Ricorso per conflitto di attribuzione della regione Toscana, in persona del presidente pro-tempore della giunta regionale, dott. Marco Marcucci, autorizzato con deliberazione g.r. n. 6374 del 23 luglio 1990, rappresentato e difeso dal prof. avv. Mario P. Chiti, ed elettivamento domiciliato in Roma, via G.B. Vico, 29, presso lo studio dell'avv. Pietro D'Amelio, come da delega in calce al presente atto contro il Presidente del Consiglio dei Ministri pro-tempore in relazione al decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri 30 aprile 1990, n. 150, pubblicato in Gazzetta Ufficiale del 16 giugno 1990, n. 139, regolamento per l'organizzazione del Dipartimento per il coordinamento delle politiche comunitarie nell'ambito della Presidenza del Consiglio dei Ministri. PREMESSE ISTITUZIONALI E DI FATTO 1. - Con il decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri 30 aprile 1990, n. 150 (pubblicato in Gazzetta Ufficiale del 16 giugno 1990, n. 139), e' stata disciplinata l'organizzazione del Dipartimento per il coordinamento delle politiche comunitarie nell'ambito della Presidenza del Consiglio. Si tratta di un provvedimento atteso sin dalla legge n. 183/1987, che all'art. 1 aveva previsto l'istituzione del Dipartimento rinviando pero' la sua disciplina a successivo regolamento che avrebbe dovuto essere emanato entro sei mesi dalla data di entrata in vigore della legge stessa. L'attesa era piu' che giustificata avendo presente che l'istituzione del Dipartimento risponde all'esigenza di dotare finalmente il nostro Paese di una struttura centrale di governo per una problematica - quella comunitaria - che sta assumendo un ruolo cruciale per la societa' italiana, ponendo cosi' anche il nostro Governo nella condizione di poter efficacemente coordinare il complesso delle politiche comunitarie, conformemente al modello proprio della maggior parte degli altri Stati membri della CEE. Senonche', la forma usata per regolamentare l'organizzazione del Dipartimento (d.P.C.M. e non decreto del Presidente della Repubblica) e l'attribuzione di alcune importanti competenze al Dipartimento in violazione delle attribuzioni regionali rendono illegittimo il decreto del Presidente del Consiglio n. 150/1990, che la regione Toscana si trova costretta ad impugnare per conflitto di attribuzioni. Ai fini di una migliore comprensione del problema e della specifica posizione regionale, pare utile tratteggiare sinteticamente la disciplina della materia. 2. - Dopo un iniziale monopolio delle problematiche comunitarie, sia a carattere politico che amministrativo, a favore del Ministero affari esteri, e' seguito un lungo periodo in cui, ferme rimanendo alcune competenze del Ministero degli esteri di natura prettamente politica, ogni amministrazione coinvolta nei procedimenti comunitari ha esercitato un suo ruolo diretto, sia nel versante dell'attuazione del diritto comunitario, sia anche in quello della sua elaborazione, ad esempio attraverso la partecipazione di propri funzionari ai vari comitati CEE-amministrazioni nazionali. Questo modello disaggregato ha determinato ovvi problemi di scoordinamento nell'azione italiana ed ha contribuito, inoltre, alle difficolta' nel recepimento del diritto comunitario, con le connesse azioni della Commissione nei nostri confronti (tutti questi problemi, ben noti, sono richiamati con notevole efficacia anche nelle relazioni illustrative dei disegni di legge per il coordinamento delle politiche comunitarie - poi legge n. 183/1987, e per la c.d. legge comunitaria 1990 - in attuazione della legge n. 86/1989, ora all'esame della Camera dei deputati dopo l'approvazione del Senato). Le proposte per un nuovo modello di governo nel settore delle politiche comunitarie si sono accompagnate a quelle per la riforma della Presidenza del Consiglio e dell'attivita' di governo, sfociando in tre provvedimenti di grande importanza: da una parte, la legge n. 183/1987 e la legge n. 86/1989 sul tema specifico del governo delle politiche comunitarie; dall'altra, la legge n. 400/1988 che in generale disciplina l'attivita' di governo e l'ordinamento della Presidenza del Consiglio dei Ministri. Le tre leggi ora citate - tra di loro sfalsate di un anno, elemento di cui dovremo tener conto nella ricostruzione del diritto applicabile - sono pero' solo in parte compatibili, ed uno dei punti di maggior attrito riguarda per l'appunto la disciplina dell'ordinamento per le politiche comunitarie. 