IL GIUDICE PER LE INDAGINI PRELIMINARI
    Ha pronunciato la seguente ordinanza;
    Letti gli atti del fascicolo n. 656/89 r.n.r. - 535/89 r.g. G.I.P.
 nei confronti di Greco Salvatore nato a Catania  il  4  luglio  1937,
 imputato:  del delitto p. e p. dall'art. 4 della legge 7 agosto 1982,
 n. 516, perche', quale titolare di redditi di lavoro  autonomo  e  di
 impresa,   redigeva   le   scritture   contabili   obbligatorie,   la
 dichiarazione annuale dei redditi ovvero il bilancio o rendiconto  ad
 esso allegati dissimulando componenti positivi o simulando componenti
 negativi del  reddito,  tali  da  alterare  in  misura  rilevante  il
 risultato della dichiarazione;
    Accertato in Catania il 26 settembre 1988;
    Vista  la  richiesta  del  p.m.  in ata 18 gennaio 1990 che qui di
 seguito si riporta: "come da fogli allegati" il  p.m.  al  g.i.p.  in
 sede;
    Letti  gli  atti  del  procedimento  penale  n.  656/89 reg. n.r.,
 concernente indagini preliminari nei confronti  di  Greco  Salvatore,
 imputaro  del  delitto di cui all'art. 4, n. 7, della legge 7 agosto,
 n. 516;
                     OSSERVA IN FATTO E IN DIRITTO
    Con rapporto del 26 settembre 1988, il locale ufficio distrettuale
 delle   imposte   dirette   denunziava   Grecco    Salvatore    quale
 rappresentante  legale  della  soc.  fallita  a  r.l.  "Centro  etneo
 distribuzione", giacche', in sede di  controllo  della  dichiarazione
 dei  redditi  mod. 760 afferente all'anno 1983, tali redditi venivano
 rettificati da L. 10.065.000 a L. 134.084.000 ai fini dall'Irpef e da
 L.  12.011.000  a  L.  134.084.000  ai fini dell'Ilor. Nell'avviso di
 accertamento allegato al  rapporto,  la  determinazione  dei  redditi
 veniva  effettuata  applicando  il coefficiente di redditivita' medio
 riscontrato in aziende  similari  (pari  al  10%  sull'ammontare  dei
 ricavi, (ammontanti a L. 1.340.063.740).
    Il  reato  veniva  contestato,  prima  della entrata in vigore del
 d.P.R. 22 settembre 1988, n. 447, con ordine di comparizione  rimasto
 senza effetto.
    Il  procedimento  veniva  indi attratto, giusta il disposto di cui
 all'art. 258 del d.lgs.  29  luglio  1989,  n.  271,  nell'orbita  di
 applicazione del nuovo codice di rito.
    Ritenendo  questo  p.m.,  per  il principio di conservazione degli
 atti processuali, che l'ordine di comparizione suindicato equivalesse
 all'invito  a  presentarsi, previsto dall'art. 375 del c.p.p., veniva
 richiesto  il  c.i.p.  della  emissione  del  decreto   di   giudizio
 immediato.
    L'adito  giudice,  con  decreto  depositato  il  27 dicembre 1989,
 rigettava la  richiesta,  sulla  base  dell'argomentazione  che,  non
 potendosi  stabilire nell'art. 453 del c.p.p. la equiparazione tra il
 previo interrogatorio dell'imputato e l'enunciazione del fatto in  un
 ordine  o  mandato  rimasti  senza  effetto, cosi' come espressamente
 previsto nell'abrogato codice, troverebbe applicazione l'art. 376 del
 c.p.p., che prescrive l'accompagnamento coattivo.
    Con  nota  del  2 gennaio 1990, questo p.m. ritrasmetteva gli atti
 all'ufficio del g.i.p., evidenziando,  sinteticamente,  quanto  sara'
 appresso illustrato.
    Gi  atti  venivano  restituiti dal g.i.p. che, non condividendo la
 tesi del p.m., affermava che l'indagato ha  ben  il  diritto  di  non
 rispondere,  non sussistendo un dovere di collaborazione processuale,
 e non gia' "diritto di sottrarsi all'interrogatorio".
