LA CORTE D'APPELLO RITENUTO IN FATTO Nel corso di quello che nella appellata sentenza 21 maggio 1987 del tribunale di Torino e' definito il cosiddetto "primo blitz" disposto dalla procura della Repubblica di Torino per l'accertamento e la repressione dei reati di evasione fiscale, venivano eseguite indagini nei confronti di Brizio Matteo e Vaira Fiorenza, titolari di varie attivita' commerciali e in particolare soci della S.n.c. Bar Zucca Di Brizio & C. Veniva sequestrata, nel corso di perquisizioni nel domicilio dei coniugi Brizio-Vaira e nei luoghi in cui essi esercitavano la loro attivita', una ingente documentazione bancaria e contabile. L'imputato Brizio compariva spontaneamente il 28 giugno 1985 avanti al p.m. (f. 67) e dichiarava in sintesi quanto segue, per quanto qui interessa. Il Bar Zucca era in proprieta' e gestito dalla S.n.c. Bar Zucca di Brizio & C., di cui erano soci lui e la moglie (e dal 1985 anche i figli). Per quanto riguardava il Bar Zucca, per l'esercizio 1983 il "nero" ammontava a circa L. 400.000.000 e per quello 1984 a circa L. 600.000.000. Quanto all'esercizio 1984 aveva inserito nella dichiarazione dei redditi (mod. 750) anche il "nero", cercando di ricostruirlo in modo induttivo. Il "nero" si formava non registrando le entrate, cioe' non battendo alla cassa l'importo delle consumazioni. Il p.m. disponeva perizia contabile, assegnando al perito rag. E. Stasi l'incarico di accertare quali fossero stati il volume d'affari, i ricavi e i conseguenti redditi imponibili degli imputati per gli anni 1983-84, sia individuali sia delle societa' cui gli stessi eventualmente partecipassero, calcolando l'entita' delle imposte Irpef, Irpeg, Ilor e Iva conseguenti ai redditi accertati, quantificando l'eventuale divergenza tra il valore dell'imposta in tal modo calcolata e quella dichiarata all'Erario dagli imputati, illustrando in quale modo gli imputati, nella redazione delle scritture contabili obbligatorie, avessero eventualmente dissimulato componenti positivi di redditi e simulato componenti negativi, nonche' quant'altro di utile al magistrato penale emergesse dalle indagini peritali. Con la relazione depositata il 29 novembre 1985 il perito cosi' concludeva per quanto qui interessa. Per l'anno 1983. Il volume di affari della Bar Zucca S.n.c. dichiarato ai fini dell'Iva era stato di L. 538.914.000. Il volume di affari ricostruito dal perito ammontava a L. 1.250.126.000. Per l'anno 1984. Il volume di affari della Bar Zucca S.n.c. dichiarato ai fini dell'Iva era stato di L. 730.060.000. Quello ricostruito dal perito ammontava a L. 1.425.915.000. Per l'anno 1983. Il valore dei ricavi delle vendite e prestazioni di servizi indicato nella dichiarazione dei redditi (mod. 750 quadro B) era di L. 538.915.000; il valore dei ricavi ricostruito dal perito ammontava a L. 1.250.126.000, con una differenza rispetto a quello dichiarato di L. 711.211.000. Per il 1984. Il valore dei ricavi indicato nella dichiarazione dei redditi (mod. 750 quadro B) era di L. 1.332.447.000; quello ricostruito dal perito ammontava a L. 1.425.915.000, con una differenza rispetto al valore dichiarato di L. 93.468.000. Per il 1983. Il reddito dichiarato dalla societa' era stato di L. 51.197.000; quello ricostruito dal perito ammontava a L. 762.408.000, con una differenza rispetto a quello dichiarato di L. 711.211.000. Il reddito imponibile ai fini Ilor dopo le deduzioni di legge era di L. 730.408.000. Per il 1984. Il reddito dichiarato dalla societa' era stato di L. 395.571.000. Il reddito ricostruito dal perito ammontava a L. 489.039.000 con una differenza rispetto a quello dichiarato di L. 93.468.000. Rideterminate le deduzioni, il reddito imponibile Ilor era calcolato in L. 455.461.000. Il perito calcolava anche l'ammontare delle imposte evase, secondo le rettificazioni apportate. Quanto alle modalita' del comportamento antigiuridico degli imputati osservava che esso si era concretizzato nelle seguenti fasi: omessa emissione degli scontrini fiscali per i corrispettivi "neri"; omessa annotazione degli stessi nei libri dei corrispettivi; omessa indicazione dei ricavi corrispondenti nelle dichiarazioni annuali di reddito. Il p.m. procedeva contestando al Brizio e alla Vaira con ordine di comparizione i seguenti reati. 