3. - Il Dipartimento per il coordinamento delle politiche comunitarie (d'ora in poi semlicemente Dipartimento) viene istituito, come detto, dalla legge n. 183/1987. Non si tratta tuttavia di un'assoluta novita', dato che, come primo esito degli studi riformatori avviati dalle commissione Giannini-Amato e Piga tra la fine degli anni settanta e l'inizio dello scorso decennio, un Dipartimento per le politiche comunitarie era gia' stato istituito con un ordine di servizio del Presidente del Consiglio (Spadolini) del 1981, poi leggermente modificato con analogo atto dell'anno successivo, nel contesto della (mini) riforma in via amministrativa della Presidenza del Consiglio. Proprio la non felicissima esperienza di questa prima struttura (incerta per natura giuridica, collocazione rispetto alla Presidenza e agli altri ministeri, competenze attribuitele) e l'affermarsi nello stesso periodo di nuove strutture dipartimentali "forti" (cfr. ad esempio il Dipartimento per il Mezzogiorno e il Dipartimento per la funzione pubblica), previsti con legge, concorsero alla decisione di istituire definitivamente con legge il Dipartimento. Del resto, a favore di questa soluzione spingeva anche la riserva di legge ex artt. 95 e 97 della Costituzione, che, per quanto sempre dibattuta sulla sua esatta portata, non puo' non rilevare in tutti i casi di stutture pubbliche - nel caso organi centrali dello Stato - cui siano affidate competenze non di carattere esclusivamente interno e di staff. In tal senso, l'art. 1 della legge n. 183/1987 istituisce il Dipartimento, con cruciali funzioni a rilevanza comunitarie quali "il coordinamento delle politiche derivanti dall'appartenenza dell'Italia alle Comunita' europee", e "l'adeguamento della normativa nazionale alle direttive comunitarie". La puntuale disciplina delle competenze e dell'organizzazione del Dipartimento veniva demandata a successivo decreto del Presidente della Repubblica da emanarsi a seguito di delibera del Consiglio dei Ministri, adottata su proposta del Presidente del Consiglio, sentite le competenti commissioni della Camera e del Senato. Al dipartimento la legge n. 183/1987 affianca anche la riforma del CIPE, che diviene ora il comitato interministeriale di riferimento per tutta la problematica delle interconnessioni tra le politiche comunitarie e la politica economica nazionale, e la creazione di nuove strutture operative, quale il Fondo di rotazione nell'ambito del Ministero del tesoro. Questi profili non rilevano direttamente ai fini considerati e ne possiamo tralasciare l'esame, salvo sottolineare come il legislatore del 1987 abbia avuto ben chiaro in mente un modello di governo delle politiche comunitarie, incentrato sul Dipartimento e articolato in molte altre strutture. In parallelo all'importante ruolo attribuito al Dipartimento la legge n. 183/1987 configura un altrettanto importante ruolo politico per il Ministro delegato per il coordinamento delle politiche comunitarie (d'ora in poi semplicemente il Ministro). Lungi dal risultare un esempio di Ministro senza portafoglio con competenze delegate di volta in volta dal Presidente del Consiglio pro-tempore, senza alcuna garanzia anche in ordine alla stessa sua esistenza, il Ministro in esame risulta direttamente attributario dalla legge di importanti competenze (cui naturalmente altre se ne possono aggiungere per delega del Presidente del Consiglio) e ineliminabile per semplice decisione presidenziale. 