IL TRIBUNALE MILITARE
    Ha  pronunciato  la  seguente  ordinanza  nella causa contro Gioia
 Cosimo, nato il 12 giugno 1970 in Torre S. Susanna  (Brindisi),  atto
 di  nascita n. 61/I/A, e residente ad Avetrana (Taranto) in via Monte
 Bianco n. 44; celibe, contadino, incensurato,  soldato  effettivo  al
 battaglione   logistico   "Mameli"  in  Vacile  (Pordenone),  libero,
 imputato di diserzione  (art.  148,  n.  2,  del  c.p.m.p.)  perche',
 scadutogli  un periodo di riposo a domicilio, in data 2 gennaio 1990,
 ometteva, senza giusto motivo, di fare rientro al  corpo  in  Vacile,
 rendendosi assente arbitrario a tutt'oggi.
                            FATTO E DIRITTO
    Anteriormente   all'apertura   del   dibattimento,   il   pubblico
 ministero, dopo aver rilevato che il soldato Gioia non  era  comparso
 senza  un  legittimo  impedimento  dinanzi  a  questo  tribunale  pur
 essendogli stato  ritualmente  notificato  il  decreto  di  rinvio  a
 giudizio,  e  che lo stesso risultava accusato di reato di diserzione
 (art. 148, n. 2, del c.p.m.p.) la cui  assenza  non  era  cessata,  e
 infine che non si erano realizzate a norma dell'art. 377 del c.p.m.p.
 le condizioni necessarie  per  procedere  al  giudizio,  ha  eccepito
 l'illegittimita'  del medesimo art. 377 in relazione all'art. 3 della
 Costituzione.
    La  difesa  non  si  e'  pronunciata nel merito della questione di
 costituzionalita', ed ha comunque  chiesto  la  declaratoria  di  non
 procedibilita'.
    Per  giungere  all'esame  dell'eccezione,  occorre preliminarmente
 descrivere l'attuale situazione normativa, tale per l'appunto da  far
 pervenire  la  parte pubblica alla conclusione dell'impossibilita' di
 procedere al giudizio nei confronti del Gioia.
    Dispone  il  citato  art.  377  che per i reati di diserzione e di
 mancanza alla chiamata (artt. 148, 149 e 151  del  c.p.m.p.)  non  si
 puo'  procedere a giudizio contumaciale, salvo che vi sia concorso di
 altro delitto, o  che  ne  sia  cessata  la  permanenza,  o  che  sia
 diversamente   ordinato   dal  procuratore  generale  militare  della
 Repubblica.
    E  la  diserzione  del  Gioia,  perfezionatasi  alle  ore 24 del 7
 gennaio 1990, risulta ancora in atto dal momento che egli non  si  e'
 piu'  presentato al btg. logistico "Mameli" di Vacile, e non concorre
 con alcun altro delitto.  Non  esiste,  d'altra  parte,  nell'incarto
 processuale  un ordine del procuratore generale militare di procedere
 comunque al giudizio.
