IL CONSIGLIO DI GIUSTIZIA AMMINISTRATIVA Ha pronunciato la seguente ordinanza sul ricorso in appello n. 60/1988 proposto dal questore di Ragusa pro-tempore e il Ministero dell'interno, in persona del Ministro pro-tempore, rappresentati e difesa dall'Avvocatura distrettuale dello Stato di Palermo, presso i cui uffici in via Alcide De Gasperi, 81 sono per legge domiciliati, contro Pampallona Giacomo rappresentato e difeso dagli avvocati Giacomo Vespo e Umberto Speciale ed elettivamente domiciliato in Palermo, via Sciuti, 91/L, presso lo studio del secondo, per l'annullamento della sentenza del t.a.r. per la Sicilia, 1a sezione staccata di Catania, n. 1407/1987 avente per oggetto destituzione di diritto dall'amministrazione della pubblica sicurezza; Visto il ricorso con i relativi allegati; Visto l'atto di costituzione in giudizio degli avvocati G. Vespo e U. Speciale per Pampallona Giacomo; Viste le memorie prodotte dalle parti a sostegno delle rispettive difese; Visti gli atti tutti della causa; Udita alla pubblica udienza dell'11 ottobre 1989 la relazione del consigliere Salvatore Giacchetti e uditi, altresi', l'avvocatura dello Stato per il questore di Ragusa e per il Ministero dell'interno e l'avv. G. Vespo per Pampallona Giacomo; Ritenuto in fatto e considerato in diritto quanto segue; F A T T O Il sig. Giacomo Pampallona, agente della Polizia di Stato, impugnava dinanzi al T.A.R.S.: 1) il decreto n. 800/23239 del 29 gennaio 1985, col quale il capo della Polizia ne disponeva la destituzione di diritto - a norma dell'art. 8, primo comma, lett. b), del d.P.R. 25 ottobre 1981, n. 737 - a seguito di condanna penale, passata in giudicato, che comportava l'interdizione dai pubblici uffici per la durata di un anno; 2) il verbale in data 1 febbraio 1985, col quale la questura di Catania gli comunicava il suddetto provvedimento. Il t.a.r., sezione staccata di Catania, con sentenza 21 novembre 1987, n. 1407: a) rilevava che il suddetto art. 8, che prevedeva la destituzione di diritto nel caso di condanna importante l'interdizione "anche temporanea" dai pubblici uffici, era stato modificato dall'art. 11 della legge 10 ottobre 1986, n. 668, che prevede detta destituzione nel caso di condanna importante "la interdizione perpetua" dagli uffici stessi; b) riteneva la nuova normativa retroattivamente applicabile ai provvedimenti di destituzione ancora sub iudice, ai sensi dell'art. 2 del cod. pen., dell'art. 12, secondo comma, delle disp. prel. del cod. civ., e dell'art. 25, secondo comma, della Costituzione; c) riteneva pertanto di dover rilevare il vizio di invalidita' sopravvenuta dei provvedimenti impugnati; e cio' d'ufficio, in quanto tale profilo - non contenuto, ovviamente, nel ricorso introduttivo - non era stato formulato in un motivo aggiunto ma in una semplice memoria non notificata; d) accoglieva pertanto il ricorso per l'esclusiva considerazione sub c), dichiarando assorbiti i motivi proposti con l'atto introduttivo. La sentenza e' stata appellata dall'amministrazione, per i seguenti motivi: 1) Le doglianze dedotte con il ricorso introduttivo sarebbero totalmente infondate. 2) La sentenza avrebbe accolto un motivo che non era stato dedotto, e che comunque era infondato, in quanto il principio di retroattivita' della norma piu' favorevole, posto dal t.a.r. a fondamento della sua decisione, si riferirebbe alle sole norme incriminatrici penali e non troverebbe quindi applicazione in materia amministrativa. Il Pampallona si e' costituito in appello, contestando puntualmente le censure dell'appellante. D I R I T T O 1. - Deduce in primo luogo l'amministrazione appellante che i motivi di eccesso di potere dedotti dal Pampallona con il ricorso introduttivo sarebbero totalmente infondati. Al riguardo osserva il collegio che il primo giudice ha ritenuto di dover rilevare d'ufficio il vizio di invalidita' sopravvenuta del provvedimento di destituzione irrogato il 21 gennaio 1985, in quanto la norma in base alla quale era stato adottato (l'art. 8, primo comma, lett. b), del d.P.R. 25 ottobre 1981, n. 737) era stata modificata nelle more del giudizio dall'art. 11 della legge 10 ottobre 1986, n. 668, che non consentiva piu' l'adozione del provvedimento stesso; ed ha accolto il ricorso esclusivamente per tale considerazione, dichiarando assorbiti tutti i motivi originariamente proposti dal Pampallona. Ora poiche' l'assorbimento dei motivi equivale - sotto il profilo processuale - alla loro reiezione, l'appellante non ha alcun interesse a contestare in questa sede i motivi stessi. La doglianza va quindi dichiarata inammissibile. 