1. - Reato di cui agli artt. 110 del c.p., e 1, quarto comma, n. 1, della legge n. 516/1982 per aver in concorso tra loro, nella qualita' di soci responsabili della S.n.c. Bar Zucca & C., avendo effettuato nel 1983 cessioni di beni, annotavano sia nel libro giornale sia sui registri prescritti ai fini dell'Iva i relativi corrispettivi in misura inferiore a quella reale per L. 711.211.000 e dunque superiore a L. 300.000.000 e allo 0,50% dell'ammontare complessivo, risultante dall'ultima dichiarazione presentata; non risultando inoltre i dati delle operazioni da documenti la cui emissione e conservazione e' obbligatoria a norma di legge. 2. - Reato di cui agli artt. 110 del c.p., 4, n. 7, della legge n. 516/1982 perche' in concorso tra loro, nella qualita' di cui al capo 1), essendo dunque titolari di reddito di impresa, agendo al fine di evadere le imposte dirette, redigevano le scritture contabili obbligatorie e la dichiarazione dei redditi per l'anno 1983 (presentata nel maggio 1984) dissimulando componenti positivi di reddito costituiti da corrispettivi non annotati per L. 711.211.000, tali da alterare in misura rilevante il risultato della dichiarazione. 3. - Reato di cui agli artt. 110 del c.p., e 1, secondo comma, n. 2, della legge n. 516/1982, perche' in concorso tra loro, nella qualita' di cui al capo 1), avendo effettuato nel 1984 cessioni di beni, annotavano nelle scritture obbligatorie ai fini dell'Iva i relativi corrispettivi in misura inferiore a quella reale per L. 93.468.000 e dunque superiore a L. 25.000.000 e al 2% dell'ammontare complessivo dei corrispettivi risultati dall'ultima dichiarazione. 4. - Reato di cui agli artt. 110 del c.p., 4, n. 7, della legge n. 516/1982 perche', in concorso tra loro, nella qualita' di cui al capo 1), essendo dunque titolari di reddito di impresa agendo al fine di evadere le imposte dirette, redigevano le scritture contabili obbligatorie e la dichiarazione dei redditi per l'anno 1984 (presentata nel maggio 1985), dissimulando componenti positivi di reddito, costituiti da corrispettivi non annotati per L. 93.468.000, tali da alterare in misura rilevante il risultato della dichiarazione. Tratti al giudizio del tribunale di Torino per rispondere dei reati di cui sopra, gli imputati non comparivano al dibattimento e venivano dichiarati contumaci. Il tribunale sentiva il perito Stasi, il quale forniva chiarimenti sulla propria relazione e riceveca dal collegio incarico di accertare quale fosse stato nel 1983 l'ammontare dei costi contabilizzati dagli imputati relativamente all'attivita' della Soc. Bar Zucca, previa acquisizione di copia della dichiarazione dei redditi (mod. 750) presentata per quell'anno. Il perito, nel supplemento di relazione, rispondeva che i costi sostenuti e contabilizzati per l'acquisto dei beni destinati alla rivendita ammontavano, per l'anno 1983, a L. 331.087.000. Il tribunale, con sentenza 21 maggio 1987, dichiarava il Brizio colpevole dei reati ascrittigli ai capi 1, 2 e 4, uniti dal vincolo della continuazione e la Vaira colpevole del reato ascrittole al capo 1 e, concesse ad entrambi le attenuanti generiche, condannava il Brizio alla pena di anni uno di reclusione e L. 10.000.000 di multa, la Vaira alla pena di mesi quattro di arresto e L. 8.000.000 di multa; applicava le conseguenti pene accessorie; concedeva ad entrambi gli imputati la sospensione condizionale dell'esecuzione della pena; condannava gli imputati a risarcire alla parte civile (Amministrazione delle finanze dello Stato) i danni cagionati dal reato, da liquidarsi in separato giudizio e a rimborsarle le spese di costituzione, rappresentanza e assistenza; assolveva la Vaira dai reati ascrittile ai capi 2 e 4 per insufficienza di prove. Infine il tribunale, rilevato che, con riferimento al capo 3 della rubrica, era emerso nel corso del procedimento che il fatto era diverso da quello contestato agli imputati e indicato nella richiesta e nel decreto di citazione a giudizio, risultando che i corrispettivi non annotati nelle scritture contabili degli imputati sarebbero ammontati ad oltre L. 300.000.000, fatto diverso che appariva altresi' riconoscibile al diverso reato ex art. 1, quarto comma, della legge n. 516/1982, disponeva la trasmissione di copia degli atti al p.m. in sede. Avverso la sentenza di cui sopra proponeva appello la Difesa di entrambi gli imputati, deducendo i seguenti motivi: 1. - Relativamente ai reati di cui all'art. 4, n. 7, della legge n. 516/1982: il fatto non sussiste. 