    E'  chiaro che tramite la, relativamente complessa, norma in esame
 si e' a suo tempo  inteso  dare  una  disciplina  ad  una  situazione
 valutata,  a  ragione  o  a  torto  non  importa,  di  conflitto: tra
 l'esigenza di una normale punizione dei reati di assenza dal servizio
 ancora  in atto da un lato, e quella di incentivare il piu' possibile
 (particolarmente  per  mobilitazioni   che   si   presentavano   come
 probabili)  una  normale  incorporazione  e  adempimento dell'obbligo
 militare dall'altro. In questo senso un giudizio  nei  confronti  del
 disertore  (e  del mancante alla chiamata) ancora assente deve essere
 apparso, come ha sottolineato  parte  della  dottrina,  evenienza  in
 contrasto con il servizio e con la disciplina. E' possibile, inoltre,
 che  abbia  anche  influito  un  certo  sfavore   per   il   giudizio
 contumaciale  in  genere  (quale  si  evince anche da altre norme del
 codice penale militare), non essendo a quei tempi accettabile che  il
 militare  potesse  esimersi dal dovere di presentarsi dinanzi ai suoi
 giudici, ed al tempo stesso suoi superiori.  Si  legge,  infine,  nei
 lavori  preparatori  che,  essendo  la  diserzione e la mancanza alla
 chiamata reati permanenti, "la (loro) gravita' puo'  considerarsi  in
 continuo  crescendo  e  un  giudizio  anticipato,  prima che lo stato
 antigiuridico sia venuto a  cessare,  potrebbe,  nei  riguardi  della
 pena,  non  essere  esatto  e proporzionato all'entita' della lesione
 giuridica". Per tutte queste ragioni si sono stabilite, per  il  caso
 di  reati  di  assenza  dal  servizio  di  cui  non  sia  cessata  la
 permanenza,   delle   condizioni   di   procedibilita',   anzi   piu'
 particolarmente di proseguibilita' dell'azione penale e del giudizio;
 la concorrenza con altro delitto, o  in  alternativa  un  ordine  del
 procuratore generale militare.
    La disposizione dell'art. 377 e' rimasta, peraltro, operante anche
 dopo l'entrata in vigore della nuova procedura  penale,  dal  momento
 che,  pur  essendo  in  via di principio intervenuta l'abrogazione di
 ogni speciale norma processuale (artt. 1 del c.p.p.; 207  del  d.lgs.
 28  luglio  1989, n. 271), l'art. 50 del c.p.p. espressamente esclude
 quest'effetto  per  le  varie  condizioni,  comuni  o  speciali,   di
 promovibilita' e proseguibilita' dell'azione penale.
    Appare,  pertanto, corretta la conclusione del pubblico ministero,
 e della stessa difesa, secondo cui nella specie  andrebbe  dichiarata
 la non procedibilita' nei confronti del Gioia.
    Del  resto,  proprio questa e' la soluzione costantemente adottata
 da questo tribunale e, secondo quanto risulta, da ogni  altro  organo
 giudiziario militare, e unanimemente condivisa dal pubblico ministero
 nelle sue varie articolazioni, cosi' che,  a  tutt'oggi,  non  si  e'
 avuta alcuna impugnazione e ricorso al giudice di legittimita'.
    Tuttavia, per spiegare in che senso l'art. 377 appaia in contrasto
 con il principio costituzionale dell'art. 3, e' necessario descrivere
 quali   novita',   -   per   effetto   della   sentenza  della  Corte
 costituzionale n. 74/1985, della legge 5 agosto  1988,  n.  330,  del
 nuovo codice di procedura penale, e infine della sentenza della Corte
 costituzionale n. 503/1989 -, siano intervenute nel contesto  in  cui
 lo stesso art. 377 e' destinato ad operare.
    Ci si riferisce alla progressiva erosione della normativa speciale
 sulla liberta' personale nel procedimento per  reati  militari,  alla
 cui  stregua l'adozione di misure cautelari limitative della liberta'
 personale era doverosa nei confronti del militare  che  fosse  ancora
 arbitrariamente  assente,  e  consentita  quando  fosse  trascorsa la
 flaganza nel reato. La prima citata sentenza ha invalidato l'art. 309
 del  c.p.m.p. sul fermo di polizia giudiziaria militare; la legge del
 1988 ha abrogato l'art. 313 del c.p.m.p. che disciplinava il  mandato
 di  cattura  obbligatorio; il nuovo codice di procedura penale ha poi
 determinato l'abrogazione dell'art. 314 del c.p.m.p. che disciplinava
 il  mandato  di cattura facoltativo e l'art. 308 del c.p.m.p. in tema
 di arresto in flaganza di reato;  la  recente  sentenza  della  Corte
 costituzionale   ha,   infine,  invalidato  il  medesimo  art.   308,
 eliminando in radice l'utilita' delle  gia'  insorgenti  dispute  sul
 problema  se il nuovo codice di procedura avesse veramente operato la
 cennata abrogazione.