    Tale   ultima   argomentazione   appare  non  solo  destituita  di
 fondamento e inconducente, ai fini che  ne  occupa,  non  venendo  in
 considerazione  ne'  il  principio  di  lealta' processuale ne' alcun
 dovere di collaborazione dell'imputato, ed, anzi, si  palesa  erronea
 l'affermazione   secondo   cui  l'imputato  non  avrebbe  diritto  di
 sottrarsi all'interrogatorio, costituendo invece  tale  comportamento
 manifestazione del diritto di difesa.
    Ed,  invero, va osservato che l'art. 453 del c.p.p. richiede, come
 presupposto per l'instaurazione del  giudizio  immediato  oltre  alla
 "evidenza  della prova", su cui e' superfluo ogni riflessione poiche'
 la nozione e' stata ampiamente elaborata sotto la vigenza del  codice
 di   rito  abrogato  ne'  si  vede  come  possa  essere  cambiata  di
 significati, anche il "previo interrogatorio  dell'imputato".  L'art.
 454  del c.p.p., poi, limita temporaneamente la possibilita' del p.m.
 di ricorrere a tale giudizio,  entro  l'arco  di  tempo  dei  novanta
 giorni  dalla iscrizione della notizia di reato nel registro previsto
 dall'art. 335 del c.p.p.
    I  quesiti fondamentali posti all'attenzione dell'interprete nelle
 prime battute di applicazione del codice, relativamente  al  rito  de
 quo,  sono  incentrati  sulla  funzione  dell'interrogatorio  e sulle
 conseguenze giuridiche dell'inosservanza del  termine  oltreche'  sui
 rimedi    processuali    approntati   dall'ordinamento   avverso   il
 provvedimento deliberativo della richiesta del p.m.
    Il  problema di gran lunga piu' controverso non e' tanto quello di
 stabilire se  sia  sufficiente  l'interrogatorio  condotto  dal  p.m.
 (artt. 364, primo comma, 374, secondo comma, e 388 del c.p.p.) ovvero
 sia necessario l'interrogatorio espletato dal g.i.p.  (art.  294  del
 c.p.p.)  essendo  chiaro  che  la  ratio della norma e' di consentire
 l'eliminazione dell'udienza preliminare e il rinvio dell'imputato  al
 dibattimento,  con  il  noto  effetto  deflattivo, solo se costui sia
 stato posto in grado di esporre le proprie discolpe. Dal  che  deriva
 l'assoluta fungibilita' dei due interrogatori. Su quest'ultimo punto,
 e' sufficiente notare:
      1)  che  manca  nel  nuovo  sistema una norma del tipo di quella
 prevista dall'art. 375 c.p.p. abrogato,  della  previa  contestazione
 del   fatto,   cioe',   come  condizione  per  il  rinio  a  giudizio
 (correlazione   fra   sentenza   e   accusa   contestata),    sicche'
 l'interrogatorio  svolge  oggi  solo  una  funzione  di garanzie e di
 contestazione e non piu' di condizione preliminare per  il  rinvio  a
 giudizio;
      2) che non vi e' una competenza funzionale del g.i.p. in materia
 di interrogatorio, considerazione che appare chiara attraverso  l'uso
 della formula "L'Autorita' giudiziaria" di cui all'art. 65 del c.p.p.
    Focalizzato  questo punto, occorre riflettere su una questione che
 rischia  di   introdurre   un   difficile   contenzioso:   se   possa
 legittimamente porsi la equipollenza, ai fini della valutazione sulla
 sussistenza del presupposto in esame, tra  interrogatorio  e  mancata
 comparizione  dell'imputato  senza  legittimo  impedimento.  In altri
 termini, puo' il p.m. richiedere il  giudizio  immediato,  nel  corso
 degli  altri  presupposti,  qualora  l'imputato non si sia presentato
 spontaneamente (art. 374 del c.p.p.) ne' sia comparso  a  seguito  di
 invito  (art. 375 del c.p.p.) regolarmente notificatogli, pur essendo
 stato egli posto in grado di difenderesi rendendo l'interrogatorio?