3. - La successiva legge n. 400/1988 sull'ordinamento della Presidenza del Consiglio adotta un modello di dipartimento assai diverso. Di queste strutture si parla infatti unicamente all'art. 21 della legge, quali organi "comprensivi di una pluralita' di uffici cui sono affidate funzioni connesse" per il miglior svolgimento dei compiti del Segretariato generale della Presidenza del Consiglio, a sua volta strumentale rispetto ai compiti del Presidente del Consiglio. Siamo dunque di fronte a dei semplici uffici della Presidenza, che svolgono un ruolo ausiliario o strumentale per il Presidente, privi di rilevanza esterna diretta e non svolgenti funzioni autonome, bensi' di staff. Proprio per tale motivo i dipartimenti non sono costituiti con legge (che, come rilevato, sarebbe imprescindibile per dipartimenti a rilevanza esterna in virtu' della riserva di legge in materia di organizzazione pubblica), bensi' con semplici d.P.C.M. adottati senza particolari procedure, salvo l'intesa con il Ministro competente nei casi - come quello in esame - di dipartimenti posti alle dipendenze di ministri senza portafoglio. Possiamo dunque affermare che i dipartimenti di cui alla legge n. 400/1988 non hanno alcun carattere proprio e rappresentano solo degli uffici interni della Presidenza, finalizzati al miglior esercizio dei poteri del Presidente del Consiglio, che la legge intende contribuire a riaffermare (assumendo cosi' un'oggettiva rilevanza costituzionale). 4. - E' ben presto apparso che i dipartimenti ex legge n. 400/1988 non possono esaurire l'intera problematica organizzativa riassumibile sotto la testa di capitolo "dipartimenti". Mentre quanto ivi previsto vale ovviamente per il futuro, ogni volta che il Presidente del Consiglio intenda meglio sviluppare un settore della Presidenza, e puo' valere anche per una serie di dipartimenti esistenti che senza molta fatica possono essere riportati al nuovo modello di dipartimento "interno", ve ne sono altri che per origine legislativa, tipo di competenze attribuite e carattere esterno della proprio azione non possono che rimanere distinti dal nuovo modello di dipartimenti, ancorche' collocati presso la Presidenza. In sostanza, la tesi qui sostenuta e' che anche dopo la legge n. 400/1988 vi siano almeno due categorie di dipartimento: quelli che corrispondono al tipo di mero ufficio interno della Presidenza, istituibili con d.P.C.M.; e quelli a carattere "esterno", istituibili solo per legge ed organizzati con decreti del Presidente della Repubblica. I due tipi descritti corrispondono a due diverse necessita' nell'azione di governo: i primi sono del tutto funzionali ai compiti del Presidente del Consiglio, tanto che per i loro compiti si usa la nozione di attivita' di staff; i secondi sono invece preposti a settori molto ampi, talora a carattere orizzontale, e dotati di competenze dirette. La loro collocazione presso la Presidenza risponde solo alla necessita' di tali responsabilita' non verticali trovino adeguata cornice nell'organo tipicamente a cio' preposto. 5. - Nel caso qui in esame delle politiche comunitarie, la chiave di lettura e' confermata pienamente dalla terza delle leggi sopracitate, ovvero dalla legge n. 86/1989, recante "Norme generali sulla partecipazione dell'Italia al processo normativo comunitario e sulle procedure di esecuzione degli obblighi comunitari". Viene infatti confermato ed anzi aumentato il complesso delle competenze attribuite al Dipartimento, cosi' come si dilata fortemente il ruolo del Ministro. Basti pensare alla nuova procedura di recepimento della normativa comunitaria, nota come legge comunitaria annuale, ed al complesso delle altre competenze per quanto riguarda l'attuazione in via amministrativa ed il coordinamento dell'azione statale. 6. - Dopo un'attesa triennale, negativamente sottolineata da tutti coloro che avevano consapevolezza del crescente divario con gli altri partners comunitari, il decreto impugnato scioglie la contrapposizione interpretativa sopra richiamata a favore del modello interno, ma con una procedura volutamente equivoca, come meglio si vedra', e attribuendo competenze al Dipartimento che vanificano importanti spazi regionali. Il d.P.C.M. 30 aprile 1990, n. 150, segue di poco altri cinque decreti del Presidente del Consiglio (nn. 109-113 del 13 febbraio 1990, in Gazzetta Ufficiale n. 108 dell'11 maggio 1990) che hanno "normalizzato" alcuni dipartimenti piu' assimilabili alla nuova configurazione prevista dalla legge n. 400/1988. Il decreto impugnato, pur con una impronta assai simile, evidenzia fin dalla premessa le sue peculiarita' di procedura e di contenuti, ma rimane ineluttabilmente viziato per i seguenti M O T I V I I) Violazione della riserva di legge di cui all'art. 95, terzo comma, e art. 97 della Costituzione; in riferimento all'art. 1 della legge n. 183/1987; e alla legge n. 86/1989. Il decreto impugnato del Presidente del