LA CORTE D'APPELLO
    Ha pronunciato la seguente ordinanza;
    Letti  gli atti del procedimento contro Aloia Filippo e Mele Anna,
 imputati del delitto di cui agli artt. 110 del c.p. e 71 e  74  della
 legge  n. 685/1975, e appellanti avverso la sentenza del tribunale di
 Napoli 4 luglio 1989, con la  quale  sono  stati  condannati  a  pene
 adeguate;
    Rilevato  che  oggi gli imputati, ai sensi degli artt. 599, quarto
 comma, e 602, secondo comma, del  c.p.p.  e  245  delle  disposizioni
 transitorie,  hanno  concordato  col p.g., previo la rinuncia a tutti
 gli altri motivi, una riduzione della pena a sei anni di reclusione e
 L.  15.000.000  di  multa  per  l'Aloia  e  a due anni e otto mesi di
 reclusione e L. 4.000.000 di multa per la Mele;
                             O S S E R V A
    L'ipotesi   dell'art.   599,   quarto   comma,   del   c.p.p.   e'
 normativamente cosi' descritta:  "La  corte  provvede  in  camera  di
 consiglio  anche quando le parti, nelle forme previste dall'art. 589,
 ne fanno richiesta dichiarando di  concordare  sull'accoglimento,  in
 tutto  o  in  parte,  dei  motivi di appello, con rinuncia agli altri
 eventuali motivi. Se i motivi dei quali viene chiesto  l'accoglimento
 comportano   una   nuova   determinazione  della  pena,  il  pubblico
 ministero, l'imputato e la persona civilmente obbligata per  la  pena
 pecuniaria  indicano  al  giudice  anche  la  pena  sulla  quale sono
 d'accordo". Soggiunge il quinto comma: "Il giudice, se ritiene di non
 poter  accogliere,  allo  stato,  la richiesta, ordina la citazione a
 comparire al dibattimento. In questo caso la richiesta e la  rinuncia
 perdono  effetto,  ma possono esser riproposte nel dibattimento". Per
 necessaria correlazione deve citarsi l'art. 602, secondo  comma:  "Se
 le  parti  richiedono  concordemente  l'accoglimento,  in  tutto o in
 parte, dei motivi di appello a norma dell'art. 599, quarto comma,  il
 giudice,  quando  ritiene  che  la  richiesta  deve  essere  accolta,
 provvede  immediatamente;  altrimenti  dispone  la  prosecuzione  del
 dibattimento.  La richiesta e la rinuncia ai motivi non hanno effetto
 se il giudice decide in modo difforme dall'accordo".
    Esaminiamo  piu'  da  vicino  in  che cosa esattamente consiste la
 "pattuizione" e qual e' il suo contenuto. Le parti  devono  anzitutto
 concordare  sull'accoglimento  di  tutti o di parte dei motivi, ed e'
 questo,  per  cosi'  dire,  l'elemento  negoziale  dell'atto  che  si
 presenta  per  primo  nella  fattispecie  progressiva. Raggiunto tale
 accordo, deve subito dopo  intervenire,  come  posterius  logico,  la
 rinuncia   agli  altri  eventuali  motivi  che  non  formano  oggetto
 dell'accordo. Infine occorre una manifestazione di  volonta'  comune,
 consistente  nella  istanza,  rivolta  alla  Corte,  di provvedere in
 camera di consiglio. Mentre  l'intesa  sull'accoglimento  parziale  o
 totale  dei  motivi ha necessariamente natura di negozio bilaterale o
 plurilaterale (parti essenziali saranno  l'imputato  e  il  p.m.,  ma
 possono  parteciparvi  anche i soggetti eventuali del processo: parte
 civile, responsabile civile, persona civilmente obbligata per la pena
 pecuniaria),  la  successiva  rinuncia  ad uno o piu' motivi resta un
 negozio giuridico  unilaterale,  richiedendo,  per  produrre  il  suo
 effetto,  unicamente  la  manifestazione  di  volonta'  del  soggetto
 impugnante.
