ha pronunciato la seguente
                                SENTENZA
 nei giudizi di legittimita' costituzionale dell'art. 248 disposizioni
 di attuazione codice di procedura penale e dell'art.  444  codice  di
 procedura penale, promossi con le seguenti ordinanze:
      1)  ordinanza emessa il 7 novembre 1989 dal Tribunale di Pistoia
 nel procedimento penale a carico di Milano Anna, iscritta al  n.  659
 del  registro  ordinanze  1989  e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale
 della Repubblica n. 2, prima serie speciale, dell'anno 1990;
    2)  ordinanze emesse il 18 novembre 1989 e il 20 dicembre 1989 dal
 Pretore di Vercelli nei  procedimenti  penali  a  carico  di  Voraldo
 Nicola  ed  altro  e  Quartarone  Ercole, iscritte ai nn. 30 e 60 del
 registro ordinanze 1990 e pubblicate nella Gazzetta  Ufficiale  della
 Repubblica nn. 8 e 5, prima serie speciale, dell'anno 1990;
     Visti  gli  atti  di  intervento del Presidente del Consiglio dei
 ministri;
     Udito  nella  Camera  di  consiglio del 26 giugno 1990 il Giudice
 relatore Ettore Gallo.
                           Ritenuto in fatto
    1.  -  Con  ordinanza  7  novembre  1989,  il Tribunale di Pistoia
 sollevava questione di legittimita' costituzionale  degli  artt.  248
 del decreto legislativo 26 luglio 1989 n. 271 (Norme di attuazione di
 coordinamento e transitorie del codice di procedura  penale)  e  444,
 secondo  comma,  del  codice di procedura penale 1988, in riferimento
 all'art. 101, secondo comma, della Costituzione. Esponeva l'ordinanza
 che  un'imputata  del reato di cui all'art. 71 della legge n. 685 del
 1975, nel  corso  delle  formalita'  di  apertura  del  dibattimento,
 chiedeva,  ex  art.  248  citato,  l'applicazione  della pena a norma
 dell'art. 444 codice procedura penale.
     Il  pubblico ministero esprimeva il suo consenso in ordine ad una
 pena di anni uno e mesi sei di reclusione e Lit. 2.000.000 di  multa,
 con la concessione del beneficio della sospensione condizionale.
     Ma  il  Tribunale riteneva che la pena cosi' indicata dalle parti
 fosse inadeguata alla gravita' del reato, pur risultando corretta  la
 qualificazione  giuridica  del  fatto  e  sussistente  la circostanza
 attenuante.  Lamentava,  percio',  che  gli  fosse   "preclusa   ogni
 valutazione  degli  elementi  previsti  dagli  artt. 132 e 133 codice
 penale", tanto per quanto si riferisce alla pena base quanto per cio'
 che riguarda la misura della diminuzione.
    Di  qui il contrasto con il principio di cui all'art. 101, secondo
 comma, della Costituzione perche' la  preclusione  che  il  Tribunale
 viene   a   subire  non  dipende  da  "una  situazione  rigorosamente
 predeterminata  per  legge",  bensi'  dell'esercizio  di  un   potere
 discrezionale  che l'art. 444 citato attribuisce alle parti, e non e'
 comunque sindacabile dal giudice.
     L'ordinanza ritiene che analogo profilo d'incostituzionalita' sia
 emerso nelle motivazioni delle sentenze interpetrative di rigetto  n.
 123 del 1971 e 120 del 1984, dalle quali risulta che mai la richiesta
 o il parere del pubblico ministero puo' avere per il  giudice  valore
 vincolante:  dal che dovrebbe arguirsi l'illegittimita', ex art. 101,
 secondo comma della Costituzione, delle situazioni in cui l'esercizio
 del  potere  giurisdizionale  sia vincolato ad un potere riconosciuto
 alle parti.
     2.  -  Con due ordinanze, datate rispettivamente 18 novembre e 20
 dicembre  1989,  il  Pretore  di  Vercelli  sollevava  questione   di
 legittimita'  costituzionale  dell'art.  444 codice procedura penale,
 con riferimento agli artt. 101, secondo comma, 102, primo comma,  13,
 primo  comma,  24,  secondo  comma,  27,  secondo comma, e 111, primo
 comma, della Costituzione.
     Si apprende dall'ordinanza trattarsi di due giudizi direttissimi,
 in quanto il Pretore fa riferimento all'art. 566 primo  comma  codice
 procedura  penale.  In  essi  gli arrestati, subito dopo l'udienza di
 convalida, hanno formulato richiesta di  applicazione  della  pena  a
 norma  dell'art. 444 codice procedura penale, incontrando il consenso
 del pubblico ministero, sicche' il giudizio si e' svolto davanti allo
 stesso pretore del dibattimento.
     Il  Pretore  trova corretti tanto la qualificazione giuridica del
 fatto quanto la configurazione delle circostanze e  i  criteri  della
 loro  comparazione,  ma  nulla  dice  in ordine alla congruita' della
 pena, che le parti hanno indicato, rispetto al fatto come  risultante
 dagli  atti e alle note che lo contraddistinguono. Solleva, tuttavia,
 dubbi di legittimita' costituzionale in quanto sarebbe  costretto  ad
 applicare  la  pena,  cosi'  come  viene  dalle parti indicata, senza
 potere esercitare alcun sindacato sulla sua congruita' e senza potere
 esprimere   una   effettiva   motivazione.  Fa  notare,  infatti,  il
 rimettente  che   la   sua   decisione,   trattandosi   di   giudizio
 direttissimo,  dovrebbe basarsi esclusivamente sugli atti di indagini
 preliminari compiuti dalla  polizia  giudiziaria,  consistenti  nella
 segnalazione  di  reato,  nel verbale di arresto, e nella denunzia in
 istato di arresto, cosi' come redatti dai carabinieri.