    Ritengo  che  la  soluzione  del  problema postuli la capacita' di
 sintonizzarsi con le linee di fondo  del  nuovo  sistema  processuale
 anziche'   far   ricorso   a   letture   delle  norme  apparentemente
 ineccepibili quanto dissonanti e fuorvianti.
    Al riguardo va, anzitutto, osservato che nessun decisivo argomento
 puo' desumersi dall'art. 375, n. 2, lett. d), del c.p.p., laddove  si
 prevede   che   l'invito   a   presentarsi   deve   contenere   anche
 "l'avvertimento che il p.m. potra' disporre  a  norma  dell'art.  132
 l'accompagnamento  coattivo  in caso di mancata presentazione e senza
 che sia stato addotto legittimo impedimento". La  previsione,  ancora
 una volta, ha una mera funzione di conoscenza e di garanzia, giacche'
 e' volta a informare l'imputato che egli e'  soggetto  alla  potesta'
 coercitiva  del  p.m.  (con  o  senza  l'autorizzazione del g.i.p., a
 seconda dei casi). Non si puo' ritenere che  la  norma  abbia  voluto
 porre  post  hoc, propter hoc l'accompagnamento coattivo come normale
 sbocco processuale della non comparizione dell'indiziato. Non vi puo'
 essere,  infatti, un rapporto consequenziale meramente automatico fra
 l'una   e   l'altra   fattispecie,   giacche'    cosi'    discorrendo
 l'accompagnamento coattivo diverrebbe, per il p.m., un atto doveroso,
 in  contrasto  peraltro  con  la   lettera   della   norma   ("potra'
 disporre...").
    L'accompagnamento  coattivo,  poi,  essendo  compreso fra i poteri
 attributi al p.m., da esercitarsi autonomamente  (art.  375,  secondo
 comma,  lett.  d),  del  c.p.p.) ovvero su autorizzazione del giudice
 (art. 376 del c.p.p.) deve  ricollegarsi  unicamente  a  esigenze  di
 natura  processuale  (ad es. la necessita' di disporre della presenza
 dell'inidiato ai fini di un confronto ovvero di una  ricognizione)  e
 deve,  quindi,  avere una giustificazione sua propria, distinta dalla
 finalita' garantista dell'interrogatorio, in  quanto  attingibile  ad
 esigenze di natura investigativa.
    Orbene,  nell'ipotesi  in cui si debba procedere ad interrogatorio
 dell'imputato ex art. 453 del c.p.p., ad un atto, cioe', che non ha -
 nel   sistema  -  necessariamente  una  finalita'  investigativa  (di
 raccolta di elementi o di verifica per lo  sviluppo  ulteriore  delle
 preliminari  indagini) ma e' connotato, come si e' detto, da esigenze
 garantiste,  il  ricorso  all'accompagnamento  coattivo  non  sarebbe
 giustificato  e  si tradurrebbe, in definitiva, nel compimento di una
 formalita' fine a se stessa ponendosi, come tale,  extra  moenia  del
 sistema.
    Inoltre,   nel  caso  che  ci  occupa,  la  mancata  presentazione
 dell'imputato equivale, in assenza di  un  impedimento  legittimo,  a
 rinunzia  a  presentarsi,  rinunzia  che  e'  il  riflesso della piu'
 radicale facolta', prevista dalla legge (art. 65,  terzo  comma),  di
 non  rispondere all'interrogatorio. Tale facolta' e' un momento della
 strategia difensiva e, in buona  sostanza,  costituisce  esternazione
 del  diritto  di  difesa.  E, si badi, tale facolta' viene esercitata
 nonostante l'avvertimento di cui all'art. 375, secondo  comma,  lett.
 d).