Consiglio viola apertamente i principi costituzionali in materia di organizzazione pubblica, in particolare viola la riserva di legge di cui agli articoli costituzionali in rubrica, cosi' come nella specie correttamente sviluppati dalle leggi nn. 183/1987 e 86/1989. Per i motivi ampiamente svolti nelle premesse, l'organizzazione del Dipartimento non avrebbe potuto che essere prevista con decreto del Presidente della Repubblica, emanato a seguito della complessa procedura ivi prevista. Il Dipartimento e' infatti uno dei tipici esempi di dipartimento "esterno", con propri caratteri e responsabilita', non svolgente attivita' puramente strumentali a quelle del Presidente del Consiglio. Del resto, in contraddizione con la forma dell'atto utilizzato, lo stesso d.P.C.M. dilata le competenze del Dipartimento contribuendo in modo decisivo a farne un organo operativo e sicuramente esterno, tanto da violare addirittura le attribuzioni regionali. L'esame della premessa del decreto e' illuminante per confermare il nostro assunto. Anzitutto, si richiama il decreto del P.C.M. 23 agosto 1989 con cui si sono delegate funzioni al Ministro, per poi affermare: "ritenuto di dover assicurare al predetto Dipartimento, in conformita' a quanto previsto dall'art. 21 della citata legge n. 400/1988, una struttura organizzativa idonea all'espletamento delle funzioni attribuite allo stesso Ministro...". Ora e' ben noto che le funzioni delegate al Ministro non sono altro che una conferma, rilevante ai soli fini politici, di una vasta serie di competenze attribuite al Ministro stesso direttamente dalla legge. Cosi' come e' noto che, secondo l'art. 21 della legge n. 400/1988, i dipartimenti non sono strutture organizzative finalizzate all'esercizio dei compiti dei Ministri senza portafoglio, bensi' del Presidente del Consiglio (supportato dal Segretariato generale della Presidenza). In secondo luogo, la procedura seguita per l'adozione del d.P.C.M. ha cercato di somigliare quanto possibile a quella prevista nell'art. 1 della legge n. 183/1987, nell'evidente tentativo di scongiurare le censure di costituzionalita', che invece rimangono piene stante la forma dell'atto finale. Cio' rappresenta un'ulteriore differenza rispetto agli altri decreti di organizzazione dei dipartimenti, emanati esattamente secondo le piu' semplici e flessibili procedure di cui all'art. 21 della legge n. 400/1988. La regione non puo' non dolersi di questa preliminare circostanza, dato che in forma incostituzionale e meno garantistica - basti pensare che il d.P.C.M. in questione potra' in avvenire essere emendato secondo la elementare procedura di cui all'art. 21 piu' volte citato, in spregio a tutte le garanzie sottese alla riserva di legge e ai suoi svolgimenti tramite il corretto rapporto legge-regolamento esecutivo di organizzazione - vengono introdotte nuove competenze dipartimentali in violazione delle proprie attribuzioni. II) Illegittimita' dell'art. 2, lettere a), c), d), i), g) e n), per violazione degli artt. 117 e 118 della Costituzione, in riferimento all'art. 4 del d.P.R. n. 616/1977; alla legge n. 183/1987; alla legge n. 86/1989; al regolamento del Consiglio delle comunita' europee n. 2088/85; ai vari regolamenti del consiglio delle Comunita' europee relativi ai fondi comunitari a finalita' strutturali. 1. - L'art. 2 dell'impugnato decreto definisce le competenze del Dipartimento, svolgendo le indicazioni generali contenute all'art. 1 della legge n. 183/1987. Ai nostri fini rilevano le disposizioni in tema di coordinamento delle politiche derivanti dall'appartenenza dell'Italia alle Comunita' europee, in riferimento alla posizione delle regioni, che determinano un palese e grave vulnus al sistema costituzionale delle attribuzioni regionali, cosi' come nel tempo meglio precisato dalla normativa statale e comunitaria richiamata in rubrica. Il d.P.C.M. impugnato prevede infatti una forma di coordinamento sull'attivita' regionale che va ben al di la' del vero e proprio potere di coordinamento, per assumere il carattere di diretta ingerenza negli affari regionali a rilievo comunitario, eliminando anche spazi di azione esplicitamente riconosciuti alle regioni dalla normativa comunitaria. Le disposizioni contestate sono in particolare quelle che