     Ne  deriva  che  al  giudice non resterebbe che la verifica della
 cosidetta "cornice di legittimita'" entro cui la pena viene indicata,
 ed  anzi  dubita  il Pretore che perfino il controllo del giudizio di
 comparazione delle circostanze resti escluso dalla verifica. In  ogni
 caso,  si  tratterebbe  di  una  decisione  sulla  base degli atti, e
 percio' di risultanze che salvo l'ipotesi di incidenti probatori  non
 hanno valore di prova.
     Una  tale situazione verrebbe in conflitto - secondo il Pretore -
 con i seguenti parametri costituzionali:
      1Œ)   Con   l'art.   101,   primo   comma,  della  Costituzione,
 innanzitutto, perche' il contenuto della  sentenza,  essendo  rimesso
 all'intesa  delle  parti, non comporta l'intervento del convincimento
 del giudice, salvo che per l'anzidetto controllo di legittimita'.  Il
 giudice  resterebbe,  percio', spogliato del potere di commisurazione
 della pena, a' sensi dell'art. 133 codice penale, e non in virtu'  di
 criteri  rigorosamente  predeterminati dalla legge, bensi' a causa di
 un potere discrezionale attribuito ad altri soggetti.
    L'ordinanza richiama, in proposito, le sentenze di questa Corte n.
 123 del 1971 e 120 del 1984.
     2Œ)  Con  la  regola  di  cui  all'art.  102,  primo comma, della
 Costituzione, che riserva ai magistrati  ordinari  l'esercizio  della
 funzione  giurisdizionale,  mentre l'art. 444 codice procedura penale
 affida sostanzialmente alle parti (pubblico ministero ed imputato) la
 scelta  discrezionale  della  misura  della pena che viene imposta al
 giudice.
      3Œ)  Con  i  principi  di  cui agli artt. 13, primo comma, e 24,
 secondo comma, della Costituzione, in quanto l'art.  444  denunziato,
 consentendo  l'emanazione di una condanna sulla base di atti relativi
 ad indagini preliminari e, quindi, senza sostanziale accertamento  di
 responsabilita', rende possibile all'imputato di rinunziare a diritti
 indisponibili quali la liberta' personale e il diritto di difesa.
      4Œ)  Con  l'art.  27,  secondo comma, della Costituzione perche'
 limitando l'accertamento del  giudice  alla  mera  sussistenza  delle
 cause di non punibilita' di cui all'art. 29, codice procedura penale,
 si verificherebbe  una  sorta  di  capovolgimento  del  principio  di
 presunzione di non colpevolezza, in quanto sembrerebbe cosi' esigersi
 che debba essere  provata  l'innocenza  anziche'  la  responsabilita'
 penale.
     5Œ) Con l'obbligo costituzionale di motivazione dei provvedimenti
 giurisdizionali,  sancito   dall'art.   111,   primo   comma,   della
 Costituzione,  dato  che  la  sentenza  prevista dall'art. 444 codice
 procedura penale prescinde completamente da qualsiasi valutazione  di
 merito  da parte del giudice e, quindi, dal suo libero convincimento,
 mentre   sarebbe   arduo    attribuire    valore    di    motivazione
 all'enunciazione  nel  dispositivo  che  vi  e' stata richiesta dalle
 parti.
     3.  -  E'  intervenuto  in  tutti  i  giudizi  il  Presidente del
 Consiglio dei ministri, rappresentato dall'Avvocatura Generale  dello
 Stato,  che  ha  chiesto declaratoria di infondatezza delle sollevate
 questioni.
     Secondo   l'Avvocatura   Generale,  il  profilo  d'illegittimita'
 concernente l'art. 101, primo comma, della Costituzione sarebbe privo
 di  consistenza perche' l'art. 444 e' legge non meno di quanto lo sia
 l'art. 133 codice penale. Il potere del giudice di graduare  la  pena
 non  rappresenta  un paradigma insuscettibile di modifiche e, d'altra
 parte, la sentenza di cui all'art. 444 del codice di procedura penale
 non  avrebbe  nemmeno  valore  di  vera  e  propria condanna, essendo
 soltanto alla condanna "equiparata".
     Non  pertinente,  poi,  sarebbe  il  richiamo  dell'ordinanza  di
 rimessione alle due  citate  sentenze  della  Corte.  Mentre  sarebbe
 infondato    il   riferimento   all'art.102,   primo   comma,   della
 Costituzione,  in   quanto   non   puo'   essere   definito   "potere
 giurisdizionale"  l'intesa  fra le parti nell'investire il giudice su
 un determinato "thema decidendum", tanto piu' che poi e'  pur  sempre
 al giudice che spetta il controllo di legittimita'.
     Quanto  agli  artt.  13  e  24,  nei  loro  primi commi, essi non
 verrebbero  nemmeno  in  campo,  secondo  l'Avvocatura:  sia  perche'
 l'imputato  e' perfettamente in grado di tutelare la propria liberta'
 subordinando  la  richiesta  alla   concessione   della   sospensione
 condizionale  della  pena,  sia  perche'  proprio  il  rito  in esame
 assicura all'imputato i maggiori vantaggi difensivi, ed egli peraltro
 e'  sempre  libero di rinunciare al rito speciale preferendo le forme
 ordinarie.