    Taluno potrebbe pensare che esista una precisa correlazione tra la
 disposizione in discorso e quella del primo comma, nel senso  che  la
 procedura  in camera di consiglio in tanto sia consentita in quanto i
 motivi di cui si chiede l'accoglimento involgano gli  stessi  capi  o
 punti  della  decisione gia' considerati nella prima ipotesi del rito
 abbreviato d'appello (specie o  quantita'  della  pena,  giudizio  di
 comparazione  tra  le  circostanze,  applicabilita'  delle attenuanti
 generiche o dei benefici).  Questa  interpretazione,  la  quale  pure
 avrebbe  il  merito  di stabilire una piena armonia tra il primo e il
 quarto comma del medesimo art. 599, cosi' tassativamente  delimitando
 e  circoscrivendo  i casi di decisione in camera di consiglio ai soli
 aspetti marginali dell'impugnazione,  ossia  al  solo  quantum  della
 pretesa  punitiva  senza  coinvolgere  questioni di responsabilita' (
 an), non sembra possa essere  condivisa.  Le  espressioni  usate  dal
 legislatore   sono   infatti  tali  da  segnare  assai  piu'  confini
 all'istituto. Deve considerarsi in primo  luogo  che  l'accordo  puo'
 riguardare anche l'accoglimento di tutti o dell'unico motivo proposto
 (e' questa l'ipotesi  normativa  dell'accordo  sull'accoglimento  "in
 tutto"   dei  motivi  d'appello):  se  l'appello  avesse  ab  origine
 l'oggetto definito dal primo comma, sarebbe inutile ogni accordo  sul
 suo   accoglimento,   perche'  dovrebbe  seguirsi  automaticamente  e
 obbligatoriamente la procedura in camera di consiglio ivi prescritta.
 In  verita'  la  legge non stabilisce affatto quale debba essere, per
 giustificare il rito in camera di consiglio, l'oggetto dei motivi  di
 cui  si chieda concordemente l'accoglimento. Del resto, se fosse vera
 la tesi contraria, non  si  spiegherebbe  la  facolta'  accordata  al
 giudice  di  respingere  allo  stato  la  richiesta,  quando  analoga
 facolta' non e' concessa nell'ipotesi del primo comma.
    Si  ricava quindi da questi argomenti letterali e sistematici che,
 in seguito alla rinuncia (eventuale) ad uno o piu' motivi,  l'appello
 puo'  restringersi  anche  a  motivi  di merito, concernenti cioe' il
 punto   della   responsabilita'   o   della   quantita'    di    tale
 responsabilita'. Si faccia il caso dell'imputato il quale, condannato
 per due titoli di  reato,  abbia  impugnato  entrambi  i  capi  della
 decisione, ma rinunci poi al motivo concernente uno di essi dopo aver
 concordato  l'accoglimento  del   motivo   concernente   l'altro;   o
 dell'imputato il quale cessi di contestare la propria responsabilita'
 e insista soltanto per il riconoscimento di  una  o  piu'  attenuanti
 comuni o speciali. E' naturale poi che la norma trovera' applicazione
 anche nel caso di appello del p.m. E' difficile  ma  non  impossibile
 che l'accusa riesca a concordare con l'imputato, per es., nel caso di
 sentenza d'assoluzione su due capi la  condanna  per  un  solo  capo,
 rinunciando all'appello sull'altro capo; o il semplice riconoscimento
 di un'aggravante, per far salvi i princi'pi, ma con un minimo aumento
 della  pena;  o anche il semplice aggravamento della pena per un capo
 in cambio della rinuncia  del  p.m.  all'appello  su  un  altro  capo
 recante assoluzione. Le possibilita', come si vede, sono molteplici e
 bastera'  averne  elencate  alcune  a  caso.  Naturalmente  le  parti
 dovranno  indicare la pena sulla quale sono d'accordo non solo quando
 debba  procedersi   ad   una   "nuova"   determinazione   (o   meglio
 quantificazione,  in  piu'  o  in meno) di una pena gia' inflitta, ma
 altresi' quando l'accoglimento d'un motivo (si  trattera'  ovviamente
 d'un  motivo del p.m.) comporti per la prima volta l'inflizione della
 pena (per es. potrebbe l'imputato accettare la condanna  chiesta  dal
 p.m.  per  un  capo  a  patto  di  ottenere  il minimo della pena e i
 benefici per detto capo e di conservare  l'assoluzione  da  un  altro
 capo, del pari impugnato dall'accusa).
    Questo   macchinoso   congegno   pattizio   puo'  essere  proposto
 all'attenzione  del  giudice  d'appello  in   due   diversi   momenti
 processuali: prima che sia stata ordinata la citazione a comparire al
 dibattimento (art. 599, quinto comma),  e  nel  dibattimento,  subito
 dopo  la  relazione  introduttiva (art. 602, primo comma). La lettera
 della legge ("la richiesta e la rinuncia... possono essere riproposte
 nel  dibattimento"),  implicando  reiterazione,  farebbe escludere la
 proponibilita' per la prima volta del "concordato" nel  dibattimento;
 tuttavia nessuna preclusione sicura si rinviene nel testo normativo e
 pertanto s'impone la soluzione piu' liberale. Del resto e' importante
 precisare  che  la  richiesta  riproposta nel dibattimento non dovra'
 necessariamente ricalcare quella a suo tempo respinta dalla Corte: ed
 allora,  se  la  richiesta  "riproposta"  potra'  avere  un contenuto
 diverso da quello originario, si' da presentarsi come "nuova", non si
 vede  perche'  dovrebbe  essere  preclusa  una richiesta formulata in
 dibattimento per la prima volta, ossia anch'essa, al pari dell'altra,
 "nuova".