    Se  non  si  ritenesse  possibile il ricorso al giudizio immediato
 senza l'interrogatorio, si dovrebbe  conseguentemente  ammettere,  in
 tutti  i  casi, come necessario l'accompagnamento coattivo e cio' non
 solo  finirebbe  per   convalidare   il   concetto   di   automatismo
 sopramenzionato,  ma,  quel  che  e'  piu, grave, si arriverebbe alla
 conclusione (perfettamente  legittima)  di  consentire  all'imputato,
 coattivamente  accompagnato,  di  rifiutarsi poi di rispondere, senza
 che dal rifiuto possa scaturire alcun  effetto  giuridico-processuale
 (ne'  sul  piano  valutativo,  ne'  sul  piano naturalistico). Il che
 equivarrebbe  ad  assegnare  a  siffatti  incombenti   una   funzione
 meramente rituale. A meno che non si voglia affermare che, in caso di
 rifiuto di rispondere, non vi sia un  interrogatorio;  ma  questa  e'
 opinione   seriamente   insostenibile,  stante  che  nella  struttura
 dell'interrogatorio, quale si articola nell'art. 65 del  c.p.c.,  che
 pone   la   sequenza   contestazione-invito  a  discolparsi-discolpa,
 quest'ultima fase e' delineata come eventuale (terzo comma). E'  vero
 che la norma impone che del rifiuto si dia atto in verbale; ma non si
 tratta, forse, di una disposizione pleonastica? Senza tale  menzione,
 infatti,  vi  sarebbe  un  interrogatorio  monco  ovvero incompito e,
 quindi, la norma attinge la  sua  ratio  ad  una  ragione  di  ordine
 logico, ineludibile sostanzialmente.
    D'altronde,  la facolta' di non rispondere e' costruita dal codice
 come manifestazione della difesa, manifestazione che non e'  comunque
 idonea  a  paralizzare  l'ulteriore  corso del procedimento (art. 64,
 terzo comma). Ma, allora perche' dovrebbe consentirsi l'esercizio  di
 questa  funzione  di paralizzazione all'imputato che non compare, dal
 momento che la non comparizione e' in simmetria con il non rispondere
 all'interrogatorio?
    L'interpretazione  dell'art.  453  del  c.p.p. nel senso opposto a
 quello qui  accolto  (necessita'  dell'accompagnamento  coattivo)  si
 porrebbe  in  contrasto  con  lo  spirito  del  codice  di rito e, in
 particolare, con il disposto di cui all'art. 2, secondo comma, n.  1)
 della  legge  16  febbraio  1987, n. 81, di delega all'emanazione del
 cod.di proc. pen., ove si afferma il principio (cardine del  sistema)
 della  "massima  semplificazione  nello  svolgimento del processo con
 eliminazione di ogni atto o attivita'  non  essenziale".  Dunque,  la
 tesi qui criticata porta a ritenere come affetta da eccesso di delega
 e,  quindi,  inficiata  dal  sospetto  di   incostituzionalita',   la
 disposizione  dell'art.  453  del  c.p.p.  nella  parte de qua ove si
 ritenesse obbligatorio il  ricorso  all'accompagnamento  coattivo  in
 caso  di  mancata  presentazione  dell'imputato  invitato a comparire
 esclusivamente ai fini del giudizio immediato. E cio' perche' sarebbe
 quanto  mai  macchinosa  una  procedura  che  imponesse  la  presenza
 coattiva  del'imputato  per  poi  autorizzarlo   a   non   rispondere
 all'interrogatorio
    A  riprova  di quanto fin qui evidenziato, e' d'uopo osservare che
 la nozione di equipollenza fra interrogatorio e mancata  comparizione
 senza  legittimo  impedimento  non  lede il diritto di difesa sancito
 dal'art. 24 della Costituzione e non  interferisce,  quindi,  con  le
 norme  la  cui  osservanza  e' stabilita' a pena di nullita' assoluta
 (art. 179 c.p.p., laddove si fa riferimento  alla  "omessa  citazione
 dell'imputato"  o  alla  "assenza  del  difensore")  o di nullita' di
 ordine  generale  (art.  178,  lett.  c),  in   cui   si   fa   cenno
 "dell'intervento. . . dell'imputato"). La tesi della equipollenza non
 intacca i diritti inviolabili dell'imputato, giacche' non  solo  egli
 viene  invitato  a  comparire  (il  che  basta  per ritenere come non
 vulnerato il principio  di  cui  all'art.  178,  lett.  c)  ma  anche
 avvertito  della  eventualita'  della coercizione nei suoi confronti.