     Infine,  per  cio'  che  attiene all'art. 111, primo comma, della
 Costituzione, osserva l'Avvocatura che "l'obbligo di  motivazione  si
 correla intimamente alla natura del provvedimento giurisdizionale cui
 la stessa si riferisce".
                         Considerato in diritto
    1. - Il Tribunale di Pistoia, impugnando l'art. 248 delle norme di
 attuazione, di coordinamento e transitorie del  codice  di  procedura
 penale  1988  (testo  approvato  con il decreto legislativo 28 luglio
 1989, n. 271) e l'art. 444, secondo  comma,  cod.  proc.  pen.  1988,
 limita   il   riferimento   all'art.   101,   secondo   comma,  della
 Costituzione. Il Pretore di Vercelli, invece, impugnando l'art.  444,
 secondo  comma,  cod.  proc.  pen.,  estende  il riferimento, con due
 distinte ordinanze, anche agli artt.  102  secondo  comma,  13  primo
 comma,  24  secondo  comma, 27 secondo comma e 111 primo comma, della
 Costituzione.
     In sostanza, ambo i rimettenti lamentano che l'intesa delle parti
 sulla misura della pena priva il giudice di ogni sindacato sulla  sua
 congruita'   e   di   ogni  possibilita'  di  esprimere  un'effettiva
 motivazione, dato che questa sarebbe limitata alla cosidetta "cornice
 di   legittimita'"  e  all'indicazione  che  vi  e'  stata  richiesta
 consensuale delle parti. Il Pretore, anzi, dubita perfino che abbia a
 restare  escluso  dalla  verifica  il giudizio di bilanciamento delle
 circostanze.
     Entrambi,  pertanto,  ritengono che una siffatta situazione venga
 in conflitto con l'art. 101, primo comma, della Costituzione, perche'
 il  giudice,  anziche'  essere  soggetto soltanto alla legge, sarebbe
 sostanzialmente tenuto alla volonta' delle parti, salvo  che  per  il
 controllo  di  legittimita'  sulla  definizione giuridica del fatto e
 sulle circostanze. In particolare, il giudicante resterebbe spogliato
 del  potere  di  commisurare  la  pena,  e  non  in virtu' di criteri
 rigorosamente predeterminati, ma a causa di un  potere  discrezionale
 attribuito ad altri soggetti.
     Tutte  le  ordinanze  richiamano,  in  proposito,  le sentenze di
 questa Corte n. 123 del 1971 e 120 del 1984.
     Il Pretore, poi, nelle sue ordinanze, ritiene che il contrasto si
 estenda altresi':
      1Œ)  all'art.  102,  primo comma, della Costituzione, perche' la
 scelta della misura della pena viene attribuita alle parti, mentre la
 funzione giurisdizionale spetta ai giudici;
     2Œ)  agli  artt.  13,  primo  comma  e  24,  secondo comma, della
 Costituzione perche' si rende possibile all'imputato  la  rinunzia  a
 diritti  indisponibili,  quali  la liberta' personale e il diritto di
 difesa;
      3Œ)  all'art.  27,  secondo comma, della Costituzione perche' si
 verificherebbe una sorta di capovolgimento del principio che  presume
 la  non  colpevolezza dell'imputato, in quanto sembrerebbe che l'art.
 444 cod. proc. pen. pretenda la prova dell'innocenza  anziche'  della
 responsabilita' penale;
      4Œ)  all'art.  111,  primo comma, della Costituzione perche' non
 puo'  attribuirsi  valore   di   motivazione   all'enunciazione   nel
 dispositivo   della   richiesta   delle   parti,  mentre  manca  ogni
 indicazione del convincimento del giudice sul merito.
    In  tutti i giudizi e' intervenuto il Presidente del Consiglio dei
 ministri, rappresentato dall'Avvocatura Generale dello Stato  che  ha
 chiesto  dichiarazione  di  non  fondatezza  per  tutte  le questioni
 sollevate.
     2.  -  Essendo  tutte  le ordinanze incentrate sulla questione di
 legittimita' costituzionale dell'art. 444 cod.  proc.  pen.,  possono
 essere riunite per essere decise con unica sentenza.
     3.  -  Sulla rilevanza, va precisato che, per quanto si riferisce
 alla questione sollevata dal Tribunale di Pistoia,  il  passaggio  al
 merito  - come in altri casi di recente esaminati - andrebbe valutato
 in relazione alla disciplina di diritto transitorio,  pure  impugnata
 dall'ordinanza  (art.  248).  Qui,  pero',  a differenza di quanto la
 Corte  ha  osservato  a  proposito   dell'art.   247   delle   stesse
 disposizioni  (cfr. sentenza n. 66 del 1990), la disciplina, anche se
 autonoma,  non  presenta  caratteri  di  diversita'  e  di  autonomia
 rispetto  all'istituto  previsto  nell'art.  444  cod.  proc. pen. Lo
 dimostrano  i  numerosi  rinvii  dell'art.  248   direttamente   alla
 disciplina  del  codice  (artt. 444, 445, 446, commi secondo, terzo e
 sesto, 447 e 448)  e  quindi,  in  definitiva,  all'intera  struttura
 dell'istituto ordinario.