2. - Ai fini dell'esame della seconda censura va premesso che il Pampallona, agente della Polizia di Stato, avendo riportato la condanna ad un mese di reclusione con interdizione per un anno dai pubblici uffici, era stato destituito di diritto a norma del citato art. 8, che all'epoca prevedeva la destituzione di diritto "per condanna, passata in giudicato, che importi l'interdizione, anche temporanea, dai pubblici uffici". Nelle more del giudizio proposto per l'annullamento della destituzione e' intervenuta la legge n. 668/1986, che ha sostituito la sopra riportata locuzione dell'art. 8 con la seguente: "per condanna, passata in giudicato, che importi l'interdizione perpetua dai pubblici uffici". Sulla base di tale sopravvenienza normativa il t.a.r., come si e' detto, ha rilevato d'ufficio il vizio di invalidita' sopravvenuta, accogliendo il ricorso esclusivamente sotto tale profilo; ed ha fondato la propria statuizione sulle seguenti considerazioni: a) il principio di retroattivita' della norma penale piu' favorevole, sancito dall'art. 2 del cod. pen., sarebbe estensibile anche agli illeciti amministrativi e alle relative sanzioni; b) il conseguente vizio di invalidita' sopravvenuta del provvedimento impugnato sarebbe rilevabile d'ufficio dal giudice anche in mancanza di uno specifico motivo aggiunto di ricorso (nella fattispecie la circostanza era stata dedotta con una semplice memoria non notificata); e cio' nell'interesse generale di consentire l'applicazione retroattiva della legge piu' favorevole; c) la cennata rilevabilita' d'ufficio dell'invalidita' sopravvenuta del provvedimento impugnato sarebbe sostanzialmente analoga alla rilevabilita' d'ufficio della sopravvenuta - e retroattiva - dichiarazione di incostituzionalita' di una legge. Di tale statuizione si duole l'amministrazione appellante, rilevando che la sentenza sarebbe viziata da extrapetizione, per avere accolto un motivo che non era stato dedotto, e sarebbe comunque erronea, in quanto il principio di retroattivita' della norma piu' favorevole si riferirebbe soltanto alle norme incriminatrici penali e non troverebbe quindi applicazione in materia amministrativa. Vengono pertanto prospettate al collegio le seguenti questioni: a) se sia ammissibile che il giudice amministrativo rilevi (recte: formuli) d'ufficio un motivo di ricorso; b) se sia - in astratto - ammissibile il vizio di invalidita' sopravvenuta; c) nell'affermativa, se tale vizio sia fondato nel caso in esame. 3. - La prima questione, relativa all'ammissibilita' che il giudice amministrativo formuli d'ufficio un motivo di ricorso, va definita in senso negativo. E' infatti regola fondamentale del diritto processuale (amministrativo, civile e penale) il principio della domanda, in base al quale il giudice, salvo specifiche espresse eccezioni (ad esempio, il processo contabile), non puo' attivarsi se non venga espressamente richiesto da un altro soggetto dell'ordinamento. Questo principio opera con particolare rigore nel processo amministrativo, atteso il suo carattere di processo non inquisitorio (in cui il giudice ha potere di disposizione dell'oggetto di esso) ma accusatorio (o di parti); un processo da ricorso in cui il giudice puo' agire solo su domanda di parte (ne procedat iudex ex officio) e nei limiti della domanda stessa (ne eat iudex ultra vel extra petita partium: v. art. 6 del r.d. 17 agosto 1907, n. 642). Le ragioni di fondo di tale principio sono evidenti: da una parte l'esigenza di garantire l'imparzialita' del giudice, dall'altra l'esigenza di garantire la tutela giurisdizionale della parte interessata (che potrebbe, altrimenti, essere esposta al rischio di una soccombenza determinata da illegittimita' non formalmente contestatele, ed in ordine alle quali pertanto non aveva potuto produrre adeguate controdeduzioni). L'unica attivita' d'ufficio che il giudice amministrativo puo' compiere riguarda il controllo dell'esistenza dei prescritti presupposti di ammissibilita' o di ricevibilita' del ricorso; ma tale deroga e' giustificata dalla preminente esigenza che lo strumento processuale venga utilizzato per le finalita' e nei limiti ad esso attribuiti dall'ordinamento, e risulti cosi' effettivamente un mezzo per assicurare la giustizia