IL TRIBUNALE
    Ha  pronunciato  la  seguente ordinanza nel procedimento n. 889/90
 reg. ric., introdotto dal prof. Pietro Angelo Cerri, in  qualita'  di
 commissario liquidatore della Fidingrup S.p.a. in liquidazione coatta
 amministrativa,  nei  confronti  del  fallimento   Istituto   servizi
 fiduciari  S.r.l.  (fall.  n.  174/89), in persona del curatore dott.
 Luciano Cagnassone.
                            OSSERVA IN FATTO
    Con  ricorso  depositato  il 19 aprile 1990 il prof. Pietro Angelo
 Cerri, in qualita' di commissario liquidatore della Fidingrup  S.p.a.
 in  liquidazione  coatta  amministrativa  (con  sede in Torino, corso
 Tassoni, 31/A), chiedeva al Tribunale di "accertare e dichiarare  che
 la  societa'  Istituto  servizi  fiduciari S.r.l. con sede in Torino,
 gia' dichiarata fallita, e' soggetta alla procedura  di  liquidazione
 coatta amministrativa", nonche' di "trasmettere gli atti al Ministero
 industria,   commercio   ed   artigianato   per   ogni    conseguente
 provvedimento".
    A sostegno della domanda esponeva:
      che  la  Fidingrup S.p.a. era stata posta in liquidazione coatta
 amministrativa con decreto ministeriale 11  maggio  1989,  pubblicato
 nella Gazzetta Ufficiale n. 118 del 23 maggio 1989;
      che  con decreto ministeriale 22 dicembre 1989, pubblicato nella
 Gazzetta Ufficiale n. 302 del  29  dicembre  1989,  la  procedura  di
 liquidazione  coatta  amministrativa  era  stata  estesa alla Velafin
 S.r.l., con sede in  Milano,  (commissario  liquidatore  il  medesimo
 prof.  Cerri)  trattandosi  di  societa'  controllante  la fiduciaria
 Fidingrup S.p.a.;
      che  la  Velafin S.r.l. controllava l'Istituto servizi fiduciari
 S.r.l. con una partecipazione di  L.  1.204.420.000  su  un  capitale
 sociale di L. 1.229.000.000;
      che  l'Istituto  servizi  fiduciari  S.r.l.  era  peraltro stata
 dichiarata fallita con sentenza di questo tribunale 5-6 maggio  1989.
    Preso atto che la fallita risultava direttamente controllata dalla
 Societa'  Velafin  controllante  la  societa'  fiduciaria  Fidingrup,
 chiedeva  che  il tribunale sanzionasse, nei termini su riportati, il
 verificarsi nelle specie di presupposti di cui all'art. 2 del d.-l. 5
 giugno  1986,  n. 233, convertito in legge 1º agosto 1986, n. 430, e'
 successive modificazioni.
    In  data  27 aprile 1990 il Ministero dell'industria, commercio ed
 artigianato faceva pervenire il proprio parere ai sensi dell'art. 195
 della  legge  fallimentare,  nel  quale,  confermato  il  rapporto di
 controllo enunciato dal  ricorrente,  dichiarava:  "questo  Ministero
 ritiene che non sussistano elementi ostativi alla dichiarazione dello
 stato di insolvenza  ai  fini  del  successivo  assoggettamento  alla
 procedura di liquidazione coatta amministrativa".
    Veniva,  altresi'  sentito  il  curatore  del  fallimento Istituto
 servizi fiduciari (udienza 3 maggio 1990), il quale dichiarava di non
 opporsi alla domanda.
                           OSSERVA IN DIRITTO
 In punto non manifesta infondatezza.
    Per  quanto  non  esplicitamente  richiamata  dal  ricorrente,  la
 domanda mira ad ottenere  la  "conversione"  in  liquidazione  coatta
 amministrativa del fallimento dichiarato in capo all'Istituto servizi
 fiduciari S.r.l., nonche' la trasmissione  degli  atti  all'autorita'
 governativa per i provvedimenti di competenza.