2. - Si eccepiva la illegittimita' costituzionale dell'art. 4, n. 7, della legge in questione, in relazione agli artt. 25, secondo comma, e 3, della Costituzione, con riferimento alla previsione come elemento costitutivo del reato della alterazione in misura rilevante del risultato della dichiarazione. 3. - Relativamente al reato di cui all'art. 4, n. 7, con riferimento alla dichiarazione dei redditi presentata nell'anno 1985, relativa all'esercizio 1984: il fatto non sussiste, in quanto, tenuto conto dei "costi neri", non puo' essere considerato alterato in misura rilevante il risultato della dichiarazione. 4. - Relativamente all'art. 4 n. 7, con riferimento alla dichiarazione presentata nell'anno 1985, relativa all'esercizio 1984: il fatto non costituisce reato. Dopo la perquisizione e il sequestro dei documenti il Brizio aveva presentato la dichiarazione dei redditi relativa all'esercizio 1984 integrando quello che sarebbe stato il risultato della dichiarazione in base alle scritture contabili, ma la "integrativa" non sarebbe stata sufficiente secondo il Perito, rimanendo pur sempre omessi ricavi per L. 93.000.000. Peraltro il Brizio, al momento della effettuazione dell'integrazione, non aveva certamente a disposizione tutti gli elementi per poter stabilire il quantum dei ricavi e non aveva quindi agito con il neeessario dolo specifico. In secondo luogo, era pacifico che il Brizio aveva agito sulla base del presupposto, in allora certo, alla luce anche dell'interpretazione data dalle commissioni tributarie dell'art. 74 del d.P.R. n. 598/1973, che per reddito si intendesse il reddito netto e non i ricavi non dichiarati. In ogni caso, volendo considerare errata la interpretazione data dalle Commissioni, il Brizio aveva agito nelle condizioni previste dall'art. 8 della legge n. 516/1982, nell'erronea convinzione cioe' della validita' di quell'interpretazione che consentiva la deduzione dei costi non contabilizzati. 5. - Relativamente alla contravvenzione, si chiedeva la applicazione della sola pena pecuniaria: il superamento della soglia di punibilita' costituiva circostanza aggravante, onde era doveroso il giudizio di comparazione tra le concesse attenuanti generiche e tale circostanza e si chiedeva che le attenuanti generiche venissero ritenute prevalenti. 6. - Per entrambi gli imputati si chiedeva la applicazione della pena nei minimi edittali, con il minimo aumento per la continuazione. Tratti a giudizio avanti a questa Corte, gli imputati rimanevano contumaci. Questa corte, con ordinanza 1 giugno 1988, dichiarava rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimita' costituzionale dell'art. 4, primo comma, n. 7 della legge 7 agosto 1982 n. 516 in riferimento agli artt. 3 e 25, secondo comma, della Costituzione, nella parte in cui prevede come elemento costitutivo del reato l'alterazione in misura rilevante del risultato della dichiarazione; ordinava la sospensione del processo nei confronti di entrambi gli imputati. Sulla eccezione proposta la Corte costituzionale si pronunciava con ordinanza 18 maggio 1989, n. 313, dichiarando la manifesta infondatezza della questione sollevata da questa corte d' appello e diversi altri giudici, osservando che la questione stessa era stata dichiarata infondata dalla Corte costituzionale con sentenza n. 247/1989 e che le ordinanze di rimessione non prospettavano argomenti nuovi o diversi rispetto a quelli gia' esaminati dalla corte con la precitata decisione. Al dibattimento odierno davanti a questa corte gli imputati, ritualmente citati, non comparivano e venivano dichiarati contumaci. Il patrono della parte civile concludeva per il rigetto dell'appello e lo accoglimento della propria istanza; il procuratore generale chiedeva la conferma della sentenza appellata; la difesa degli imputati chiedeva l'accoglimento dei propri motivi di appello (escluso quello sub 2 superato dalla decisione della Corte costituzionale) e, in subordine, per il caso che la corte non accogliesse la proposta interpretazione della