    Accredita  questa  opinione  anche  la  relazione, dove e' scritto
 (pag. 131) che "nel secondo comma  e'  prevista  la  possibilita'  di
 reiterazione    dell'accordo   tra   le   parti   circa   la   misura
 dell'accoglimento dell'appello di una di esse  o  di  entrambe,  come
 prosecuzione  della  richiesta avanzata per il procedimento in camera
 di  consiglio  ai  sensi  dell'art.  592   (ora   599)   o   comunque
 autonomamente":  dove  quell'avverbio  "autonomamente"  allude ad una
 duplice possibilita', una di rito (proposizione della  richiesta  per
 la  prima volta in dibattimento) e l'altra di contenuto (proposizione
 di una richiesta autonoma, cioe' diversa dalla precedente).
    Che  il  "patteggiamento"  fin  qui  esaminato sia e voglia essere
 istituto del tutto diverso da quello disciplinato nel primo comma  e'
 confermato  da  un  passo della relazione al progetto preliminare nel
 quale, illustrandosi l'innovazione conseguente alla direttiva n.  93,
 cosi' si chiarisce la genesi dell'ampliamento dell'unico procedimento
 camerale originariamente previsto  dal  legislatore  delegante:  "Pur
 considerandosi che le ipotesi di operativita' di questo rito previste
 dalla delega costituiscano un'elencazione tassativa, si  e'  ritenuto
 che  la  ratio che ha dettato tale innovazione ne consenta l'adozione
 anche allorquando il dibattimento pubblico si appalesi inutile.  Cio'
 accade quando le parti abbiano raggiunto un accordo sull'accoglimento
 dei motivi di appello o di alcuni tra essi quando i motivi siano piu'
 d'uno,  con  contestuale  rinuncia  agli  altri.  Nell'ambito di tale
 estensione e' precisato che l'accordo, quando l'accoglimento comporti
 una nuova determinazione della pena, debba riguardare anche l'entita'
 della sanzione da comunicare al giudice. Il meccanismo e'  completato
 dalla disposizione dell'ultimo comma, che consente al giudice, se non
 ritiene di accogliere  la  richiesta,  di  disporre  la  citazione  a
 comparire  al  dibattimento.  S'intende che in tal caso la rinunzia e
 l'accordo perdono la loro efficacia, anche se  ne  e'  ammessa,  come
 vedremo, la riproposizione in sede dibattimentale" (pag. 131).
    E'  inevitabile dunque porsi il quesito della corrispondenza di un
 tale istituto alla volonta' del legislatore  delegante  e  della  sua
 riconducibilita'  o meno ai pri'ncipi e criteri direttivi delimitanti
 l'esercizio della funzione legislativa del Governo.
    Orbene,  gli  istituti  disegnati  nel  primo  e  nel quarto comma
 dell'art. 599 non hanno davvero alcun elemento comune, se non quando,
 per  mera  occasionalita',  l'accordo  e  la  rinuncia restringano la
 cognizione del giudice d'appello  alla  materia  prevista  nel  primo
 comma.  Come  si e' abbondantemente sperimentato in questi primi mesi
 di applicazione del nuovo codice, il modulo ricorrente e'  stato  per
 l'appunto  quello  della rinuncia dell'imputato ai motivi concernenti
 la responsabilita' per ripiegare, con il consenso del p.g. d'udienza,
 sull'accoglimento del motivo subordinato di una riduzione della pena,
 con o senza la concessione delle circostanze attenuanti generiche, in
 una  misura  concordemente proposta alla Corte. Espediente questo che
 se per un verso crea nell'imputato, persuaso  com'e'  che  l'adesione
 del  p.g.  rappresenti  l'unico decisivo viatico verso la benevolenza
 della Corte, una pericolosa aspettativa di  appagamento;  all'opposto
 esercita  sul  giudice  una  certa  forza  di  seduzione,  perche' lo
 affranca dalla fatica della motivazione in  cambio  di  uno  "sconto"
 della  pena,  intesa  quasi  quale  "atto  dovuto" in ossequio ad una
 prassi sanzionatoria tenacemente arroccata sui minimi edittali  o  su
 pene eccedenti il minimo in misura irrisoria quando non simbolica. Di
 qui, e' bene dirlo senza ambagi, il rischio concreto d'uno scadimento
 della  dialettica  processuale,  d'una  progressiva  decadenza  della
 motivazione, sempre piu' tentata di recepire acriticamente i  termini
 dell'accordo  quasi  fossero, per una tacita intesa, vincolanti, d'un
 abbassamento insomma  dell'intima  moralita'  del  giudizio,  in  una
 visione  contrattualistica  del  processo  dalla  quale potrebbe alla
 lunga uscire profondamente avvilita  la  stessa  figura  del  giudice
 "soggetto soltanto alla legge".