     L'apparente  diversita' contenuta nell'art. 248, primo comma, che
 al quarto periodo fa salvo l'art. 421 del codice  abrogato,  rispetto
 al  secondo  comma  dell'art.  444  cod.  proc.  pen. che fa, invece,
 riferimento all'art. 129  del  codice  vigente,  si  dimostra  essere
 soltanto  questione  di  armonico  corrispettivo  richiamo.  Infatti,
 l'art. 421 del codice abrogato, sotto la cui vigenza il processo  era
 sorto,  in  realta'  evoca  l'art.  152  dello  stesso codice, che e'
 l'esatto  corrispondente  dell'art.  129  del  codice  di   procedura
 vigente.
     Anche  in  ordine  alle ordinanze del Pretore di Vercelli qualche
 perplessita' potrebbe essere avanzata in punto rilevanza, dato che, a
 differenza  del  Tribunale  di  Pistoia,  che costruisce la doglianza
 sull'espresso giudizio di non congruita' della pena concordata  dalle
 parti,  il  Pretore,  pur avanzando la stessa denunzia, e con maggior
 dovizia di riferimenti costituzionali,  nulla  dice  in  ordine  alla
 congruita'  della pena. Il che potrebbe far dubitare che abbia inteso
 proporre un'astratta questione di legittimita' costituzionale.
     Tuttavia,  a  parte  che,  comunque,  dovrebbe  essere pur sempre
 decisa l'identica questione sollevata dal Tribunale,  sembra  doversi
 ritenere  implicito  anche il giudizio negativo del Pretore in ordine
 alla congruita' della pena, atteso il modo in cui la doglianza  viene
 prospettata.
     Ne  deriva che questo comune aspetto della doglianza, secondo cui
 il giudice viene ad essere  privato  del  potere  di  controllare  la
 congruita'  della  pena  richiesta  consensualmente  dalle  parti, e'
 particolarmente  riferibile  al  parametro  costituzionale   di   cui
 all'art.   27,  terzo  comma:  che  impone  al  giudice  di  valutare
 l'osservanza del principio di proporzione fra quantitas della pena  e
 gravita'  dell'offesa,  e quindi il concreto valore rieducativo della
 pena in relazione alla sua pregnante finalita'.
     L'art.  27,  terzo  comma,  della  Costituzione, cui i rimettenti
 fanno  implicito  riferimento,  dev'essere   pertanto   aggiunto   ai
 parametri espressamente da loro invocati.
      4.1  - Passando al merito, va innanzitutto esclusa la pertinenza
 del richiamo alle due citate sentenze di questa Corte, cosi' come  ha
 rilevato   anche   l'Avvocatura   Generale.  Trattandosi  di  giudizi
 riguardanti il codice abrogato, nell'instaurare comparazioni  con  il
 codice  vigente e' indispensabile tener conto del ben diverso spirito
 che ne presiede le rispettive discipline. Percio', da  una  parte,  i
 problemi  e  le  soluzioni  che  riguardavano  l'istruttoria formale,
 istituto soppresso dal nuovo codice, non  possono  essere  trasferiti
 nei  rapporti  che  intercorrono fra pubblico ministero e giudice del
 dibattimento: e, dall'altra, va ricordato che la sentenza n. 120  del
 1984 si riferiva ad un aspetto diverso di questi rapporti, e cioe' al
 diniego  di   assenso   del   pubblico   ministero   alla   richiesta
 dell'imputato  di  applicazione  della  pena, che la sentenza risolve
 definendolo come sostanziale scelta di rito diverso,  che  e'  scelta
 normalmente  di  sua competenza. Qui, invece, il problema riguarda il
 rapporto fra l'intesa delle parti  sulla  misura  della  pena  e  sui
 poteri del giudice.
     Va,  infine,  ricordato,  per  quanto  in  seguito  dovra' essere
 rilevato sul punto, che i  giudici  a  quibus,  pur  riconoscendo  al
 legislatore   il   potere   di  dettare  criteri  diversi  da  quelli
 contemplati nell'art. 133 del codice penale, esigono pero'  che  ogni
 eventuale   modificazione   dipenda   da   situazioni   rigorosamente
 predeterminate.
      4.2  -  Ebbene,  non  sembra  che il principio di soggezione del
 giudice soltanto alla legge, di cui  al  primo  comma  dell'art.  101
 della Costituzione, riceva offesa da questi e da altri interventi che
 la  particolare  natura  del  nuovo  processo  riconosce  al   potere
 dispositivo delle parti nel contesto del sistema accusatorio.
    Certo,  e'  questione  di  limiti  dovuti al rispetto dei principi
 dettati dalla legge fondamentale, e di cio' sara' detto piu' innanzi,
 ma  non  puo'  essere  rifiutato in linea di principio un potere che,
 lungi dal pregiudicare quello del giudice, e' concepito  in  funzione
 di  collaborazione ad una rapida affermazione della giustizia con una
 effettiva ed immediata applicazione della pena.
    D'altra parte, non sembra nemmeno esatto che la situazione, su cui
 le parti sono autorizzate a presentare la  richiesta  consensuale  di
 applicazione della pena, non sia sufficientemente predeterminata.