specificano in riferimento alle regioni il generico potere di promozione e coordinamento dell'attivita' delle pubbliche amministrazioni relativamente alle politiche comunitarie, di cui all'art. 1, lett. a). Si tratta del disposto della lett. c) (coordinamento, per specifici settori di competenza, delle amministrazioni pubbliche... ai fini della formulazione degli atti comunitari"); della lett. d) ("... coordinamento delle attivita' delle regioni in sede comunitaria, in collegamento con il Dipartimento per gli affari regionali"); lett. g) ("lo sviluppo... dei rapporti con gli uffici delle Comunita' europee per la trattazione, a livello tecnico ed istruttorio, degli affari comunitari di interesse dell'Italia, promuovendo, d'intesa con il Ministero degli affari esteri, le relative iniziative); lett. i) ("la vigilanza sulla corretta e tempestiva attuazione delle disposizioni comunitarie da parte delle amministrazioni pubbliche operanti nei settori oggetto di tali discipline, nonche' le iniziative per l'adeguamento e il coordinamento delle azioni, delle procedure e degli atti di competenza delle singole amministrazioni"); lett. n) (le attivita' connesse all'attuazione dei regolamenti comunitari in tema di Programmi integrati mediterranei e di Fondi comunitari a finalita' strutturali). Una lettura coordinata di queste diverse competenze ora affidate al Dipartimento conferma che lo Stato si e' arrogato qualsivoglia rapporto con le Comunita' europee, togliendo alle regioni non soltanto la possibilita' di svolgere attivita' tecniche ed istruttorie, da sempre ovviamente ammesse, ma addirittura le competenze dirette previste dai regolamenti CEE - la cui posizione nella gerarchia delle fonti e', in questa sede, inutile richiamare - per la realizzazione dei Programmi integrati mediterranei (PIM) e della politica comunitaria dei Fondi a finalita' strutturali. 2. - La possibilita' per le regioni di instaurare rapporti diretti con la CEE (non interessa qui l'eventuale rapporto con l'Euratom e con la CECA) e' un tema da lungo tempo discusso, e che di recente ha trovato ulteriori importanti sviluppi sia in sede comunitaria che nazionale. Dopo un incerto avvio del dibattito, il legislatore e' intervenuto con l'art. 4 del d.P.R. n. 616/1977 che, da un lato, prevede la riserva a favore dello Stato delle funzioni attinenti ai rapporti internazionali e con la CEE; dall'altro, autorizza le regioni a svolgere all'estero attivita' promozionali relative alle materie di loro competenza, previa intesa con il Governo e nell'ambito degli indirizzi e degli atti di coordinamento. Si tratta, purtroppo, di una previsione assai incompleta e poco rispondente alla complessita' dei rapporti Stato-regioni-CEE; tanto che, fin dal principio, e' stato oggetto di un ulteriore dibattito interpretativo, sfociato anche in importanti pronunce dell'ecc.ma Corte costituzionale. I temi controversi erano principalmente due: la definizione del concetto di attivita' di rilievo internazionale, e la dimensione delle attivita' a rilievo comunitario consentite alle regioni. Il primo problema qui meno interessa, anche se appare importante per la dimostrazione che anche relativamente ai rapporti internazionali sussistono spazi non secondari per le regioni. Come e' stato felicemente posto in luce dalla sentenza della Corte costituzionale n. 179/1987 - confermata poi dalle sentenze nn. 42/1989, 379/1988, 737/1988 e dall'ordinanza n. 250/1988 - oltre alle vere e proprie attivita' promozionali, e' dato riscontro nell'ambito della realta' internazionale "alcune attivita' di vario contenuto congiuntamente compiute dalle regioni e da altri organismi esteri aventi per oggetto finalita' di studio o di informazione (in materie tecniche) oppure la previsione di partecipazione a manifestazioni dirette ad agevolare il progresso culturale ed economico in ambito locale, ovvero, infine, l'enunciazione di propositi intesi ad armonizzare unilateralmente le rispettive condotte in vista di scopi di comune interesse connessi alle materie loro devolute, da realizzare mediante atti propri o, al piu', mediante sollecitazione dei competenti organi nazionali. Si tratta delle cosiddette attivita' di mero rilievo internazionale che esulano dall'ambito dei rapporti internazionali riservati