 Semmai e' lesiva del diritto di difesa  costituzionalmente  garantito
 l'interpretazione  dell'art.  453  del  c.p.p. nel senso divisato dal
 g.i.p. di Catania laddove non si riconosce all'imputato il diritto di
 sottrarsi all'interrogatorio.
    Si potrebbe, per ipotesi, congetturare che il principio del previo
 effettivo interrogatorio dell'imputato sia  una  norma  assolutamente
 inderogabile  in  quanto  (oltre a cioe' che si e' sopra confutato in
 ordine alla questione della  non  invalidita'  di  una  richiesta  di
 giudizio  immediato  senza  la preventiva comparizione dell'imputato,
 sempreche' egli sia stato invitato) ad esempio correlata al  concetto
 di   "evidenza"   della   prova,   nel   senso  che  l'interrogatorio
 dell'imputato   sia    un    momento    essenziale,    insopprimibile
 nell'accertamento della evidenza della prova.
    E'  facile obiettare che l'interrogatorio non e' un mezzo di prova
 ne' un mezzo di ricerca della prova. Semmai mezzo di prova e' l'esame
 dell'imputato nel dibattimento a sua richiesta (art. 208 del c.p.p.),
 esame che e' sul piano funzionale e strutturale completamente diverso
 dall'interrogatorio.  E'  vero  che  con  l'interrogatorio l'imputato
 potrebbe addurre mezzi di prova, una volta conosciuti esattamente gli
 elementi  a  suo  carico  ed, eventualmente, anche le fonti di accusa
 (art. 65, primo comma). Ma  e'  altresi'  indubbio  che  la  semplice
 notifica  dell'invito a presentarrsi e' idonea a garantire il diritto
 alla prova dell'imputato, giacche' l'invito deve contenere, riteniamo
 questa volta a pena di nullita' ex art. 178,
 lett. c), del c.p.p. in quanto rileva l'intervento dell'imputato, "la
 sommaria enunciazione del fatto quale risulta dalle indagini  fino  a
 quel momento" (art. 375, n. 3).
    E',  infine,  utile  notare  che  non  vi e' alcun'altra norma che
 faccia discendere la nullita' dalla inosservanza  dell'art.  453  del
 c.p.p., interpretato nel senso qui respinto.
    Restano da esaminare alcune questioni connesse.
    Innanzitutto   la  eventuale  nullita'  del  decreto  di  giudizio
 immediato, emesso dal giudice senza  l'interrogatorio  effettivo,  ma
 con  l'invito  rimasto  senza effetto sotto il profilo dell'art. 178,
 lett. b), e 179, primo comma, del c.p.p., cioe' con riguardo, non  al
 diritto  di  difesa,  ma  alla  "iniziativa  del  p.m. nell'esercizio
 dell'azione penale".
    Ora, non c'e' dubbio che l'azione penale viene esercitata mediante
 la richiesta di giudizio immediato, ex artt. 50 e 405,  primo  comma,
 del  c.p.p.  Ma,  ammessa  l'equipollenza  di  cui sopra, non vi puo'
 essere alcuna inosservannza di norme processuali  che  rifluisca  sul
 disposto  degli  artt.  178,  lett.  b),  e  179  del c.p.p. anche in
 considerazione del fatto che l'attuale  disposizione  ricalca,  senza
 discostarsene, quella di cui all'art. 185, n. 2, del c.p.p. nel testo
 abrogato e, quindi, ancor oggi, costituisce nullita' insanabile  solo
 l'inosservanza  di  norme  processuali  od ordinamentali incidenti in
 modo essenziale sulla partecipazione del p.m. al  procedimento,  come
 nell'ipotesi  di  rappresentante  del  p.m.  sfornito  dei  requisiti
 essenziali  per  ricoprire  tale  carica  ovvero  non  faccia   parte
 dell'ufficio.