     In  realta',  l'ambito  entro  cui  l'intesa diventa possibile e'
 contenuto entro rigorose condizioni, e la  pena  deve  poter  restare
 entro i limiti dei due anni di reclusione. Cio' comporta che l'intesa
 e' ammissibile soltanto per quei reati per i  quali  e'  previsto  un
 minimo  edittale della pena che ne consenta la riduzione, in concorso
 con tutte le possibili diminuzioni, entro i limiti predetti.
     E parimenti predeterminata e' la necessita' che non sussistano le
 condizioni legittimanti il proscioglimento "allo stato  degli  atti".
 Se  queste  sussistono,  infatti,  si  sovrappone alla volonta' delle
 parti il potere-dovere del giudice di applicare l'art. 152 del codice
 abrogato  (ipotesi  dell'art.  248 Disposizioni transitorie) o l'art.
 129 del codice vigente. Altrettanto dicasi se la parte privata  abbia
 subordinato  l'efficacia  della  sua richiesta alla concessione della
 sospensione condizionale della pena: nel qual  caso  il  giudice,  se
 ritiene   la  parte  immeritevole  del  beneficio,  rigetta  l'intera
 richiesta.
     Ne'   e'   vero  che  i  poteri  del  giudice  abbiano  carattere
 "notarile".
     Gia' nell'esercitare il controllo sulla definizione giuridica dei
 fatti, il giudice non valuta soltanto la correttezza di un'operazione
 logico-giuridica. Quando il legislatore ha voluto questo, lo ha detto
 espressamente, come ha fatto  per  il  vizio  della  motivazione  che
 consente   il   ricorso   per  cassazione  soltanto  se  risulta  dal
 provvedimento impugnato (art. 606, primo comma, lettera e, cod. proc.
 pen.).  In altri termini, la Corte di cassazione non puo' rilevare il
 vizio se non e' intrinseco  al  provvedimento,  essendo  esclusa  una
 diversa  valutazione dei fatti cosi' come risultano dagli atti ma non
 dal provvedimento. Qui, invece, il giudice trae il suo  convincimento
 proprio  dalle  risultanze degli atti, e non dal modo in cui le parti
 le hanno valutate, sicche' ben puo'  contestare  che  la  definizione
 giuridica  cui  le parti s'attengono non e' quella che effettivamente
 discende dalle risultanze. E gia' questa e' valutazione di merito  ed
 aspetto  essenziale della soggezione del giudice soltanto alla legge.
     Ma  altrettanto deve dirsi per il riconoscimento delle attenuanti
 che  l'intesa   delle   parti   ritiene   debbano   concorrere   alla
 quantificazione  della  pena  e,  in  ipotesi  di  bilanciamento  con
 eventuali aggravanti, la verifica dei criteri adottati  dalle  parti.
 Nell'uno  come  nell'altro  caso, infatti, e' sempre sulle risultanze
 che s'appunta il sindacato del giudice per la verifica, e percio' non
 e'  vero che il suo controllo s'arresti alla cornice di legittimita':
 che', anzi, esso finisce per essere determinante proprio agli effetti
 della  commisurazione della pena, sulla quale ripristina l'imperio di
 quella legge alla quale, soltanto, egli e' soggetto.
     Ed  e'  anche evidente che, nel procedere al riconoscimento delle
 attenuanti o al giudizio  di  bilanciamento,  dovra'  necessariamente
 attenersi  ai  criteri  di cui all'art. 133 del codice penale, specie
 per quanto si riferisce alle cosidette attenuanti non  scritte  (art.
 62  bis,  cod.  pen.)  che,  per  pacifica  ammissione  di dottrina e
 giurisprudenza, non hanno altro indice di riferimento, se non quello,
 diretto  e  immediato,  di  cui ai criteri dettati dall'art. 133 cod.
 pen.
     Cosi'  come  pure  e'  implicito  che,  sempre ispirandosi ad una
 corretta valutazione delle risultanze, il giudice non soltanto ha  il
 potere  -  dovere  di  controllare - come s'e' detto - la correttezza
 delle circostanze che le  parti  hanno  ritenuto,  ma  puo'  altresi'
 liberamente ravvisarne altre, tanto attenuanti quanto aggravanti: con
 esse  diversamente  condizionando  anche  l'eventuale   giudizio   di
 bilanciamento.
     Ne'   ha   fondamento  il  dubbio  sollevato  dal  Pretore  circa
 l'estensione del sindacato del giudice al  bilanciamento,  risultando
 essa  palesemente  dal dato testuale che riferisce il sindacato anche
 "alla comparazione delle circostanze".
     Non  sembra,  percio',  che,  prescindendo da quanto piu' innanzi
 sara' detto, gli argomenti addotti rivelino un contrasto delle  norme
 impugnate con l'art. 101, primo comma, della Costituzione.
     5.  -  Quanto  si  e' ora detto contiene sufficienti elementi per
 disattendere anche i profili d'illegittimita' sia ex art. 102,  primo
 comma, sia ex art.111, primo comma, della Costituzione.
     Va negato decisamente, infatti, che, nell'ipotesi di cui all'art.
 444  cod.  proc.  pen.,  il  giudice  non   eserciti   una   funzione
 giurisdizionale.
    Anche  se fosse vero che l'art. 444 attribuisca al giudice un mero
 controllo di legittimita', si tratterebbe pur sempre di una  funzione
 giurisdizionale: e per di piu' di una funzione determinante, dato che
 senza di essa le parti non avrebbero alcuna possibilita' di  definire
 il  giudizio,  mentre e' proprio questo il momento qualificante della
 funzione giurisdizionale.