norma di cui all'art. 4, primo comma, n. 7, proponeva eccezione di illegittimita' costituzionale della norma predetta, richiamando la motivazione della sentenza n. 247/1989 della Corte costituzionale. CONSIDERATO IN DIRITTO Come si e' visto, il Brizio e' stato dichiarato responsabile dal Tribunale dei reati ascrittigli ex art. 4 n. 7 (rectius, ex art. 4, primo comma, n. 7) della legge n. 516/1982 (rectius, del decreto legge 10 luglio 1982 n. 429 come convertito in legge 7 agosto 1982 n. 516) e condannato alla pena di cui nella parte espositiva della presente ordinanza. L' imputato non ha contestato i fatti posti a base delle imputazioni ed ha anzi ammesso nell'interrogatorio al p.m. (cui si presento' spontaneamente) di aver operato "in nero" nella gestione del Bar Zucca, non registrando una parte delle entrate (cioe' non battendo alla cassa l'importo delle consumazioni). In ordine ad entrambi i reati di cui si tratta la difesa, nel primo motivo di appello, ha sostenuto l'insussistenza del fatto, criticando l'orientamento del tribunale sulla sufficienza del semplice mendacio, inteso come mancata annotazione di ricavi nelle scritture contabili, come dissimulazione di componenti positivi del reddito e svolgendo argomentazioni a sostegno della tesi proposta. Il predetto motivo di appello pone dunque alla Corte la questione dell'interpretazione dell'art. 4, primo comma n. 7 citato, il cui testo conviene qui riportare per la parte che interessa: "E' punito con la reclusione dai sei mesi a cinque anni e con la multa da cinque a dieci milioni di lire chiunque, al fine di evadere le imposte sui redditi e l'imposta sul valore aggiunto o di conseguire un indebito rimborso ovvero di consentire l'evasione o indebito rimborso a terzi: (...). 7. - Essendo titolare di redditi di lavoro autonomo o di impresa, redige le scritture contabili obbligatorie, la dichiarazione annuale dei redditi ovvero il bilancio o rendiconto ad essa allegato dissimulando componenti positivi o simulando componenti negativi del reddito, tali da alterare in misura rilevante il risultato della dichiarazione". La Corte costituzionale, con la ricordata sentenza n. 247/1989, ha dichiarato infondata la questione di legittimita' costituzionale dell'art. 4, primo comma, n. 7, che era stata proposta da numerosi giudici, con riferimento alla' prospettata indeterminatezza dell'espressione "tali da alterare in misura rilevante il risultato della dichiarazione" in relazione agli artt. 3, primo comma e 25, secondo comma, della Costituzione. In estrema sintesi, la Corte costituzionale ha ritenuto quanto segue. Va anzitutto stabilita la posizione che la "misura rilevante" in questione ha nel contesto dell'intera fattispecie prevista dallo stesso numero del citato comma. La predetta "misura rilevante" non e', per se', giuridicamente configurabile quale momento del contenuto di un elemento costitutivo del reato: essa infatti, non solo non fa parte del "dolo", ma neppure fonda, e tantomeno esaurisce, il contenuto offensivo del fatto: tal contenuto risulta, infatti, gia' tipicamente individuato attraverso il disvalore della condotta e dell'evento (per chi lo configuri) a prescindere dalla "misura rilevante" dell'alterazione della dichiarazione. La "misura rilevante" indica, invero, il "peso" del carico offensivo del delitto ma non entra, non fa parte della qualita' offensiva del delitto stesso. Da cio' discende che soltanto quando il legislatore avesse fatto ruotare l'intero o gran parte del disvalore offensivo del fatto sulla "misura rilevante" dell'alterazione si sarebbero violati gli artt. 3, primo comma, e 25, secondo comma, della Costituzione. Il contenuto offensivo del fatto si incentra, a prescindere dalla "quantita'" dell'alterazione, esclusivamente sul disvalore del fatto in senso stretto, a cui rimane estranea la "misura rilevante". Segue, nella sentenza della Corte costituzionale, una parte di motivazione relativa all'interpretazione del "fatto in senso stretto" della norma in questione, che conviene riportare integralmente, poiche' con essa la Corte stessa prende posizione sul significato dei verbi "dissimulare" e "simulare" nel numero 7 di cui si tratta. Dal confronto tra il delitto di cui al n. 7 dell'art. 4 del citato decreto e i delitti