    Il richiamo ai requisiti di controllo ex art. 2 del d.-l. 5 giugno
 1986, n.  233,  convertito  in  legge  1º  agosto  1986,  n.  430,  e
 successive  modificazioni,  va  infatti  assunto  a  presupposto  del
 dettato normativo di cui all'art. 3, comma primo, del d.l.  cit.,  in
 forza  del  quale:  "dalla  data  di  entrata  in vigore del presente
 decreto,  le  procedure  di  fallimento,  alle   quale   siano   gia'
 assoggettate  le  societa' di cui agli articoli 1 e 2 sono convertite
 in  procedure  di  liquidazione  coatta  amministrativa,   ferma   la
 dichiarazione di insolvenza adottata dall'autorita' giudiziaria".
    Qualificata in questi termini (gli unici normativamente possibili,
 la domanda induce un sospetto non manifestamente infondato  circa  la
 compatibilita' della disposizione da ultimo riportata con il precetto
 di uguaglianza ex art. 3 della Costituzione.
    La norma in esame non instaura, infatti, un meccanismo generale di
 conversione di tutti i fallimenti comunque dichiarati  nei  confronti
 delle  societa'  rientranti  nei parametri di cui agli articoli 1 e 2
 del d.-l. cit., ma limita piuttosto  il  novero  delle  procedure  da
 convertire ai soli fallimenti gia' dichiarati alla data di entrata in
 vigore del d.-l. medesimo.
    La conversione, pertanto, ha modo di operare unicamente per quelle
 societa' dichiarate fallite prima del 5 giugno 1986.
    Viceversa,  i  fallimenti delle societa' aventi i requisiti di cui
 agli artt. 1 e 2 del d.-l. cit., dichiarati dopo l'entrata in  vigore
 del  decreto,  non  risultino  convertibili  in  liquidazione  coatta
 amministrativa, fermo restando il rimedio generale, sempre che ve  ne
 siano  i  presupposti, dell'opposizione alla sentenza dichiarativa ex
 art. 18 l.f.
    Il   precetto   normativo  cosi'  inteso  depone  a  favore  della
 prospettata illegittimita', riservando disparita'  di  trattamento  a
 situazioni del tutto omogenee.
    Da un primo punto di vista, la disparita' pare determinarsi tra la
 societa' fiduciaria dichiarata fallita prima dell'entrata  in  vigore
 del d.-l., e quella dichiarata successivamente ad esso.
    Il  far  dipendere  il  mutamento  di procedure da una circostanza
 temporale  del   tutto   casuale   (e   comunque   non   direttamente
 riconducibile  alla  volonta  delle  societa'  insolventi, cosi' come
 delle massa creditorie) non risulta d'altra parte  giustificato  alla
 luce  del  principio di ragionevolezza, assunto da codesta Corte come
 criterio   interpretativo   imprenscindibile   dell'art.   3    della
 Costituzione.
    Va  infatti  rilevato come le esigenze di unificazione delle varie
 procedure riconducibili al  gruppo  fiduciario  insolvente,  esigenze
 fatte  proprie e perseguite dal legislatore in piu' di un'occasione e
 con l'apprestamento di vari accorgimenti tecnici, sussistano in linea
 generale in ogni caso di accertamento dei parametri di cui agli artt.
 1 e 2 del d.-l. cit., a  prescindere  del  tutto  dal  momento  della
 dichiarazione di fallimento di una delle societa' del gruppo.
    Ne'  puo'  trascurarsi  come  l'unificazione  posta  a  fondamento
 dell'istituto della conversione non si limiti a soddisfare istanze di
 tipo esclusivamente processuale, costituendo anzi il dato di partenza
 per l'adozione di  strumenti  ricostruttivi  del  patrimonio  sociale
 operanti sul piano strettamente sostanziale.