    Peraltro,  si  e' visto che il giudice, invece, questa funzione la
 esercita anche sotto il profilo del merito.
    Ma  va altresi' negato conseguentemente che, nella sentenza di cui
 all'art. 444 cod. proc. pen., non vi sia una motivazione che  esprima
 il  convincimento  del  giudice.  L'enunciazione  nel dispositivo che
 avverte esservi stata richiesta delle  parti  non  e'  effettivamente
 motivazione  -  come lo stesso Pretore annota - ma cio' non significa
 che il dovere del giudice in ordine alla motivazione si esaurisca  in
 quella enunciazione.
     In   realta',   il   giudice   non  puo'  lasciare  senza  alcuna
 giustificazione nella sentenza l'apprezzamento  della  correttezza  o
 meno  della  definizione  giuridica  del  fatto  che scaturisce dalle
 risultanze: cosi' come e'  tenuto  a  dire  le  ragioni  per  cui  le
 circostanze,  attenuanti  od  aggravanti,  e l'eventuale prevalenza o
 equivalenza delle une rispetto  alle  altre,  siano  o  non  ritenute
 plausibili  nei  sensi  prospettati nella consensuale richiesta delle
 parti.
     D'altra   parte,   il   modello  generale  di  sentenza,  che  il
 legislatore delinea nell'art.  546  cod.  proc.  pen.,  prevede  alla
 lettera e del primo comma "la concisa esposizione dei motivi di fatto
 e  di  diritto  su  cui  la  decisione  e'  fondata":  si  tratta  di
 un'esigenza che non e' esclusa dalla particolare configurazione della
 sentenza prevista dall'art. 444 cod. proc. pen., anche se  ovviamente
 va ad essa ragguagliata.
     Si   tratta,   percio',   di  un  provvedimento  motivato  emesso
 dall'Autorita'    giudiziaria    ordinaria    nell'esercizio    della
 giurisdizione, che spazia dal merito alla legittimita'.
     6.  -  Va  ora  esaminata  la  doglianza  secondo  cui vi sarebbe
 attribuzione di una pena a se' stesso da parte dell'imputato: il  che
 significherebbe  disporre  del diritto alla liberta' personale e alla
 difesa, con violazione degli artt. 13 e  24  della  Costituzione  che
 contemplano diritti fondamentali ed indisponibili.
     Quanto  si  e'  detto  piu'  sopra,  in  sede di confronto con il
 parametro di cui  all'art.  101,  primo  comma,  della  Costituzione,
 esclude che il giudice resti estraneo alla determinazione della pena.
     Qui  si  deve  ulteriormente soggiungere che anche l'accertamento
 diretto ad escludere che sussistano, acquisiti  agli  atti,  elementi
 che   negano   la  responsabilita'  o  la  punibilita',  integra  una
 importante   partecipazione   del    giudice    all'indagine    sulla
 responsabilita'.
     Ne'  va  dimenticato che, con il richiedere l'applicazione di una
 pena, l'imputato non nega sostanzialmente la sua responsabilita',  ed
 e',  anzi  consapevole  di  rinunciare persino all'impugnazione se la
 richiesta viene accettata (art. 448, secondo comma, cod. proc. pen.).
 Ebbene,   quando  sorga  qualche  perplessita'  in  ordine  al  senso
 effettivo della sua richiesta, il giudice ha  ampia  possibilita'  di
 sincerarsene,  disponendo  la  comparizione dell'imputato per poterlo
 personalmente sentire: anche questo e' un modo per accertare.
     Peraltro,  ancora  una volta va richiamato il modello generale di
 sentenza di cui all'art. 546 cod. proc. pen., e le prescrizioni della
 lettera  e  del  primo comma, dove si esige che il giudice indichi le
 prove che intende porre a base della  sua  decisione,  ed  enunci  le
 ragioni  per le quali non ritiene attendibili le prove contrarie. Dal
 che si evince che anche la decisione di cui all'art. 444  cod.  proc.
 pen., quando non e' decisione di proscioglimento,non puo' prescindere
 dalle prove della responsabilita'.
     Non  e'  esatto,  percio',  che sia l'imputato ad attribuirsi una
 pena e non il giudice ad imporgliela. A parte l'ovvia  considerazione
 che  non  si tratta di un'attribuzione che l'imputato fa a se stesso,
 ma soltanto di una  richiesta  che,  con  il  consenso  del  pubblico
 ministero,  egli  presenta  al  giudice,  e' sicuro poi che, gia' sul
 piano formale, la richiesta non avrebbe alcun effetto sulla  liberta'
 personale  del  postulante se il giudice non intervenisse, mediante i
 poteri di cui s'e' detto, con la sentenza che infligge in concreto la
 pena ventilata.
     7.  -  Resta,  dunque,  confermato  che  la  essenzialita'  della
 partecipazione del giudice alla decisione non e' soltanto formale.
     Ma cio' che poi non puo' essere assolutamente condiviso e' l'idea
 che  l'imputato  "disponga"  della   sua   "indisponibile"   liberta'
 personale per autolimitarla.
     In  realta'  l'imputato, quando chiede l'applicazione di una pena
 lo fa soltanto per ridurre al minimo quel  maggior  sacrificio  della
 sua  liberta',  che  egli prevede all'esito del giudizio ordinario. E
 quanto  alla  difesa,  e'  proprio  suo   efficiente   strumento   la
 possibilita'  che  la  legge  offre  all'imputato  di  acquisire  con
 sicurezza una pena minima  sottraendosi  al  rischio  di  piu'  gravi
 inflizioni,  persino  - se i precedenti lo consentono e il giudice lo
 ritenga - beneficiando della sospensione condizionale.