di cui ai nn. da 1 a 6 dello stesso art. 4 si desume che, come per questi ultimi delitti, anche per la realizzazione dell'ipotesi di cui al citato n. 7, non e' sufficiente una condotta consistente nel solo omettere la dichiarazione di componenti positivi del reddito e (o) la sola dichiarazione della sussistenza di componenti negativi dello stesso reddito bensi' e' indispensabile che la condotta in esame si esprima in forme "corrispondenti" a quelle necessarie per integrare le diverse ipotesi di frode fiscale. Il confronto tra il delitto di cui al n. 7 dell'art. 4 del decreto in discussione e le ipotesi contravvenzionali previste dal secondo comma dell'art. 1 dello stesso decreto convince ancor piu' che la condotta del delitto di cui al n. 7 dell'art. 4 deve esprimersi in forme oggettivamente artificiose, fraudolente. Ove la dissimulazione di componenti positivi del reddito (di cui al n. 7 dell'art. 4) potesse concretarsi in una mera omissione, la condotta in esame si sovrapporrebbe, in pratica, alle ipotesi contravvenzionali dell'art. 1, secondo comma; e cio' determinerebbe, peraltro, gravi contraddizioni sistematiche in quanto, poiche' le predette contravvenzioni soggiacciono alla ben nota soglia di punibilita', al di sotto della stessa soglia potrebbe, paradossalmente, subentrare la punibilita' a titolo di frode. Per esigenze di corrispondenza simmetrica con la "dissimulazione", anche la "simulazione", prevista dal delitto in esame, non puo' essere realizzata attraverso una semplice, mendace indicazione di componenti negativi del reddito: la "simulazione" di questi componenti, peraltro, non e' neppure concepibile senza un supporto documentale contrario alla realta'. Nel rinviare alla prevalente dottrina per le altre motivazioni (che qui ovviamente non possono essere una per una ricordate) in ordine all'ora accolta interpretazione del significato della condotta del delitto di cui al n. 7 dell'art. 4 del d.-l. n. 429/1982, va particolarmente sottolineato che soltanto la predetta interpretazione mentre consente (e' stato gia' rilevato in dottrina) di conferire alla condotta e all'intera fattispecie tipica del delitto in esame il piu' alto grado possibile di conformita' al fondamentale principio d'uguaglianza (evitando l'irragionevole disparita' di trattamento, consistente nel sanzionare lo stesso comportamento, l'infedele dichiarazione, come semplice contravvenzione oblazionabile quando ha ad oggetto redditi non soggetti ad annotazione contabile e grave delitto quando concerne redditi di lavoro autonomo o d'impresa, derivanti da cessione di beni o prestazione di servizi) consente anche di interpretare il significato dell'evento (per chi lo configuri) del delitto in discussione (alterazione del risultato della dichiarazione) quale risvolto della condotta frodatoria e cosi' permette di dare all'intera fattispecie una chiara, netta significazione, che caratterizza l'intero disvalore offensivo tipico, a prescindere dalla "misura rilevante": quest'ultima, in presenza d'un completo significato offensivo tipico del fatto, pur facendo parte della fattispecie in senso ampio (e dovendo anch'essa raggiungere un grado di determinatezza, come oltre si precisera', idoneo non a garantire la liberta' ma il principio di uguaglianza) risulta, dunque, estranea alla dimensione intrinsecamente offensiva del fatto in senso stretto, limitandosi a connotare soltanto la gravita' dell'intera fattispecie del delitto in esame. Proseguendo nelle sue argomentazioni, la Corte costituzionale ribadisce che la "misura rilevante" dell'alterazione costituisce, soltanto, filtro selettivo, che non incide sulla dimensione intrinsecamente offensiva del fatto, ma ne connota solo la gravita', contrassegnando il limite a partire dal quale l'intervento punitivo e' ritenuto opportuno. Anche la previsione della "misura rilevante" deve soggiacere al principio di determinatezza: nei confronti della predetta misura, tuttavia, tal principio si esprime in termini diversi che non rispetto ai requisiti essenziali dell'offesa tipica, a causa della diversa funzione che la prima e questi ultimi sono chiamati a svolgere e del non essere richiesta, per le condizioni obiettive, la conoscenza dei dati assunti a contenuto della medesima. Prosegue la