    La  conseguente  applicazione  ai  reati  militari della normativa
 comune, introdotta dal nuovo codice di procedura penale, comporta che
 in nessun caso, ne' su iniziativa della polizia giudiziaria militare,
 ne'  del  giudice  procedente,  possa  adottarsi  nei  confronti  del
 militare  che  si  trovi  in istato di diserzione (o di mancanza alla
 chiamata) una misura  cautelare  personale  che  ponga  termine  alla
 permanenza nel reato.
    Da  un lato, infatti, la nuova disciplina prevede misure cautelari
 personali coercitive solamente per i reati punibili con l'ergastolo o
 con  la  reclusione  in quantita' superiore ad un certo limite (artt.
 280, 380, primo comma, 381, primo comma e 384 del c.p.p.),  categoria
 da cui al reato di diserzione (come quello di mancanza alla chiamata)
 rimane escluso sia perche',  a  differenza  di  reati  militari  piu'
 gravi,  e'  punibile  con  la reclusione militare; sia perche', anche
 volendo in contrasto  con  il  principio  di  tassativita'  stabilito
 dall'art.  13  della Costituzione, estendere alla reclusione militare
 le norme riguardanti la reclusione, esso e'  punibile,  anche  quando
 ricorrano  aggravanti ad effetto speciale, con la reclusione militare
 in quantita' inferiore al limite stabilito.
    Dall'altro, deve essere data risposta negativa anche al quesito se
 almeno sia ammissibile, giusto per  far  cessare  la  permanenza  nel
 reato, un accompagnamento coattivo al reparto militare in adempimento
 del dovere di impedire che i  reati  vengano  portati  a  conseguenze
 ulteriori, configurato dall'art. 55 del c.p.p. Quest'ultima, infatti,
 e' mera norma di sintesi (come si puo'  affermare  sulla  base  della
 giurisprudenza  formatasi sull'analogo art. 219 del codice abrogato),
 da cui non e' certo possibile desumere che alla  polizia  giudiziaria
 militare  siano  attribuiti in tema di liberta' personale poteri piu'
 estesi di quelli delineati dalle gia' citate  specifiche  norme.  Del
 resto,  non  a caso e' regolata da apposita specifica disposizione la
 facolta' di arresto per  determinati  reati,  tra  cui  non  figurano
 quelli   militari   di  assenza  dal  servizio,  "quando  ricorra  la
 necessita' di interrompere l'attivita' criminosa" (art. 381,  secondo
 comma, del c.p.p.).
    Sulla base di tutte queste premesse, ora e' ben possibile cogliere
 appieno  la   situazione   normativa   costituente   il   presupposto
 dell'eccezione  di legittimita' costituzionale sollevata dal pubblico
 ministero. Dal momento che nel caso di diserzione (e di mancanza alla
 chiamata)  non sono adottabili misure cautelari personali coercitive,
 la cessazione della permanenza in questo reato non  puo'  realizzarsi
 coattivamente  ad  opera  della  polizia giudiziaria militare, bensi'
 solamente per spontaneo rientro al reparto militare del disertore,  o
 successivamente  per  provvedimento  dell'autorita'  che riconosca il
 venir meno di  ogni  obbligo  militare  (di  regola  il  31  dicembre
 dell'anno  in  cui si compiono i quarantacinque anni di eta', a norma
 dell'art. 9 del d.P.R. 14 febbraio 1964, n. 237).
    Di  conseguenza,  a  differenza di quanto si verificava sulla base
 delle speciali norme procedurali ora abrogate o caducate dalla  Corte
 costituzionale,  il  militare  in istato di diserzione (o di mancanza
 alla  chiamata)  attualmente  puo'   stabilire,   senza   timore   di
 interferenze  da  parte  della  polizia  giudiziaria  militare  o del
 magistrato inquirente, di permanere nell'arbitraria assenza  e  cosi'
 di   sottrarsi  all'obbligo  militare;  per  cio'  stesso,  salvo  un
 improbabile  (per  le  ragioni  che  saranno  esposte  piu'   avanti)
 intervento  del  procuratore generale militare, a norma dell'art. 377
 rende impossibile il giudizio e l'irrogazione della pena. Questa  gli
 sara'  inflitta  solamente alla cessazione di ogni obbligo militare e
 quindi, se si tratta di militare in servizio  di  ferma,  dopo  circa
 venticinque anni.