     Del  resto, occorre anche guardarsi dal pericolo di confondere il
 diritto di liberta' e quello di  difesa  con  l'obbligo  assoluto  di
 esercitarli. La legge fondamentale garentisce le condizioni affinche'
 il diritto di liberta' personale e quello di  difesa  possano  essere
 esercitati in tutte le loro legittime facolta', ma cio' non autorizza
 a configurare quell'esercizio come obbligatorio.
    Non  e'  ben chiaro, infine, perche' il Pretore rimettente ritenga
 che  nell'art.  444  cod.  proc.   pen.   vi   sia   un   sostanziale
 capovolgimento dell'onere probatorio, contrastante con la presunzione
 d'innocenza   contenuta   nell'art.   27,   secondo   comma,    della
 Costituzione.
     In   effetti,  nel  nuovo  ordinamento  giuridico-processuale  e'
 preponderante l'iniziativa delle parti  nel  settore  probatorio:  ma
 cio'   non   immuta   affatto  i  principi,  nemmeno  nello  speciale
 procedimento in esame, dove anzi il giudice e' in primo luogo  tenuto
 ad  esaminare ex officio se sia gia' acquisita agli atti la prova che
 il  fatto  non  sussiste  o  che  l'imputato  non  lo  ha   commesso.
 Dopodiche',  risultando negativa questa prima verifica, se l'imputato
 ritiene  di  possedere  elementi  per  l'affermazione  della  propria
 innocenza,  nessuno  lo  obbliga  a  richiedere l'applicazione di una
 pena, ed egli ha a disposizione le garenzie del  rito  ordinario.  In
 altri  termini,  chi  chiede l'applicazione di una pena vuol dire che
 rinuncia ad avvalersi della facolta' di  contestare  l'accusa,  senza
 che   cio'   significhi   violazione  del  principio  di  presunzione
 d'innocenza, che continua a svolgere il suo ruolo fino a  quando  non
 sia irrevocabile la sentenza.
     8.  -  Non puo' essere escluso, pero' che, nonostante l'anzidetto
 controllo del giudice, espresso nei limiti evidenziati, la  richiesta
 consensuale  delle  parti, a causa di attenuanti che si fanno operare
 nella  loro  massima  estensione  sul  minimo  della  pena,  vada  ad
 attestarsi,  pur  in  presenza  di  delitti  molto  gravi,  su limiti
 ritenuti dal giudice assolutamente incongrui.
     In   tal  caso  bisogna  riconoscere  che  la  preclusione  dello
 specifico controllo del giudice sulla concreta congruita' della  pena
 puo'   talvolta  determinare  una  situazione  di  conflitto  con  il
 principio di cui al terzo  comma  dell'art.  27  della  Costituzione:
 tanto  piu'  che,  avendo  il  legislatore  previsto  il  giudizio di
 congruita' soltanto nell'ipotesi di cui all'ultimo inciso  del  primo
 comma  dell'art.  448  cod.  proc.  pen. fa propendere a ritenere che
 abbia inteso escluderlo per il caso di cui al secondo comma dell'art.
 444 cod.proc. pen.
     Ma   a  questo  punto  va  espressa  qualche  considerazione  sul
 contenuto del principio emergente dal richiamato comma  dell'art.  27
 della Costituzione.
     In  realta'  la passata giurisprudenza di questa Corte (come, del
 resto  la  dottrina  imperante  nei  primi  anni  di  avvento   della
 Costituzione)  aveva  ritenuto che il finalismo rieducativo, previsto
 dal  comma   terzo   dell'art.   27,   riguardasse   il   trattamento
 penitenziario  che  concreta l'esecuzione della pena, e ad esso fosse
 percio' limitato (quale esempio del lungo  percorso  di  questo  leit
 motiv  si  vedano  le sentenze n. 12 del 1966; n. 21 del 1971; n. 167
 del 1973; n.i 143 e 264 del 1974; 119 del 1975; 25 del 1979; 104  del
 1982;  137  del  1983; 237 del 1984; 23, 102 e 169 del 1985; 1023 del
 1988). A tale risultato si era pervenuto valutando  separatamente  il
 valore  del  momento  umanitario  rispetto  a  quello  rieducativo, e
 deducendo dall'imposizione del principio di umanizzazione la conferma
 del  carattere  afflittivo  e retributivo della pena. Per tal modo si
 negava esclusivita' ed assolutezza al principio rieducativo, che come
 dimostrerebbe   l'espressione   testuale   -   doveva  essere  inteso
 esclusivamente quale "tendenza" del trattamento.
     Ne  e'  derivata quella nota concezione polifunzionale della pena
 che - ad avviso della Corte - non solo non sarebbe  contraddetta,  ma
 sarebbe  anzi  ribadita dal disposto costituzionale (cfr. sentenze n.