    Chiusa  la  digressione, restano alcune brevi osservazioni piu' in
 tema. Innanzitutto la legge delegante, con la  direttiva  n.  45,  ha
 voluto  introdurre  un'unica  forma  di "patteggiamento", vale a dire
 l'applicazione della pena su richiesta  delle  parti,  strutturandola
 come  giudizio  speciale  di  primo  grado  (artt.  444 e segg.). Per
 converso il solo procedimento speciale d'appello con rito  abbreviato
 delineato  dalla delega con la direttiva n. 93 e' quello disciplinato
 dall'art. 599, primo comma, affatto privo  di  elementi  pattizi,  in
 quanto  prevede  che, per esclusiva volizione dell'appellante, la res
 judicanda si presenti ab initio limitata a  determinati  punti  della
 decisione, involgenti aspetti marginali del giudizio; esige cioe' che
 non sia piu' in discussione l'an debeatur ma unicamente,  sotto  vari
 profili,  il  quantum  debeatur,  si' da rendere obbligatorio il rito
 camerale.
    Sovvertendo   questo   ben  circoscritto  sistema  il  quale,  con
 l'addurre ragioni di  celerita'  funzionali  alla  semplicita'  della
 materia  del  contendere, segna pur sempre un malinconico ripudio del
 dibattimento pubblico, un tempo cardine del processo quale "mezzo per
 fugare  qualsiasi  sospetto  di  parzialita'",  si  e'  proceduto  ad
 un'incauta estensione del rito camerale ad una serie  di  ipotesi  in
 cui,  come  si  e' spiegato, l'elemento pattizio e' predominante e la
 res judicanda, come risultante dall'accordo, puo'  attenere  anche  a
 problemi  di responsabilita' (da dibattere nel chiuso della camera di
 consiglio e da decidere  con  ordinanza|).  Non  si  e'  considerato,
 evidentemente, che le deroghe alla pubblicita' del dibattimento vanno
 disposte con oculata prudenza e non generalizzate, se  non  si  vuole
 che il principio costituzionale della giustizia "amministrata in nome
 del  popolo"  abbia  a  soffrirne  (e  si  ricordi  che  un'ordinanza
 siffatta, pur potendo definire il processo, e' orba dell'intestazione
 "in nome del popolo italiano").
    Ed   ancora,   prevedendo   la  possibilita'  di  "riproporre"  in
 dibattimento l'ipotesi di accordo gia' respinta dalla corte in camera
 di  consiglio o un'ipotesi diversa, e addirittura ammettendo, seppure
 per implicito, che all'accordo si possa pervenire per la prima  volta
 nel   dibattimento,   i  codificatori  hanno  gravemente  turbato  la
 linearita' del  giudizio  d'appello,  da  una  parte  vanificando  la
 previsione  dell'accordo  predibattimentale  (al  quale, anche per la
 complessita' della sua formazione  progressiva,  le  parti,  si  puo'
 esserne  sicuri,  non  faranno  mai  o quasi mai ricorso); dall'altra
 incoraggiando poco edificanti trattative coram populo oppure, in nome
 dello  jus variandi, ancora meno commendevoli "aggiustamenti", merce'
 reciproche  concessioni,  del  primo  accordo  disatteso;  ed  infine
 provocando  un'anomala conclusione del dibattimento (ancora una volta
 con ordinanza) quando il giudice ritenga di accogliere la  richiesta,
 e  diffondendo  una  spiacevole  aura di prevenzione verso il giudice
 che, svonfessando  anche  l'organo  della  pubblica  accusa,  ritenga
 invece  il  contrario  e disponga "la prosecuzione del dibattimento".
