il  passaggio  al  dibattimento  il  p.m.
 lascia  intatte,  anzi  esalta,  le attribuzioni di organo giudicante
 proprie del giudice, nella pienezza della sua liberta' di valutazione
 e   di   convincimento,   ben   potendo   questi   emettere  in  sede
 dibattimentale qualsiasi tipo di sentenza, compresa  la  declaratoria
 di  estinzione del reato, per applicazione della sanzione sostitutiva
 su richiesta dell'imputato;
       d)  non  con  l'art.  102,  primo  comma,  della  Costituzione,
 perche', cio' che attiene  all'esercizio  dell'azione  penale,  nelle
 varie  forme  di impulso processuale previsto dal legislatore, com'e'
 il caso di ogni richiesta vincolante di passaggio al dibattimento  da
 parte del p.m.: se pur evidentemente implica una valutazione in senso
 logico  delle  prove  raccolte,  non  per  questo   acquista   natura
 decisoria,  essendo  diversa dal giudizio in senso tecnico, in quanto
 non contiene alcuna decisione sulla notitia criminis,  cosi'  da  non
 sconfinare  nel  campo dell'attivita' decisoria riservata al giudice,
 una  diversita',  che  nella   fattispecie,   risulta   ulteriormente
 sottolineata,  quando  si  tratti di procedimenti pretorili, dal gia'
 ricordato sdoppiamento di compiti tra  pretore  e  procuratore  della
 Repubblica;
       e)  non  con  l'art.  111,  secondo  comma, della Costituzione,
 perche', per le ragioni dianzi precisate, un  parere  negativo  dalla
 cui  formulazione  discende  soltanto  la  necessita' di far posto al
 dibattimento,  non  integra  in  alcun  modo  gli   estremi   di   un
 provvedimento decisorio da sottoporre a ricorso per cassazione.
    In definitiva, codesta Corte, con riferimento al c.p.p. del 1930 e
 successive   modificazioni,   stabiliva   i   ruoli   ben    definiti
 dell'imputato,  del  p.m.  e del giudice, riconoscendo a quest'ultimo
 "le attribuzioni di  organo  giudicante,  nella  pienezza  della  sua
 liberta'  di  valutazione  e di convincimento". E, si trattava di una
 sentenza di proscioglimento per estinzioni del reato|
    Occorre,  tuttavia,  svolgere  un  ulteriore  indagine  per quanto
 concerne l'applicazione dell'istituto in esame, anche con riferimento
 al  nuovo  c.p.p.,  che,  come si e' gia' detto, viene considerato un
 "processo di parti" sino al  punto  di  non  consentire  al  giudice,
 proprio  nel caso di "pena su richiesta delle parti", di pronunciarsi
 ultra petita, cosi' come avviene  nel  codice  di  rito  civile;  non
 tenendo  presente,  pero',  che,  come e' stato giustamente osservato
 (Virgilio cit.) "persino in materia civile e' vietato rimettere  alla
 decisione di arbitri, cioe' di giudici privati, nominati dalle parti,
 alcune  controversie  particolari,   per   le   quali   e'   ritenuto
 indispensabile l'esercizio della potestas decidendi del giudice dello
 Stato".
    Deve rivelarsi, comunque, che appare davvero strano che proprio in
 un  processo  di  "parti"  con  il  controllo,  la  terzieta'  e   la
 centralita'  del  giudice,  si  finisce,  con  l'istituto in esame, a
 costringerlo, su richiesta delle parti, ad emettere, al di fuori  del
 tanto  declamato  e  valorizzato  dibattimento  del nuovo c.p.p., una
 sentenza "equiparata ad una pronuncia di condanna (?)  salve  diverse
 disposizioni  di  legge  ex  art.  445  del c.p.p. del 1989, peraltro
 inappellabile ex art. 448 s.c.