 12 del 1966; n. 22 del 1971; n. 179 del 1973;  n.  264  del  1974  ed
 altre).   Per   essa,   le   finalita'  essenziali  restavano  quelle
 tradizionali  della  dissuasione,  della  prevenzione,  della  difesa
 sociale,  mentre  veniva  trascurato il novum contenuto nella solenne
 affermazione della finalita'  rieducativa;  questa,  percio',  veniva
 assunta  in  senso  marginale  o  addirittura  eventuale e, comunque,
 ridotta entro gli angusti limiti del  trattamento  penitenziario.  In
 verita',  incidendo  la pena sui diritti di chi vi e' sottoposto, non
 puo'   negarsi   che,   indipendentemente   da   una   considerazione
 retributiva,  essa  abbia  necessariamente anche caratteri in qualche
 misura afflittivi. Cosi' come e' vero che alla sua natura  ineriscano
 caratteri  di  difesa  sociale,  e  anche di prevenzione generale per
 quella certa intimidazione che esercita sul calcolo utilitaristico di
 colui    che    delinque.   Ma,   per   una   parte   (afflittivita',
 retributivita'),  si  tratta  di  profili   che   riflettono   quelle
 condizioni  minime, senza le quali la pena cesserebbe di essere tale.
 Per altra parte, poi (reintegrazione, intimidazione, difesa sociale),
 si tratta bensi' di valori che hanno un fondamento costituzionale, ma
 non tale da autorizzare il pregiudizio  della  finalita'  rieducativa
 espressamente    consacrata    dalla    Costituzione   nel   contesto
 dell'istituto della pena.  Se  la  finalizzazione  venisse  orientata
 verso  quei  diversi caratteri, anziche' al principio rieducativo, si
 correrebbe  il  rischio  di  strumentalizzare  l'individuo  per  fini
 generali   di   politica   criminale   (prevenzione  generale)  o  di
 privilegiare la soddisfazione di bisogni collettivi di  stabilita'  e
 sicurezza   (difesa  sociale),  sacrificando  il  singolo  attraverso
 l'esemplarita' della sanzione.  E'  per  questo  che,  in  uno  Stato
 evoluto,  la  finalita' rieducativa non puo' essere ritenuta estranea
 alla legittimazione e alla funzione stesse della pena.
    L'esperienza  successiva ha, infatti, dimostrato che la necessita'
 costituzionale che la pena debba "tendere"  a  rieducare,  lungi  dal
 rappresentare   una   mera   generica   tendenza   riferita  al  solo
 trattamento, indica invece proprio una delle  qualita'  essenziali  e
 generali  che  caratterizzano la pena nel suo contenuto ontologico, e
 l'accompagnano da quando nasce, nell'astratta  previsione  normativa,
 fino  a  quando  in concreto si estingue. Cio' che il verbo "tendere"
 vuole significare e' soltanto la presa d'atto della divaricazione che
 nella  prassi  puo'  verificarsi tra quella finalita' e l'adesione di
 fatto del destinatario al processo di rieducazione: com'e' dimostrato
 dall'istituto  che  fa  corrispondere  benefici di decurtazione della
 pena ogni qualvolta, e nei limiti temporali,  in  cui  quell'adesione
 concretamente  si manifesti (liberazione anticipata). Se la finalita'
 rieducativa venisse limitata alla fase esecutiva, rischierebbe  grave
 compromissione  ogniqualvolta  specie  e  durata  della  sanzione non
 fossero  state  calibrate  (ne'  in  sede  normativa  ne'  in  quella
 applicativa) alle necessita' rieducative del soggetto.
     La  Corte  ha gia' avvertito tutto questo quando non ha esitato a
 valorizzare il principio addirittura sul piano  della  struttura  del
 fatto di reato (cfr. sentenza n. 364 del 1988).
     Dev'essere,  dunque,  esplicitamente  ribadito che il precetto di
 cui al terzo comma dell'art. 27 della Costituzione vale tanto per  il
 legislatore  quanto  per  i  giudici  della cognizione, oltre che per
 quelli dell'esecuzione e della sorveglianza, nonche'  per  le  stesse
 autorita' penitenziarie.
     Del  resto,  si  tratta  di  un principio che, seppure variamente
 profilato, e' ormai  da  tempo  diventato  patrimonio  della  cultura
 giuridica  europea,  particolarmente  per  il suo collegamento con il
 "principio di proporzione" fra qualita' e quantita'  della  sanzione,
 da una parte, ed offesa, dall'altra.
     Principio  che  la  Corte di giustizia della Comunita' europea ha
 accolto in tutta la sua ampiezza, al punto da estenderlo all'illecito
 amministrativo  (cfr.  sentenze  20  febbraio  1979, n. 122/1978 e 21
 giugno 1979, n. 240/1978, in Racc. Giur. C.E.E. 1979, 677 e 2137).
     Tanto   piu',   quindi,  esso  deve  trovare  larga  applicazione
 all'interno di un ordinamento come il nostro,  che  ne  ha  fatto  un
 punto cardine della funzione costituzionale della pena.
     Ma  il  secondo comma dell'art. 444 cod. proc. pen., a differenza
 di quanto  dispone  il  primo  comma  dell'art.  448  stesso  codice,
 prevedendo  che il giudice - pur dopo i controlli di cui s'e' detto -
 debba  attenersi  alla  pena  cosi'  come   indicata   dalle   parti,
 limitandosi  ad  enunciare  nel  dispositivo  che  tale  e'  stata la
 richiesta, non consente di valutare la congruita' della pena ai  fini
 e  nei limiti di cui all'art. 27, terzo comma, della Costituzione. Ne
 consegue che, per tale parte, dev'essere dichiarata  l'illegittimita'
 costituzionale della detta disposizione.