 Non sempre riuscira' ad attenuare questa prevenzione  il  sapere  che
 l'ordine  di  proseguire  il  dibattimento  non  sta a significare il
 definitivo rifiuto dell'accordo, perche' esso, lungi dall'essere  una
 buona  volta sepolto, potra' essere accolto nella sentenza anche dopo
 la chiusura del dibattimento, se e'  vero  che  l'art.  602,  secondo
 comma,  lo  dichiara  caducato soltanto qualora il giudice decida "in
 modo difforme". Espressione non molto felice, ma  interpretabile  nel
 senso  che,  se  il  giudice  intenda in tutto o in parte discostarsi
 dall'accordo, deve giudicare come se  la  richiesta  congiunta  e  la
 rinunzia  non  ci  fossero, vagliando cioe' anche i motivi oggetto di
 rinuncia.
    E  cosi',  in omaggio alla speditezza e alla semplificazione delle
 procedure,  si  potra'  avere   un   accordo   respinto   prima   del
 dibattimento;  riproposto,  con o senza varianti, nel dibattimento, e
 respinto ancora  una  volta;  e  finalmente  consacrato  in  sentenza
 all'esito  della discussione finale e fors'anche dopo la rinnovazione
 del dibattimento| Si aggiunga che, nei processi che proseguono con le
 norme  anteriormente  vigenti, stante il richiamo dell'art. 245 delle
 disposizioni  transitorie  al  solo  art.   599,   il   giudice   del
 dibattimento, quando l'accordo intervenga davanti a lui, posto che la
 previsione del quinto comma dell'art. 599 e' intimamente connessa con
 quella  dell'art.  602, secondo comma, che la completa, e' costretto,
 per colmare la lacuna, ad  applicare  quest'ultima  disposizione,  in
 vigore  si'  ma  applicabile  nei  soli  processi  a  venire,  in via
 analogica.
   Dopo  cosi'  lunga  premessa  sembra  ozioso chiedersi se e in qual
 misura    questo    farraginoso    congegno    processuale,    frutto
 dell'esasperazione  del  potere  dispositivo  delle  parti  nei gradi
 d'impugnazione,   del   quale   non   si   sa   se   deplorare   piu'
 l'approssimazione  tecnica  o le pericolose concessioni sul piano dei
 princi'pi, risponda alle vere intenzioni del  legislatore  delegante.
 Nella  realta'  esso  rappresenta  un'escogitazione  del tutto nuova,
 priva di ogni addentellato nei princi'pi e nei criteri della legge di
 delega,  nella  quale (e va detto a tutto merito di quel legislatore)
 invano si cercherebbe  un  solo  accenno  autorizzante  una  siffatta
 arbitraria  duplicazione  dell'unico rito camerale previsto e fondato
 su presupposti tutt'affatto diversi. Il rito  qui  criticato  per  di
 piu'  non resta neppure segregato nella camera di consiglio, ma nella
 maggior parte dei casi  ha  in  una  pregressa  camera  di  consiglio
 soltanto  il suo lontano ed eventuale antecedente e va ad interferire
 nell'ordinato corso del dibattimento,  mutandosi  cosi'  da  istituto
 camerale in istituto tendenzialmente dibattimentale. Se ne deduce che
 i redattori del codice non possono addurre, a  loro  giustificazione,
 l'evanescente  criterio  dell'identita' di ratio, posto che non hanno
 eliminato  il  dibattimento  (stante  l'ovvia  facolta'  del  giudice
 d'appello di respingere la richiesta predibattimentale) ed anzi quasi
 istituzionalmente l'hanno reso teatro della "pattuizione"  in  esame,
 col  consentire  che  all'accordo  si faccia luogo, per la prima o la
 seconda volta, proprio in quella fase.
    Ritiene   conclusivamente   questa   Corte  che  siano  divergenti
 totalmente dai limiti della delega (direttiva n. 93  della  legge  16
 febbraio  1987,  n. 81), e adottate percio' in carenza di delega, si'
 da porsi in contrasto con gli artt. 76 e 77 della Costituzione, tutte
 le  norme  delineanti  l'istituto  fin  qui esaminato, vale a dire il
 quarto e il quinto comma dell'art. 599 e il secondo  comma  dell'art.
 602  del  nuovo  codice  di  procedura penale; cui va aggiunto, per i
 procedimenti pendenti, l'art.  245  delle  norme  transitorie,  nella
 parte  in cui richiama come immediatamente applicabili in quarto e il
 quinto comma dell'art. 599, in riferimento all'art. 6 della legge  di
 delega.
    Il  giudizio va quindi sospeso e gli atti vanno rimessi alla Corte
 costituzionale.