    Bastera'  segnalare  come  il  d.-l.  in  oggetto  attribuisca  al
 commissario liquidatore poteri del tutto  peculiari  in  ordine  alle
 revocatorie  c.d.  "interne",  alle  informative presso la Consob, al
 regime dell'azione ex art. 2409 del codice civile (art. 2  del  d.-l.
 cit., quarto comma e segg.).
   Si  tratta di prerogative, per contro, non riconosciute al curatore
 fallimentare;  questa  circostanza  si   ripercuote   inevitabilmente
 sull'idoneita'  della  norma inquisita a garantire pari potenzialita'
 recuperatorie, e  quindi  pari  possibilita'  di  soddisfacimento  ai
 creditori  delle  societa'  fiduciarie (alcune in liquidazione coatta
 amministrativa, ed altre in fallimento) pacificamente appartenenti al
 medesimo gruppo ex art. 2 del d.-l. cit., lettere a) e d).
    L'impraticabilita'  della  conversione,  se  non  nei  limiti  dei
 fallimenti gia' dichiarati  all'atto  dell'entrata  in  vigore  della
 legge,   implica  peraltro  un'ulteriore  non  infondata  ipotesi  di
 contrarieta' con l'art.  3  della  Costituzione,  in  relazione  alla
 consecuzione  temporale  tra  le  procedure  di  liquidazione  coatta
 amministrativa e fallimento afferenti a societa' tra  loro  collegate
 in forza di una o piu' dei criteri di cui all'art. 2 cit.
    Si osserva, infatti, che avverso la dichiarazione di fallimento di
 una societa' collegata  (intendendosi  questa  espressione  in  senso
 atecnico  per raggruppare le varie figure di controllo) ad altra gia'
 ammessa alla liquidazione coatta  amministrativa,  appare  senz'altro
 possibile   il   rimedio   dell'opposizione   ex  art.  18  l.f.  per
 contrarieta' al disposto dell'art. 2, prima parte del d.l. cit.
    Viceversa,  nell'ipotesi  in  cui il fallimento venisse dichiarato
 "prima" della  messa  in  liquidazione  coatta  amministrativa  della
 societa'  controllata o controllante, il rimedio dell'opposizione non
 appare agibile.
    E' cio' non tanto per eventuali contingenze relative ai termini di
 proposizione dell'opposizione (la liquidazione coatta  amministrativa
 potrebbe  in effetti intervenire oltre l'anno del fallimento), quanto
 piuttosto perche' l'opposizione suscita il  riesame  dei  presupposti
 oggettivi  e soggettivi della dichiarazione di fallimento, cosi' come
 esistenti (o inesistenti) al momento della dichiarazione  stessa  (in
 tal senso la giurisprudenza del tutto dominante).
    La  successiva  ammissione alla liquidazione coatta amministrativa
 di societa' collegata opera pertanto  quale  fatto  sopravvenuto  non
 rilevante  ai  fini  della  opposizione,  non comportando, di per se'
 sola, che il fallimento sia stato mal dichiarato.
    Pare   quindi   che  il  sopravvenire  della  liquidazione  coatta
 amministrativa in capo ed altra societa' possa rilevare unicamente ai
 fini  della  conversione,  con la conseguenza che, ove questa non sia
 possibile per la criticata limitazione temporale, il  fallimento  non
 puo'  essere  rimosso (con le ripercussioni di ordine sostanziale che
 si sono gia' evidenziate).
    Ne'  la  situazione delineata appare del tutto scevra da ulteriori
 considerazioni in chiave di  difetto  di  giurisdizione  del  giudice
 ordinario  e,  in ipotesi, di conflitto di attribuzione tra autorita'
 amministrativa e giudiziaria in ordine al  trattamento  della  stessa
 insolvenza.
    I  dubbi  di  conformita'  costituzionale che si sono sollevati si
 fondano sulla interpretazione letterale dell'art. 3 in oggetto.
