ha pronunciato la seguente
                               ORDINANZA
 nel giudizio di legittimita' costituzionale dell'art. 1, comma 4, del
 decreto legge 2 marzo 1989, n. 66 (Disposizioni urgenti in materia di
 autonomia   impositiva  degli  enti  locali  e  di  finanza  locale),
 convertito in legge 24 aprile 1989, n. 144,  promosso  con  ordinanza
 emessa  il  20  luglio  1989  dal  Giudice  conciliatore  di Pisa nel
 procedimento civile vertente tra  Mangano  Enrico  e  Viviani  Alfio,
 iscritta  al  n.  528  del registro ordinanze 1989 e pubblicata nella
 Gazzetta Ufficiale della Repubblica  n.  46,  prima  serie  speciale,
 dell'anno 1989.
    Visto  l'atto  di  intervento  del  Presidente  del  Consiglio dei
 ministri;
    Udito  nella  camera  di  consiglio del 31 gennaio 1990 il Giudice
 relatore Vincenzo Caianiello.
    Ritenuto  che  nel  corso  di  un  giudizio  civile promosso da un
 commerciante nei confronti del rappresentante di  una  organizzazione
 sindacale   -   che   aveva  avviato  una  campagna  di  tesseramento
 promettendo di accollarsi le  imposte  comunali  dell'anno  in  corso
 dovute  dai  soci  e che, nella specie, aveva omesso di provvedere al
 pagamento dell'imposta comunale sulle  imprese,  arti  e  professioni
 (ICIAP)  relativa  all'esercizio  commerciale  dell'attore, asserendo
 trattarsi di  tassa  ingiusta  e  quindi  non  dovuta  -  il  giudice
 conciliatore   di   Pisa   ha  sollevato  questione  di  legittimita'
 costituzionale dell'art. 1, comma 4, del decreto legge 2 marzo  1989,
 n.  66,  come convertito nella legge 24 aprile 1989, n. 144, a tenore
 del quale il nuovo tributo  e'  determinato  "in  base  all'attivita'
 esercitata e per classi di superficie utilizzata", secondo la tabella
 allegata al provvedimento legislativo;
      che  il giudice a quo, ritenuta la rilevanza della questione, in
 quanto coinvolgente una norma la cui applicazione  si  porrebbe  come
 "risolutiva"  della  controversia  insorta  tra le parti, denuncia la
 norma impugnata per violazione dell'art. 3 della Costituzione, per la
 discriminazione  che  si  determinerebbe  tra le attivita' lavorative
 colpite ai fini del concorso nelle spese pubbliche,  e  dell'art.  53
 della  Costituzione  in  quanto  il  sistema  "rigido" ipotizzato dal
 legislatore non terrebbe conto della capacita' contributiva effettiva
 che,  a  parita' di attivita' e di superficie utilizzata, puo' essere
 diversa in ragione della  localizzazione  dell'esercizio  commerciale
 (sito  in  una  metropoli  o in un piccolo comune) e che comunque non
 puo' essere determinata con il criterio della "classe di superficie",
 in  quanto criterio espressivo di una mera presunzione di reddito non
 suffragata da riscontri obiettivi;
      che,  ad  avviso  dello  stesso  giudice rimettente, la norma si
 porrebbe altresi' in contrasto  con  l'art.  35  della  Costituzione,
 perche'   verrebbero   penalizzate   le   attivita'   lavorative  che
 necessitano di un certo spazio per il loro svolgimento, anche se  non
 producono redditi vistosi;
      che non si sono costituite le parti private;
      che  e'  invece  intervenuto  il  Presidente  del  Consiglio dei
 ministri, eccependo la inammissibilita' della  questione  sotto  piu'
 profili:  del  difetto  temporaneo di giurisdizione del giudice a quo
 (art. 20 del d.P.R. 26 ottobre 1972, n. 638 richiamato  dall'art.  4,
 comma  8,  del  D.L.  2 marzo 1989, n. 66, come convertito in legge);
 dell'incompetenza per materia del giudice conciliatore adito (art. 9,
 comma  secondo, c.p.c.); del carattere "fittizio" del giudizio a quo,
 che, tenuto conto dei fatti  narrati  nell'ordinanza  di  rimessione,
 denota  che  in  realta'  si  e' in presenza di una controversia solo
 apparente sulla sussistenza o meno della obbligazione di "accollo" di
 imposte,   figura   contrattuale  questa  non  meritevole  di  tutela
 giuridica ai sensi dell'art. 1322, secondo comma, del codice  civile,
 e  comunque nulla, onde l'irrilevanza della questione che concerne la
 legittimita' costituzionale della imposta che avrebbe formato oggetto
 dell'accollo;
      che,  nel  merito,  l'interveniente  ha contestato il denunciato
 contrasto con i parametri costituzionali invocati, concludendo per la
 manifesta infondatezza della questione.
    Considerato  che  ictu oculi risulta che il giudice a quo non deve
 fare applicazione della  norma  impugnata,  dovendo  la  controversia
 essere  definita  in  base  alle  norme  sull'accollo  ed ai principi
 affermati dalla giurisprudenza circa la nullita' delle clausole di un
 negozio  con  cui  una  parte  si  accolla  il  debito  tributario di
 un'altra;
      che, pertanto, la questione di legittimita' costituzionale, come
 gia' ritenuto da questa Corte in un giudizio analogo  (sent.  n.  579
 del  1989),  appare  artificiosamente  formulata,  essendo  del tutto
 irrilevanti  nel  giudizio  a  quo  i  profili  che  attengono   alla
 legittimita' della pretesa tributaria, la quale concerne rapporti che
 intercorrono fra soggetti diversi.
    Visti  gli  artt. 26, secondo comma, della legge 11 marzo 1953, n.
 87 e 9, secondo comma, delle Norme integrative per i giudizi  davanti
 alla Corte costituzionale.