    Cio'  senza  aver potuto stabilire la congruita' della pena, sulla
 base  di  un  pur  sempre  necessario  accertamento  di  colpevolezza
 dell'imputato (altrimenti, sia pure con estrema difficolta', dovrebbe
 esser pronunciata sentenza di  proscioglimento  ex  art.  129)  senza
 potersi  avvalere  della discrezionalita' stabilita dall'art. 132 del
 c.p. vigente e, soprattutto, dei criteri obbligatori per  l'esercizio
 di  tale  discrezionalita'  previsti dall'art. 133 s.c. (Gravita' del
 reato. Valutazione agli effetti  della  pena),  art.  133-  bis  s.c.
 (Condizioni  economiche  del reo; valutazione agli effetti della pena
 pecuniaria) e della facolta' di  cui  all'art.  133-  ter  (pagamento
 rateale  della  multa o dell'ammenda); norme queste del codice penale
 vigente.
    A  parere  di  questo pretore, i poteri-doveri di cui si e' teste'
 detto, dovrebbero, sia pure con gli adattamenti del caso,  esplicarsi
 anche  al cospetto di una "pena su richiesta delle parti" senza cosi'
 snaturare l'istituto del "nuovo patteggiamento" e  dei  suoi  effetti
 positivi gia' riconosciuti in premessa; tenendo conto, anzitutto, che
 il giudice, ex art. 444 n. 2, sulla base degli atti, deve controllare
 la  qualificazione  giuridica  del  fatto  e  che l'applicazione e la
 comparazione delle richieste prospettate dalle parti siano  corrette;
 inoltre  che,  secondo  quanto stabilito dall'art. 444 del c.p.p.: se
 l'imputato, nel formulare la richiesta, subordina  l'efficacia  della
 stessa  alla  sospensione  condizionale  della  pena,  il giudice, se
 ritiene che la sospensione, non  puo'  essere  concessa,  rigetta  la
 richiesta;  ed,  infine,  che  ex art. 448 s.c., allorquando vi e' il
 dissenso motivato del  p.m.  sulla  richiesta  della  pena  formulata
 dall'imputato,  lo  stesso giudice procede al dibattimento (con tutte
 le conseguenze e le novita'  che  lo  stesso  comporta)  e  pronuncia
 immediatamente  la  sentenza  di  cui all'art. 444, n. 2, ove ritenga
 ingiustificato  il  dissenso  del  p.m.  e   congrua   la   richiesta
 dell'imputato.
    Cio'  significa,  in  sostanza,  a  parere di questo pretore, che,
 tutto  sommato,  l'istituto   in   esame,   sia   pure   con   palesi
 discriminazioni  che non dovrebbero essere consentite ex art. 3 della
 Costituzione, non e', ne' deve  essere  lasciato  completamente  alle
 libere  iniziative  o  all'arbitrio  delle parti per esplicare la sua
 valenza secondo l'ottica del nuovo c.p.p.
    Da  tutto  cio' consegue comunque, anzitutto, che l'art. 248 delle
 norme   transitorie   al   c.p.p.   (che   consente    l'applicazione
 dell'istituto  anche  ai  procedimenti in corso che si trovano in una
 fase diversa da quella istruttoria, ex art. 241 e segg. delle  stesse
 norme  transitorie  e  per  i  quali  non si e' potuto attuare quanto
 previsto  da  sistema  del  nuovo  c.p.p.  (come  e'   accaduto   nel
 procedimento  penale  a  carico dell'imputato Clemente), puo' violare
 gli  artt.  3,  101  della  Costituzione,  in  quanto,  a  situazioni
 chiaramente differenziate si vuol applicare la stessa disciplina, con
 palese dispregio del principio di  eguaglianza  ed,  inoltre,  ad  un
 giudice   che   deve   svolgere   ancora   la  sua  funzione  con  le
 caratteristiche desumibili dal codice abrogato, (caratteristiche  che
 conserva   per  i  procedimenti  ex  artt.  241  e  242  delle  norme
 transitorie   al   c.p.p.)   si   sottraggono,   con   l'applicazione
 dell'istituto  in  esame,  i  poteri  di una piena giurisdizione e la
 soggezione, ingiustificata, alla decisione  ampiamente  discrezionale
 dell'imputato e del p.m., sia pure soltanto in ordine alla congruita'
 della pena, in un procedimento che di  parti  non  e',  peraltro  con
 sentenza di condanna inappellabile.
