IL GIUDICE PER LE INDAGINI PRELIMINARI Ha emesso la seguente ordinanza con riferimento alla questione di legittimita' costituzionale sollevata dal p.m. relativamente all'art. 4, settimo comma, della legge n. 516/1982, per asserito contrasto con i principi di cui agli artt. 25, secondo comma e 3 della Costituzione; Sentito il difensore che in via subordinata si e' associato; O S S E R V A La questione di costituzionalita' sollevata ripropone il problema dell'esatta definizione della fattispecie delittuosa di cui all'art. 4, n. 7 della legge 516/1982. Come e' noto, la Corte costituzionale, con la sentenza n. 247 del 1989, ha ritenuto la legittimita' costituzionale della norma che era stata impugnata per asserita indeterminatezza della condotta criminosa e conseguente violazione degli artt. 3 e 25 della Costituzione. In particolare, la Corte aveva ritenuto di affrontare la questione di determinatezza dell'intera condotta prevista dalla fattispecie, considerando imprescindibile l'esame analitico di tutti gli elementi oggettivi del reato, e cio' anche se la questione innanzi a lei sollevata si limitava all'asserita indeterminatezza dell'espressione "misura rilevante" in riferimento alla soglia di punibilita'. La premessa sul punto esplicitata dalla Corte suonava infatti cosi': "Quel che non puo' essere in ogni caso metodologicamente consentito e' "isolare" la "misura rilevante" degli altri elementi della fattispecie nella quale tale "misura" e' inserita per confrontare quest'ultima, e solo quest'ultima, con il precetto di determinatezza di cui agli artt. 25, secondo comma, e 3 primo comma, della Costituzione. Va invero ribadito che la determinatezza dell'indicazione legislativa del significato di un termine (o di una espressione) non puo' stabilirsi prescindendo dal rapporto che lo stesso termine ha con gli altri elementi della fattispecie....". Il giudizio, nel merito, della Corte costituzionale si basa su una delle interpretazioni che erano state prospettate da dottrina e giurisprudenza, ossia quella secondo la quale non sarebbe sufficiente, ai fini dell'integrazione del reato, il solo simulare o dissimulare di cui parla la norma, ma sarebbe necessario un qualcosa di ulteriore, e cioe' un'attivita' preparatoria (fraudolenta) alla dichiarazione finale, volta all'alterazione del risultato della dichiarazione stessa. Sulla base della premessa metodologica di cui si e' gia' detto, altrettanto in termini di globale valutazione della fattispecie e' stata la conclusione: "Va particolarmente sottolineato che soltanto la predetta interpretazione... permette di dare all'intera fattispecie una chiara, netta significazione che caratterizza l'intero disvalore offensivo tipico, a prescindere dalla "misura rilevante". Quanto si e' appena detto permette di condividere l'assunto seondo il quale l'argomentazione svolta dalla Corte circa l'essenzialita' del quid pluris che deve accompagnare la condotta dissimulatoria o simulatoria non si pone quale divagazione dottrinaria ma quale passaggio essenziale della pronuncia. Sulla stessa questione, si e' di recente pronunciata la Corte di cassazione (20 settembre 1989, Sezione terza, presidente Glinni), concludendo in termini del tutto opposti: ritenendo cioe' che per integrare la fattispecie in contestazione, sia sufficiente un comportamento semplicemente mandace, senza necessita' di particolare condotte artificiose. Le argomentazioni adottate dalla Corte di cassazione appaiono convincenti; esse si fanno carico di confrontare la fattispecie sottoposta ad esame con altre di natura contravvenzionale (art. 1 legge 516/1982), escludendo motivatamente possibilita' di sovrapposizione, e quindi profili di incostituzionalita' per disparita' di trattamento; esse si articolano, inoltre, nel richiamo di giurisprudenze consolidate e mai messe in discussione con riferimento a fattispecie penali comuni, quali la insolvenza fraudolenta. Sta di fatto che la medesima questione di diritto viene risolta in maniera diametralmente opposta dalle due Corti. Cio' determina un impasse che, in passato, la Corte costituzionale ha ritenuto presupposto sufficiente per un suo intervento di modifica del quadro legislativo, sul rilievo che il giudizio di costituzionalita' di una norma non puo' prescindere dal significato concreto che la norma stessa viene ad assumere nella realta' quotidiana dell'esperienza applicativa giudiziaria. Passando alla fattispecie concreta sottoposta all'esame di questo giudice, si osserva che appaiono sussistenti entrambi i requisiti di rilevanza e non manifesta infondatezza della questione di incostituzionalita' sollevata. Quanto al primo punto, si nota che il p.m. ha richiesto il rinvio a giudizio dell'imputato per avere omesso di indicare nella propria dichiarazione dei redditi componenti positivi di reddito, senza peraltro avvalersi di particolari tecniche fraudolente; Ritiene questo giudice per le indagini preliminari che la questione della necessita' o meno di un quid pluris rispetto al semplice mandacio si pone come indubbiamente rilevante ai fini del decidere. Quando alla non manifesta infondatezza della questione, si osserva che sul punto la Corte costituzionale ha gia' espresso il suo giudizio senza possibilita' di equivoco, laddove ha statuito che solo l'interpretazione offerta avrebbe potuto evitate un patente vizio di incostituzionalita' della fattispecie in questione, sotto il profilo della sua indeterminatezza. Questo giudice non puo' che adeguarsi a tale impostazione, per l'autorevolezza dell'Organo che l'ha assunta. Sotto tale profilo, non puo' che sottolinearsi la notevole importanza che assumerebbe la risoluzione di un conflitto, come quello attuale, fra supreme cariche giurisdizionali, che attualmente rende difficoltosa la risoluzione di questioni per i giudici di merito, con evidente pericolo di difformita' di giudicati sul punto.