    Il  giudizio  di  non  manifesta  infondatezza  non  puo' tuttavia
 prescindere dell'esplorazione di vie interpretative e  alternative  a
 quella  letterale,  le  quali  consentano  in  ipotesi  si  estendere
 l'istituto della conversione  anche  ai  fallimenti  dichiarati  dopo
 l'entrata in vigore del d.-l. cit.
    E'  questo  anzi  un  compito  doveroso, avendo codesta Corte gia'
 affermato in via generale il principio dell'interpretazione in chiave
 di  compatibilita' costituzionale, nel senso che l'interprete deve in
 ogni caso privilegiare, tra varie interpretazioni  possibili,  quella
 che  risulti  conforme  ai  principi costituzionali in materia (Corte
 costituzionale n. 81/105).
    Il  dado  letterale  non  pare  pero' superabile ne' in termini di
 interpretazione estensiva, ne' in via analogica.
    Sotto  il  primo  aspetto bastera' rilevare come l'interpretazione
 estensiva si  concreti  nella  massima  dilatazione  semantica  della
 terminologia adottata dal legislatore.
    Cio',   a   sua  volta,  presuppone  che  il  termine  oggetto  di
 interpretazione  sia  di  per  se'  idoneo  ad  una  graduazione   di
 significati  piu'  o  meno  ampi  (sempre  entro  i  limiti  dell'uso
 linguistico generale).
    Nel caso di specie, al contrario, la limitazione della conversione
 ai fallimenti pregressi rispetto  all'entrata  in  vigore  del  d.-l.
 deriva  dall'adozione  del  tutto  inequivoca  dell'espressione "gia'
 assoggettate", e pertanto dall'adozione di un  riferimento  temporale
 tassativo   che   non   lascia   spazio  ad  alcuna  progressione  di
 significati.
    Ad esito negativo conduce altresi' la via analogica.
    La  possibilita'  di applicare anche ai fallimenti dichiarati dopo
 l'entrata in vigore del d.-l. (ipotesi non disciplinata) la normativa
 riservata  ai  fallimenti  dichiarati  prima  dello  stesso  (ipotesi
 disciplinata) urta contro la natura eccezionale dell'art. 3 cit.
    In  primo  luogo  la norma appare preoccupata di regolamentare, in
 via  di  attuazione,  il  destino  dei  fallimenti  gia'   dichiarati
 all'epoca della sua emanazione.
   Su  questo  presupposto,  non  appare  consentito all'interprete di
 applicare in regime ordinario una disciplina pensata e voluta entro i
 limitati confini del diritto transitorio.
    Ma  anche  volendo  superare  l'obiezione di cui si e' dato conto,
 l'eccezionalita' risulta confermata dal fatto  che  l'istituto  della
 conversione  incide direttamente sulla norma generale di cui all'art.
 1 l.f., in forza  del  quale  l'imprenditore  commerciale  trova  nel
 fallimento  la sede di naturale definizione della propria insolvenza.
    Ne  deriva che tutte le norme contenute in leggi speciali le quali
 facciano  venir  meno  questo  assunto  si  pongono  in  termini   di
 eccezionalita' rispetto ad esso.
    E  cio'  a  maggior  ragione  se  si  consideri  che  l'estensione
 analogica  della  conversione  verrebbe  ad  incidere  sul  giudicato
 formatosi in ordine ai presupposti della dichiarazione di fallimento.
    Se  cio'  puo'  non  apparire rilevante circa l'accertamento dello
 stato  di  insolvenza  (che  resta  comunque  "fermo"  ex-lege),   la
 negazione  del  giudicato  opererebbe  invece  appieno  in  ordine al
 presupposto  soggettivo  della  dichiarazione  di  fallimento  e,  in
 particolare,  in  ordine  alla  corrispondenza tra le caratteristiche
 dell'impresa ed il tipo di procedura concorsuale  ad  essa  riservata
 dal legislatore.
    Resta  da  valutare  se  il  dato letterale sia superabile tramite
 considerazioni di ordine sistematico che permettano di attribuire  al
 legislatore  una  volonta'  diversa  da  quella  resa  evidente dalla
 formulazione della norma.