    Va,  ancora  osservato,  per  definitivamente  convalidare la tesi
 della equipollenza, che dal  disposto  di  cui  all'art.  184,  primo
 comma,  del  c.p.p.  ("la  nullita'  di  una citazione o di un avviso
 ovvero delle relative comunicazioni e notificazioni e' sanata  se  la
 parte interessata e' comparsa o ha rinunziato a comparire", si ricava
 indirettamente la perfetta equipollenza, sia  pure  entro  i  confini
 della  finalita'  dell'atto  e  della  non invalidita' degli avvisi e
 della successiva sanatoria, tra  la  comparizione  e  la  rinuncia  a
 comparire che, ovviamente, ben puo' essere tacita.
    Il  che dimostra che il concetto di equipollenza non germina da un
 arbitrio  interpretativo,  ma  discende  da  una   serie   di   norme
 legislative   (sopra   citate).   Senza  dire  che  il  comportamento
 acquiscente dell'imputato (che non compare) impedisce, nel prosieguo,
 che  egli  possa  eccepire  la nullita', peraltro insussistente, come
 gia' detto, della richiesta di giudizio immediato ai sensi  dell'art.
 183,  primo  comma, lett. a), del c.p.p. laddove si pone il principio
 della sanatoria delle nullita' generali (non assolute) allorquando la
 parte interessata abbia prestato acquiescenza agli effetti dell'atto.
 E' vero che l'attuale codice non  riproduce  l'art.  376  del  c.p.p.
 abrogato  nella  parte  in  cui  espressamente  veniva  equiparata la
 contestazione all'ordine o  mandato  rimasto  senza  effetto.  ma  la
 considerazione  e' priva di forza argomentativa, giacche' non possono
 confrontarsi sistemi processuali fra loro non omogenei. E,  comunque,
 il  riferimento  al  testo abrogato non puo' sorreggere la tesi della
 non equipollenza.
    E'  appena  il  caso di notare, da ultimo, che ove si ritenesse la
 necessita' dell'interrogatorio (sia che si ammetta  l'obbligatorieta'
 dell'accompagnamento   coattivo   ovvero   la  sua  discrezionalita',
 correlata a effettive esigenze  endoprocessuali),  si  giungerebbe  a
 concepire  il  modo di esercizio dell'azione penale come condizionato
 dal comportamento processuale  dell'imputato,  venendo  sottratta  al
 p.m.  in  conseguenza  della  mancata  presentazione dell'imputato la
 potesta' di scelta del rito,  potesta'  che  invece  e'  dalla  legge
 assegnata in via esclusiva al p.m. Con quanta divergenza dal disposto
 di cui all'art. 112 della Costituzione e' palese.
    Ultima  questione  e'  la  individuazione  dei  rimedi processuali
 avverso il decreto di rigetto del g.i.p.  della  richiesta  formulata
 dal  p.m.  nel  caso che il g.i.p. non condifica l'impostazione della
 equipollenza. Scartata la possibilita' di elevare conflitto, non piu'
 ammissibile  per l'abolizione dell'art. 51, secondo comma, del c.p.p.
 abrogato che prevedeva i cd. conflitti "analoghi", in conseguenza del
 mutato  ruolo del p.m., non rimarrebbe che l'appello o il ricorso per
 cassazione. Tuttavia, nessuno di tali gravami appare esperibile,  per
 mancanza   di   previsione   espressa,   operando   il  principio  di
 tassativita' dei mezzi di impugnazione (art. 568, primo comma) e  non
 rivestendo  il  decreto  de  quo  ne'  i caratteri della sentenza ne'
 quelli  della  ordinanza  che  decide   sulla   liberta'   personale.
 D'altronde  i  provvedimenti del giudice aventi contenuto decisorio o
 emessi autonomamente dalla sentenza che definisce  il  giudizio  sono
 ecccezionalmente  impugnabili  (come  ad  es.  nell'ipotesi  prevista
 dall'art. 437 o dall'art. 586).