    Di  fronte a questa situazione, il Pubblico Ministero non si duole
 del fatto che sia venuta meno, in tema di liberta' personale e  sotto
 ogni  altro profilo, la specialita' del procedimento penale militare,
 ne' del fatto che ora la misura cautelare personale sia ammessa, come
 stabilisce  l'art.  13  della Costituzione, solo in casi eccezionali.
 Del  resto,  non  e'   frutto   di   improvvisazione   o   del   caso
 quest'adeguamento del procedimento penale militare a quello comune ed
 ai principi della Costituzione. E, d'altra parte, proprio  da  questo
 tribunale  sono  a  suo  tempo venute le iniziative che hanno portato
 alla dichiarazione di  illegittimita'  degli  artt.  308  e  309  del
 c.p.m.p.
    Il  problema,  come  ha sottolineato lo stesso pubblico ministero,
 sta  invece  nella  sopravvivenza  dell'art.  377,  che  nella  nuova
 situazione  normativa  comporta  le descritte conseguenze. Ma, pur in
 questo ambito, non viene proposta  un'eccezione  intesa  a  censurare
 un'insufficiente  tutela  penale di un bene di rilievo costituzionale
 (la presenza alle armi, strumentale  alla  prestazione  del  servizio
 militare,  a  sua  volta  mezzo  di adempimento del "sacro" dovere di
 difesa della  Patria).  Il  legislatore  non  puo'  di  certo  essere
 costituzionalmente  vincolato  a  tutelare  un  bene giuridico con lo
 strumento della sanzione penale, e pertanto,  sotto  questo  profilo,
 potrebbe   anche  essergli  consentito  di  sperimentare  quanto,  in
 mancanza di adeguate sanzioni di questo tipo, l'obbligo del  servizio
 militare  perda in effettivita', e persino di intraprendere la via di
 una surrettizia abolizione dell'obbligo medesimo.
    La   questione   di   legittimita'   costituzionale  si  incentra,
 piuttosto, sulla violazione  del  principio  di  uguaglianza  sancito
 dall'art.  3  della  Costituzione. Come si e' gia' detto, i disertori
 (ed i mancanti alla chiamata) che permangano nell'arbitraria assenza,
 oltre  che  sottrarsi  all'obbligo  del  servizio  militare,  evitano
 l'immediato giudizio e l'irrogazione della  pena.  Al  contrario,  la
 giustizia  segue  normalmente il suo corso nei confronti dei militari
 che, gia' in stato di arbitraria assenza per un  periodo  sufficiente
 ad  integrare  un  reato di assenza dal servizio, per le ragioni piu'
 varie (intima adesione alla norma violata,  ignoranza  della  vigente
 normativa,  timore  di  una  sanzione  che  comunque non manchera' al
 compimento  del  quarantacinquesimo  anno  di  eta',  necessita'   di
 ottenere in tempi brevi la certificazione di militesenza, ecc.) siano
 rientrati al reparto militare entro il quinto giorno cosi' ponendo in
 essere il reato di allontanamento illecito (art. 147 del c.p.m.p.), o
 oltre quel termine cosi' realizzando il  reato  di  diserzione  o  di
 mancanza alla chiamata (artt. 148 e 151 del c.p.m.p.). L'art. 377 del
 c.p.m.p., com'e' evidente, costituisce un ingiustificato privilegio a
 favore  di  quanti,  astenendosi dal rientrare al reparto, permangano
 nell'arbitraria assenza.