    Viene  in  proposito  in  considerazione l'antecedente legislativo
 immediato dell'art. 3 in esame, avvisabile nell'art. 4  del  d.l.  30
 gennaio  1979,  n.  26,  "Provvedimenti urgenti per l'amministrazione
 straordinaria delle grandi imprese in crisi" conversione in  legge  3
 aprile 1979, n. 95, e successive modificazioni.
    L'art.  4  di  questa  legge  prende a sua volta in considerazione
 l'istituto della conversione  in  amministrazione  straordinaria  dei
 fallimenti  dichiarati  in  capo a societa' aventi i requisiti di cui
 all'art. 3 della legge medesima.
    Ebbene,  in  tal  caso  il dettato normativo e' inequivocabilmente
 nell'estendere  la  conversione  a  tutti   i   fallimenti   comunque
 dichiarati "dopo l'entrata in vigore del presente decreto-legge".
    Il  fatto  che il legislatore del 1986 abbia pertanto disciplinato
 una fattispecie del tutto analoga in maniera sensibilmente diversa da
 quanto  aveva  disposto nel 1979, depone per una consapevole volonta'
 innovativa in tal senso.
    E'  l'individuazione  di  una volonta' siffatta risulta rafforzata
 dalla    considerazione    che    altre     disposizioni     relative
 all'amministrazione  straordinaria  sono  state invece recepite senza
 variazioni apprezzabili nel d.-l. del 1986 (segnatamente in  rapporto
 alla  definizione  dei  criteri  di controllo ed alla attribuzione al
 commissario dei poteri di cui all'art. 3 del d.-l. n. 26/79).
    Non pare, in definitiva, che l'interprete possa adottare soluzioni
 diverse da quella oggetto di dubbi non  manifestamente  infondati  di
 illegittimita'.
 In punto rilevanza.
    Come  si  e' gia' avuto modo di rilevare, l'art. 3 del d.-l. cit.,
 si pone quale referente  normativo  imprenscindibile  ai  fini  della
 pronuncia  sulla  domanda del commissario liquidatore della Fidingrup
 S.r.l.
    In  linea di fatto, il giudizio di rilevanza muove nella specie da
 due dati obiettivi.
    In primo luogo, appare provato il rapporto di controllo esercitato
 dalla Velafin S.p.a. sull'Istituto servizi fiduciari S.r.l.  (e  cio'
 sia alla data del fallimento che a quella della messa in liquidazione
 coatta amministrativa).
    In  particolare, dell'estratto libro-soci allegato dal ricorrente,
 emerge  come  questa  sia  partecipata  dalla  Velafin   S.p.a.   per
 complessive   L.   1.204.420.000,   su  un  capitale  sociale  di  L.
 1.229.000.000 (la circostanza non e' stata del resto  contestata  dal
 curatore).
    Deve  pertanto  riconoscersi  che  si  verifica  nella  specie  il
 requisito di controllo di cui alla lettera b), primo  comma,  art.  2
 del d.-l. cit.
    In  secondo  luogo,  si  osserva che il fallimento (del 5-6 maggio
 1989) e' stato dichiarato dopo l'entrata in vigore  della  legge,  ma
 anteriormente  alla  messa  in liquidazione coatta amministrativa sia
 della Velafin S.p.a. (decreto ministeriale  22  dicembre  1989),  sia
 della  fiduciaria da questa controllata, la Fidingrup S.p.a. (decreto
 ministeriale 11 maggio 1989).
   Ne  consegue,  per  i  motivi  gia'  esposti,  che  in  difetto  di
 proponibilita'  dell'opposizione  ex  art.  18  l.f.,  il  fallimento
 dell'Istituto servizi fiduciari S.r.l. non potrebbe venire rimosso se
 non in forza  della  richiesta  conversione  (conversione  che,  alla
 stregua  dell'interpretazione  accolta,  andrebbe peraltro senz'altro
 negata).