Corte costituzionale osservando che i criteri di interpretazione che la giurisprudenza ha proposto, allo scopo di attribuire alla "misura rilevante", inserita nel quadro dell'intera fattispecie del delitto in esame, un significato "determinato", evitano disparita' di trattamento nella repressione del delitto di cui si discute. Tali criteri sono: quello percentuale, quello assoluto e quello proporzionale (all'entita' dell'imposta suscettiva di essere evasa). L'applicazione congiunta di essi evita la violazione dell'art. 3 della Costituzione. La Corte costituzionale, per quanto ora interessa particolarmente, ha dunque preso posizione - sia pure con una motivazione che, per quanto risulta dalla stessa sentenza non e' completamente esplicitata, la' dove essa rinvia alla prevalente dottrina per le altre motivazioni (che qui ovviamente non possono essere, una per una, ricordate) in ordine alla ora accolta interpretazione del significato della condotta del delitto di cui al n. 7..." - sulla questione del significato da attribuire alle espressioni "dissimulando componenti positivi o simulando componenti negativi del reddito". Si tratta di questione assai controversa, che vede la giurisprudenza nella maggior parte (per quanto e' noto a questo collegio) orientata nel senso che le nozioni di simulazione e dissimulazione si estrinsecano nella dichiarazione o rappresentazione consapevole di una cosa per un'altra non necessariamente preceduta ne' accompagnata da falsa documentazione o da altri mezzi ingannevoli e, per contro, la dottrina nella maggior parte (sempre per quanto consta a questo collegio) orientata nel senso che la simulazione e la dissimulazione di cui si tratta sono necessariamente oggettivamente artificiose, fraudolente e richiedono un quid pluris rispetto alla mera falsa dichiarazione o rappresentazione. La Corte costituzionale da' il suo autorevolissimo avallo alla seconda delle interpretazioni sopra esposte. Lo fa peraltro con una sentenza interpretativa di rigetto della questione di legittimita' costituzionale della parte del piu' volte citato art. 4, primo comma, n. 7, relativa alla misura rilevante della alterazione del risultato della dichiarazione. Non sembra dunque che l'interpretazione della Corte costituzionale sia vincolante per i giudici; in tal senso si e' espressa recentemente anche la Cassazione (sent. 3 luglio 1989, in Corriere tributario, n. 41, 1989, pag. 2895 segg.). Questa corte deve prendere pertanto posizione sulla questione interpretativa, con particolare riferimento al significato dell'espressione "dissimulando componenti positivi del reddito"'. E' infatti contestato al Brizio ai capi 2 e 4, di aver dissimulato componenti positivi di reddito costituito da corrispettivi non annotati, rispettivamente per L. 711.211.000 e L. 93.468.000, nella qualita' di socio della S.n.c. Bar Zucca, rispettivamente per gli anni 1983-1984. La contestazione si limita alla mancata annotazione e dichiarazione di tali corrispettivi e non accenna in alcun modo a un quid pluris fraudolento nella condotta tenuta dall'imputato. La questione interpretativa e' indubbiamente assai delicata e questa corte non puo' non rammaricarsi - come d'altronde e' gia' stato fatto piu' volte in giurisprudenza e in dottrina - che l'espressione usata dal legislatore, in materia cosi' delicata e importante, sia certamente poco chiara e si presti a diverse interpretazioni. Questa Corte non ritiene che dai lavori preparatori parlamentari si possano trarre sicure indicazioni a favore o contro l'una o l'altra tesi. Le indicazioni appaiono infatti contraddittorie. Appare invece rilevante la ratio dell'intervento del legislatore penale del 1982: apprestare un efficace e dissuasivo regime sanzionatorio in particolare per le evasioni tributarie di categorie di percettori di reddito le cue forme proprie di produzione offrono superiori possibilita' di evasione: tra essi i titolari di reddito di lavoro autonomo o di impresa. Come ha rilevato la Cassazione nella sentenza 11 marzo 1987, imp. La Piccirella (in Cass.. pen. , 1988, pag. 702 segg.): "Trattasi di soggetti vincolati alla tenuta di registrazioni contabili imposte per documentare il movimento di affari, i corrispettivi ricavati dalle suesposte attivita', i costi