    Il  suesposto  ordine  di idee, comprovante l'apparente fondatezza
 della questione di legittimita'  sollevata  dal  Pubblico  Ministero,
 potrebbe  essere  parzialmente smentito dall'osservazione secondo cui
 non sarebbe poi cosi' assoluta l'improcedibilita'  per  il  reato  di
 assenza  dal  servizio ancora in atto, dal momento che lo stesso art.
 377 dispone che si proceda al giudizio quando via sia  un  ordine  in
 tal  senso  del  procuratore  generale  militare.  Si  e'  voluto, in
 effetti, come risulta dai lavori preparatori,  dare  rilievo  a  "...
 evidenti   motivi   di   opportunita'  che  possono,  in  determinate
 circostanze, fa considerare necessaria l'esemplarita'  dell'effettiva
 applicazione della sanzione, anche se la permanenza del reato non sia
 cessata". E l'ultima giurisprudenza al riguardo, risalente  al  1946,
 ha  poi  correttamente precisato che al procuratore generale militare
 e'  cosi'  attribuito  "un  insindacabile  potere  discrezionale   di
 carattere politico-amministrativo, il cui uso non puo' essere oggetto
 di censura in sede di ricorso di legittimita'" (19 febbraio 1946,  in
 Mass. sentenze del T.S.M., 1942-51).
    In  realta',  si  tratta di un potere (a suo tempo del procuratore
 generale  militare  presso  il  T.S.M.   ed   ora   trasferitosi   al
 corrispondente  organo  presso  la  Corte  di  cassazione  o la corte
 militare d'appello) che, dopo il sopra citato caso, non  risulta  sia
 stato mai esercitato. E l'obiettiva ragione di questa costante prassi
 va  sicuramente   individuata   nell'incostituzionalita'   non   solo
 genericamente  dell'intero  art.  377,  ma  piu'  specificamente  del
 medesimo nella parte in cui  ritiene  di  poter  limitare  il  regime
 dell'improcedibilita'  tramite  l'attribuzione  di siffatto potere al
 procuratore generale militare.
    Non  v'e' dubbio che, anche considerato in questa sua parte l'art.
 377, mentre conferma la sua globale incostituzionalita',  anche  piu'
 specificamente risulta, per quella previsione di valutazione politica
 di competenza del procuratore generale  militare,  in  contraddizione
 con  l'art.  3  della  Costituzione,  ed  ancor piu' con il principio
 dell'obbligatorieta' dell'azione penale sancito dall'art.  112  della
 Costituzione.  Poco  importa  che  con l'esercizio del potere sarebbe
 conseguito il risultato della  procedibilita',  che  e'  conforme  ai
 principi     costituzionali.     Ai    fini    della    censura    di
 incostituzionalita', appare invece decisivo che il  procedimento  per
 reati  di  assenza dal servizio ancora in atto transiti, o meno, alla
 fase del giudizio a seguito  di  una  discrezionale  valutazione  del
 vertice della Parte pubblica del procedimento medesimo.
    In definitiva, deve essere denunciata la questione di legittimita'
 costituzionale  dell'art.  377  del  c.p.m.p.,  non  solo,  come   ha
 suggerito il pubblico ministero, in relazione all'art. 3, ma anche in
 relazione all'art. 112 della Costituzione.
    Questo giudice, avuto riguardo alla natura processuale della norma
 impugnata,  ritiene  che  la  questione  possa  essere   nel   merito
 affrontata   dalla   Corte   senza  l'interferenza  di  eccezioni  di
 irrilevanza basate sull'ultrattivita'  del  regime  sostanziale  piu'
 favorevole.  Tuttavia,  per  l'eventualita'  che nella norma medesima
 dovesse  individuarsi  una   prevalente   dimensione   di   carattere
 sostanziale,  a  sostegno  della permanenza dell'ammissibilita' della
 questione  si  richiama  alle  chiare  ed  esaurienti  argomentazioni
 contenute nella sentenza n. 148/1983 della Corte costituzionale.