allo Stato, in quanto con esse le regioni non pongono in essere veri accordi ne' assumono diritti ed obblighi tali da impegnare la responsabilita' internazionale dello Stato" (citazioni dalle sentenze nn. 179/1987 e 42/1989). I richiamati esiti della discussione sulla prima e piu' delicata problematica non possono non influenzare anche la risoluzione della gestione - qui direttamente in esame - dell'ambito delle attivita' a rilevanza comunitaria riconosciute alle regioni. Al riguardo, la difesa della regione Toscana aderisce all'interpretazione- autorevolmente sostenuta - che ritiene ammissibili i contatti diretti tra gli organismi comunitari e le regioni in tutti i casi non ascrivibili ai "rapporti internazionali", ovvero al potere estero riservato allo Stato; tanto piu' che appare ben fondato il rilievo che i rapporti di carattere istruttorio e/o tecnico con gli organi comunitari non siano neanche presi in considerazione dall'art. 4 del d.P.R. n. 616/1977. A cio' si puo' aggingere che la recente normativa comunitaria riconosce esplicitamente un ruolo diretto alle regioni, compartecipi di alcune importanti politiche comunitarie non soltanto per la fase di attuazione, ma anche per la fase di elaborazione. Si tratta per l'appunto delle politiche regionali della Comunita' tradottesi in particolare nei Programmi integrati mediterranei e nei Fondi strutturali, disciplinati dai regolamenti CEE citati che ora il decreto impugnato viola apertamente. Il ruolo delle regioni e' in questi regolamenti CEE cosi' importante da tradursi nella responsabilita' primaria per l'attuazione delle relative politiche. Anche la recente normativa statale in materia - ovvero le citate leggi nn. 183/1987 e 86/1989 - considera le regioni come soggetti che partecipano direttamente alla determinazione ed all'attuazione delle politiche comunitarie, prevedendo opportune forme di indirizzo e coordinamento (cfr. specialmente l'art. 9 della legge n. 86/1989) nel pieno rispetto delle attribuzioni costituzionalmente riconosciute alle regioni. A fronte di questa posizione ormai acquisita e incentrata, anzitutto, sulla disciplina comunitaria, il decreto impugnato introduce forme di coordinamento che, lungi dal rispettare le competenze regionali, consentono anche un loro totale esproprio. Vengono inoltre preclusi alle regioni financo i contatti con gli organi comunitari aventi mero carattere tecnico ed istruttorio (cfr. lett. g) dell'art. 1 del decreto). Infine, vengono riservate allo Stato le attivita' connesse all'attuazione dei regolamenti sui PIM e sui Fondi strutturali, in violazione diretta degli stessi regolamenti CEE. III) Illegittimita' dell'art. 1, primo comma, lett. o), per violazione degli artt. 117 e 118 della Costituzione; alla legge 21 dicembre 1978, n. 845. L'art. 1, primo comma, lett. o), del decreto impugnato prevede anche, tra le competenze del Dipartimento, "la formazione di personale e di operatori pubblici e privati con riferimento a temi e problemi comunitari". Si tratta, con tutta evidenza, di un'indebita intromissione nelle attribuzioni regionali in materia di formazione professionale, tra l'altro del tutto inaspettata perche' nessuno si attendeva che un Dipartimento governativo, preposto - quale che sia la sua esatta natura - a funzioni di alto profilo politico e di indirizzo amministrativo, divenisse un centro di formazione professionale per operatori pubblici e privati. La circostanza e' sicuramente rilevante anche per la conferma della tesi espressa nel primo motivo circa i caratteri del Dipartimento, ma vale anche come autonomo motivo di impugnazione perche' rappresenta una violazione della competenza regionale per la formazione professionale, cosi' come ben definita nella legge quadro in materia (legge n. 845/1978). La nuova ed eterodossa competenza statale e' prevista, inoltre, in termini cosi' generici da consentire qualsivoglia intervento statale alla sola condizione che la formazione abbia riguardo a temi e problemi comunitari. Ora e' di palmare evidenza che non esiste ormai quasi nessuna problematica che non abbia qualche rilievo comunitario; si' che ove fosse dannatamente confermato il citato criterio le regioni perderebbero una enorme parte delle proprie attribuzioni per la formazione professionale.