    Inoltre,  sempre  tenendo  conto  delle  caratteristiche  e  delle
 prerogative del giudice nel sistema del codice abrogato,  questi,  al
 cospetto  di  una  richiesta  di  patteggiamento  potrebbe e dovrebbe
 pronunciare  sentenza  di   proscioglimento   ex   art.   248   delle
 disposizioni  transitorie  con  riferimento  agli artt. 421 e 152 del
 codice abrogato, sulla base di atti - ben diversi da quelli  previsti
 dal  nuovo  codice  - sino al compimento delle formalita' di apertura
 del dibattimento di primo grado, con possibile contrasto del suddetto
 art.  248  anche  in  questo  caso,  con gli artt. 3, 101 e 102 della
 Costituzione. Occorre aggiungere che, a parere di questo pretore,  la
 non  manifesta  infondatezza  delle  questioni teste' prospettate non
 puo' considerarsi inficiata dalla  circostanza  che,  trattandosi  di
 norme  transitorie,  le stesse si riferiscono, presumibilmente, ad un
 numero limitato di procedimenti, e  cioe'  a  quelli  previsti  dagli
 artt.  241  e 242 delle disposizioni transitorie, in quanto, sia pure
 in relazione a tali processi, le norme costituzionali debbono  essere
 rispettate.
    Si   e'   d'avviso,  altresi',  che,  la  diminuzione  della  pena
 automaticamente stabilita dall'art. 444 cit., essendo applicabile  in
 funzione   della   scelta   di  un  rito,  tanto  da  denominarsi  di
 "meritorieta' processuale", prescindendo  dalla  gravita'  del  reato
 commesso  e  dalla  valutazione della personalita' del colpevole puo'
 violare, cosi' come si e' avvvertito dalla dottrina, l'art. 27  della
 Costituzione,  col  qualle si prescrive che la pena deve tendere alla
 rieducazione del condannato.
    Inoltre,  laddove  l'istituto  in  esame  non  venga  integrato  e
 corretto, nel senso sopra precisato, in ordine all'accertamento della
 colpevolezza  dell'imputato  (senza  inammissibile  valore  di  prova
 legale  alla  richiesta  di  pena   da   parte   dello   stesso)   ed
 all'applicazione  del potere discrezionale nella determinazione della
 pena ex art. 132 e segg.  del  c.p.,  rimane  affievolito  il  potere
 giurisdizionale  del  giudice, con devoluzione di parte dello stesso,
 non solo al p.m., ma  anche  allo  stesso  imputato  e,  quindi,  con
 possibile  violazione  degli  artt.  101,  secondo  comma, 102, primo
 comma, 24 e 25, primo comma, della Costituzione.
    Cio',   perche',  dando  esclusivo  rilievo  alla  convergenza  di
 interessi che le parti abbiano a  definire  il  giudizio,  significa,
 pure, distogliere, l'imputato dal suo giudice naturale - che non puo'
 essere il p.m. - e, quindi, non garantisce, neppure, il  vero  dirito
 alla difesa.
    Occorre  rilevare,  infine,  che  la motivazione della sentenza ex
 art. 445 del  c.p.p.  non  puo'  che  esser  ridotta,  con  esclusivo
 riferimento   ad   accertamenti   approssimativi,  piu'  formali  che
 sostanziali, con possibile violazione dell'art. 111 primo comma della
 Costituzione,  secondo  cui  tutti  i  provvedimenti  giurisdizionali
 debbono essere motivati.
    La  rilevanza  delle questioni sollevate, per il caso in esame, e'
 evidente, in quanto  laddove  codesta  Corte  dovesse  ritenerle  non
 manifestamente  infondate,  questo  Pretore,  potrebbe  esaminare  ed
 eventualmente  rigettare  le   richieste   concordate   e   formulate
 dall'imputato  e dal p.m., stabilendo o di procedere col dibattimento
 o di valutare anche  la  congruita'  o  meno  della  pena  richiesta,
 determinandola  con  i criteri di cui agli artt. 132 e 133 del c.p. e
 con sentenza di condanna, adeguatamente motivata.