    L'art.  455  non  pone nemmeno l'onere della motivazione al g.i.p.
 che rigetti la richiesta di giudizio immediato. Ne consegue che,  non
 essendo   nemmeno   previsto   il   meccanismo  della  "opposizione",
 tradizionalmente riservato al riesame dei decreti (per es. il decreto
 di  condanna),  nessun  gravame  e' esperibile, nella fattispecie. Si
 tratta di sapere se siamo di fronte a una lacuna del legislatore, con
 possibile  profilo  di incostituzionalita' in riferimento all'art. 3,
 primo comma, della  Costituzione,  sembrando  netta  prima  facie  la
 disparita'  di  trattamento  quantomeno rispetto alla fattispecie del
 decreto di condanna, avverso il quale e' previsto uno specifico mezzo
 di  impugnazione  (l'opposizione),  ovvero  se possa dubitarsi che la
 potesta'  legislativa  delegata  sia   stata   razionalmente   usata.
 Certamente elementi di valutazione possono scaturire dall'esame della
 direttiva n. 44) che concerne il giudizio immediato e in cui  non  si
 fa  riferimento  ad  alcuna  impugnazione  del decreto di rigetto del
 g.i.p. E' probabile che  tale  scelta  sia  dipesa  dalla  preminente
 considerazione  che  ogni  "incidente" sulla legittimita' del decreto
 del g.i.p. avrebbe finito per essere incompatibile on la agilita' del
 rito  immediato  e  che,  per cio' stesso, pare necessario attivare i
 meccanismi cd. ordinari (udienza preliminare), ferma restando la  non
 impugnabilita'   del   decreto   di  giudizio  immediato  (del  tutto
 assimilabile all'ordinanza di  rinvio  a  giudizio  o,  meglio,  alla
 richiesta   di   citazione   a   giudizio).   Ma   il   sospetto   di
 incostituzionalita' e' tutt'altro che peregrino.
    Ne   consegue   che   va  sollevata  questione  di  illegittimita'
 costituzionale,  con  riferimento  ai  vari   profili   superiormente
 espressi.
    In  conclusione,  e  riannotando  le  fila  del  discorso  fin qui
 condotto, poiche' il decreto di rigetto della richiesta  di  giudizio
 immediato  non  e'  impugnabile  e poiche' l'interpretazione data dal
 g.i.p. all'art. 453 del c.p.p., nella parte in  cui  non  si  prevede
 l'equipollenza  fra  il  previo  interrogatorio  dell'imputato  e  la
 mancata comparizione, senza legittimo  impedimento,  puo'  costituire
 violazione  degli  artt.  3, 24, 76 e 112 della Costituzione, sotto i
 profili della disparita' di trattamento per fattispecie analoghe (per
 il decreto di condanna e' prevista e non per il decreto di rigetto de
 quo), della lesione del diritto di difesa (riguardo al fatto  che  si
 finirebbe per non consentire all'imputato un comportamento - quale la
 non presentazione  -  che  e'  pura  manifestazione  del  diritto  di
 difesa),  dell'eccesso  di  delega (in quanto tale interpretazione si
 pone in palese contrasto con l'art. 2, secondo  comma,  n.  1,  della
 legge   n.  81/1987)  e  dell'azione  penale  obbligatoria  (giacche'
 accogliendo la tesi del g.i.p., si giungerebbe alla  conclusione  che
 un comportamento processuale dell'imputato sarebbe idoneo a spogliare
 il p.m. della potesta' di scelta del rito, che a tale organo la legge
 assegna   in   via   eslusiva),  e'  d'uopo  sollevare  questione  di
 legittimita' costituzionale.
    Ora,  poiche'  la  questione  e'  rilevante,  tant'e'  che  si  e'
 determinata una situazione di stallo, e non manifestamente infondata,
 si  chiede,  ai  sensi dell'art. 23 della legge 11 marzo 1953, n. 87,
 che la S.V., sospeso l'odierno procedimento  ordini  la  trasmissione
 degli  atti  alla  Corte  costituzionale,  onde  investire  il  detto
 consesso della questione come sopra proposta.
      Catania, addi' 18 gennaio 1990
               Il procuratore della Repubblica: GIORDANO