nell'amministrazione ai sensi dell'art. 100 della Costituzione. Ora in un tale contesto il cennato motivo di invalidita' sopravvenuta (l'unico accolto), che il t.a.r. ha dichiaratamente rilevato d'ufficio, non puo' non essere riconosciuto inficiato da extrapetizione. Ne' a diversa conclusione puo' indurre l'addotta analogia con la sopravvenuta dichiarazione di incostituzionalita' di una legge, di cui il giudice e' tenuto a prendere atto anche d'ufficio. Infatti in base al principio iura novit curia il giudice e' tenuto d'ufficio a conoscere e ad applicare l'ordinamento nella sua realta' effettuale, e quale eventualmente modificato da sentenze della Corte costituzionale; ma cio' non comporta anche che il giudice possa statuire sulla legittimita' del provvedimento impugnato direttamente sulla base dell'ordinamento, e cioe' prescindendo dal filtro dei motivi dedotti dal ricorrente. Vero e' che in caso di analogo ricorso, proposto anch'esso prima dell'entrata in vigore della legge n. 668/1986, la sezione quarta del Consiglio di Stato, con sentenza 6 marzo 1989, n. 150, ha ritenuto che la denuncia di incostituzionalita' dell'originario disposto dell'art. 8, ritualmente formulata nel ricorso introduttivo, potesse essere qualificata dal giudice (anche) come censura di (futura) invalidita' del provvedimento adottato in base al disposto stesso, invalidita' derivante dalla sopravvenuta legge n. 668/1986, che avrebbe operato con efficacia retroattiva sulle situazioni pregresse. Peraltro questo consiglio, pur rendendosi conto della semplificazione pratica e dell'economia di giudizi derivante da tale soluzione (in quanto l'altra alternativa, e cioe' di rimettere la questione alla Corte costituzionale conduce ad una soluzione che, come si rilevera' al successivo n. 4, appare scontata), non ritiene di condividere il suindicato orientamento in quanto l'interesse sopravvenuto, di cui questo consiglio ha riconosciuto la piena tutelabilita' (sentenza 26 febbraio 1987, n. 61), e' azionabile esclusivamente con i normali strumenti processuali; e quindi nel caso in esame avrebbe dovuto esser fatto valere mediante appositi motivi aggiunti, non sembrando che possa essere utilmente dedotta una censura che faccia riferimento ad un evento futuro e incerto, e difetti quindi dei requisiti sia della certezza che dell'attualita' della lesione. La sentenza impugnata va pertanto riformata, prescindendo dall'esame delle altre due questioni indicate sub 2, che restano logicamente assorbite. 4. - Va quindi esaminata la censura (dedotta nel ricorso introduttivo, dichiarata assorbita dal t.a.r., e riproposta dal resistente in questa sede) di illegittimita' costituzionale dell'originario disposto del citato art. 8, lett. b). La questione non e' manifestamente infondata. La Corte costituzionale, con sentenza 14 ottobre 1988, n. 971, ha dichiarato l'illegittimita' costituzionale di numerose disposizioni (l'art. 85, lett. a), del d.P.R. 10 gennaio 1957, n. 3; l'art. 247 del r.d. 3 marzo 1934, n. 383; l'art. 66, lett. a), del d.P.R. 15 dicembre 1959, n. 1229; l'art. 1, secondo comma, della legge 13 maggio 1975, n. 157; l'art. 57, lett. a), del d.P.R. 20 dicembre 1979, n. 761; l'art. 8, lett. a), del d.P.R. 25 ottobre 1981, n. 737) che prevedevano ipotesi di destituzione ex lege collegate a determinate condanne penali o a determinate pene accessorie; e cio' per la considerazione che l'ordinamento si evolve verso la esclusione di sanzioni rigide, avulse da un adeguato rapporto di congruita' con il caso concreto, con conseguente irragionevolezza di sanzioni disciplinari automaticamente collegate alla condanna per determinati fatti e quindi irrogate senza alcuna preventiva valutazione dell'adeguatezza della sanzione. In tale contesto anche la norma dell'art. 8, lett. b), appare in insanabile contrasto con l'orientamento indicato dalla Corte, e va pertanto sottoposta al suo sindacato di costituzionalita'. La questione e' anche rilevante ai fini del decidere. Infatti la declaratoria di incostituzionalita' della norma condurrebbe al riconoscimento del vizio (originario) di legittimita' del provvedimento impugnato e quindi al riconoscimento della fondatezza del ricorso di primo grado, con conseguente reiezione dell'appello, mentre in caso contrario il giudizio si concluderebbe con un risultato opposto. Occorre pertanto rimettere la questione alla Corte costituzionale, con sospensione del presente giudizio.