sostenuti, onde consentire un' agevole ricostruzione dell'ammontare dei redditi percepiti; da qui l'obbligo prescritto ai percettori anzidetti di far corrispondere i dati effettivi a quelli documentali, il cui difetto puo' riscontrarsi nelle scritture contabili obbligatorie, nella dichiarazione dei redditi ovvero nel bilancio e nel rendiconto ad esso allegato e, conseguentemente, la previsione di tipiche fattispecie penali "consistenti o in ipotesi ben definite di frodi fiscali o in fatti semplici il cui accertamento non presuppone la determinazione dell'imposta evasa e tali, pertanto, da non comportare, per la verifica della loro sussistenza, l'attivita' amministrativa di accertamento". Occorre tenere presente che il caso che piu' frequentemente si verifica, nella materia in questione, come l'esperienza giudiziaria dimostra, e' quello del contribuente percettore di redditi di lavoro autonomo o di impresa che semplicemente omette di indicare nelle scritture contabili e/o nella dichiarazione dei redditi componenti positivi del reddito stesso. Anche nel caso di componenti negativi inesistenti, il piu' delle volte il comportamento illegittimo del contribuente evasore si limita alla esposizione di componenti negativi appunto inesistenti, senza alcun quid pluris fraudolento. Una interpretazione che richiedesse un quid pluris fraudolento rispetto alla mera omissione di elementi positivi e alla falsa esposizioni di elementi negativi frustrerebbe, nella gran parte, dei casi, l'intento esplicitato di apprestare con le nuove sanzioni penali (e in particolare con l'art. 4, primo comma, n. 7) un efficace argine alle evasioni fiscali piu' rilevanti. Dal punto di vista semantico "simulare" significa "fingere, far parere che ci sia qualcosa che in realta' non c'e'" e "dissimulare" significa "nascondere qualita', difetti, sentimenti e simili sotto diversa apparenza" (cosi' il Nuovo Zingarelli, XI ediz.). Non sembra dunque che, nell'uso comune le espressioni simulare e dissimulare significhino qualcosa di piu' che far apparire la realta' diversa da quella che e' (nel caso di specie, ad es., semplicemente omettendo di annotare e dichiarare corrispettivi). Il confronto con altre norme giuridiche penali in cui compaiono le espressioni "simulare" e "dissimulare" porta un ulteriore argomento a favore della tesi che non richiede altro che la dichiarazione o rappresentazione consapevole di una cosa per un'altra. Si richiamano in proposito gli artt. 367, 641, 670, secondo comma del c. p., 232, terzo comma, n. 1 e 236 della legge fallimentare. Non appare risolutivo, per far propendere a favore della interpretazione che richiede il quid pluris; il fatto che l'art. 4, primo comma, comprenda, oltre alla fattispecie di cui si tratta, altre sei fattispecie caratterizzate indubbiamente da "frode", perche' il legislatore ben puo' aver scelto, nella attuazione dell'intento di cui si e' detto, di punire con la stessa severita' anche condotte non necessariamente caratterizzate da frode, ma pur sempre ritenute molto gravi. Se dunque appare preferibile l'interpretazione piu' rigorosa come si e' gia' detto sostenuta dalla maggior parte della giurisprudenza e ribadita recentemente dalla Cassazione con la sentenza citata del 3 luglio 1989 - si pone il problema se tale interpretazione sollevi questioni di legittimita' costituzionale. Questa corte, in proposito, non puo' non rilevare che la stessa Corte costituzionale ha esposto che l'interpretazione seguita da questa corte d'appello provocherebbe "irragionevole disparita' di trattamento, consistente nel sanzionare lo stesso comportamento, l'infedele dichiarazione, come semplice contravvenzione oblazionabile quando ha ad oggetto redditi non soggetti ad annotazione contabile e grave delitto quando ha ad oggetto redditi di lavoro autonomo o d'impresa, derivanti da cessione di beni e prestazioni di servizi". Il riferimento della Corte costituzionale e' evidentemente alla fattispecie contravvenzionale di cui all'art. 1, secondo comma, n. 3, della legge in questione. L'obiezione, proposta dalla Corte di cassazione nella citata sentenza 3 luglio 1989, secondo cui l'ipotesi contravvenzionale si diversifica da quella delittuosa oggettivamente perche' non richiede l'alterazione in misura rilevante del risultato del reddito e soggettivamente in quanto, pur comprendendo in alternativa alla colpa il dolo, non esige quello specifico ovvero il fine determinato di evadere l'imposta o di conseguire un rimborso, non appare tale da far ritenere manifestamente infondata la questione di legittimita' costituzionale. Invero, secondo la piu' volte citata sentenza della Corte costituzionale, l'alterazione in misura rilevante non rappresenta elemento costitutivo della condotta, non fa quindi parte dell'elemento oggettivo, ma e' in sostanza una condizione obiettiva di punibilita'. In secondo luogo il dolo specifico ben puo' correggere anche il reato contravvenzionale e di fatto il piu' delle volte lo sorreggera', perche' chi indica redditi di ammontare complessivo inferiore a quello effettivo, specialmente se la differenza e' rilevante, lo fa proprio al fine di evadere le imposte. Una ulteriore questione di legittimita' costituzionale, sempre per contrasto con l'art. 3 della Costituzione, in punto irragionevole disparita' di trattamento, e' prospettabile nel senso che, per l'art. 1, primo comma, della legge in questione, e' punibile a titolo di contravvenzione chi omette di presentare una delle dichiarazioni che e' obbligato a presentare ai fini della imposte sui redditi o sull'IVA quando l'ammontare non dichiarato superi una certa soglia; mentre e' punibile a titolo di delitto, ex art. 4, primo comma, n. 7, il contribuente evasore parziale e non totale. Anche tale questione appare a questa corte non manifestamente infondata, nel senso che sembra irragionevole punire piu' gravemente chi, pur violando l'obbligo di redigere fedelmente le scritture contabili e la dichiarazione annuale dei redditi, comunque le redige, rispetto a chi a tale obbligo si sottrae completamente. La Cassazione, nella citata sentenza 3 luglio 1989, ha ritenuto che la diversita' di trattamento possa incontrare una giustificazione nel rilievo che "l'omittente e' completamente scoperto dalla mancata dichiarazione e, quindi, e' facilmente esposto alla investigazione amministrativa e penale, mentre lo e' raramente colui che ha ottemperato". Sembra peraltro a questo collegio o che l'argomentazione non sia condividibile e comunque non sia tale da dimostrare con certezza che la diversita' di trattamento e' giustificata. Si puo' infatti osservare che chi omette la dichiarazione puo' sfuggire completamente alle indagini tributarie o penali (specialmente se non ha fatto in precedenza dichiarazioni), mentre chi ha redatto la dichiarazione infedele lascia comunque una traccia documentale che puo' attrarre l'attenzione degli uffici tributari o della magistratura inquirente. Se cosi' e', appare irragionevole che chi commette un fatto piu' grave sia punito meno gravemente di chi, pur violando la legge, redige comunque le scritture contabili obbligatorie e la dichiarazione dei redditi, sia pure in modo non veritiero. In conclusione, questa corte aderisce alla interpretazione secondo cui la dissimulazione di componenti positivi e la simulazione di componenti negativi non richiedono, nel testo dell'art. 4, primo comma, n. 7, un quid pluris rispetto alla omessa dichiarazione (di componenti positivi) o alla mendace indicazione (di componenti negativi). Come si e' gia' detto, e' l'interpretazione prevalentemente seguita dai giudici di merito e costantemente seguita - per quanto consta - dalla Cassazione. Tale interpretazione da' luogo alle due questioni di legittimita' costituzionale sopra esposte, su una delle quali il giudice delle leggi ha sia pur in modo non vincolante - cosi' almeno sembra - esposto il suo orientamento. La rilevanza delle due questioni nel presente giudizio e' evidente. Per quanto riguarda la posizione del Brizio: se la norma denunciata dovesse essere ritenuta incostituzionale, il Brizio dovrebbe essere assolto dai reati sub 2 e 4 perche' il fatto non sussiste, essendogli stato imputato soltanto di aver omesso di indicare nelle scritture contabili obbligatorie e nella dichiarazione dei redditi componenti positivi di reddito. La Vaira, assolta con formula dubitativa dal concorso nei reati di cui sopra, potrebbe fruire, nel caso di accoglimento dell'eccezione di incostituzionalita', di assoluzione con la medesima formula ampia.