Ricorso  per  conflitto  di  attribuzione della regione Toscana, in
 persona del presidente  pro-tempore  della  giunta  regionale,  dott.
 Marco  Marcucci,  autorizzato  con  deliberazione g.r. n. 6374 del 23
 luglio 1990, rappresentato e difeso dal prof. avv. Mario P. Chiti, ed
 elettivamento  domiciliato  in  Roma,  via  G.B.  Vico, 29, presso lo
 studio dell'avv. Pietro D'Amelio, come da delega in calce al presente
 atto  contro  il Presidente del Consiglio dei Ministri pro-tempore in
 relazione al decreto del Presidente del  Consiglio  dei  Ministri  30
 aprile  1990,  n. 150, pubblicato in Gazzetta Ufficiale del 16 giugno
 1990, n. 139, regolamento per l'organizzazione del  Dipartimento  per
 il   coordinamento  delle  politiche  comunitarie  nell'ambito  della
 Presidenza del Consiglio dei Ministri.
                   PREMESSE ISTITUZIONALI E DI FATTO
    1.  -  Con il decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri 30
 aprile 1990, n. 150 (pubblicato in Gazzetta Ufficiale del  16  giugno
 1990,   n.   139),   e'   stata   disciplinata  l'organizzazione  del
 Dipartimento  per  il  coordinamento  delle   politiche   comunitarie
 nell'ambito della Presidenza del Consiglio.
    Si  tratta di un provvedimento atteso sin dalla legge n. 183/1987,
 che  all'art.  1  aveva  previsto  l'istituzione   del   Dipartimento
 rinviando  pero'  la  sua  disciplina  a  successivo  regolamento che
 avrebbe dovuto essere emanato entro sei mesi dalla data di entrata in
 vigore  della legge stessa. L'attesa era piu' che giustificata avendo
 presente che l'istituzione del Dipartimento risponde all'esigenza  di
 dotare  finalmente  il  nostro  Paese  di  una  struttura centrale di
 governo per una problematica - quella comunitaria - che sta assumendo
 un  ruolo  cruciale  per la societa' italiana, ponendo cosi' anche il
 nostro Governo nella condizione di poter efficacemente coordinare  il
 complesso  delle  politiche  comunitarie,  conformemente  al  modello
 proprio della maggior parte degli altri Stati membri della CEE.
    Senonche',  la  forma usata per regolamentare l'organizzazione del
 Dipartimento (d.P.C.M. e non decreto del Presidente della Repubblica)
 e  l'attribuzione  di alcune importanti competenze al Dipartimento in
 violazione  delle  attribuzioni  regionali  rendono  illegittimo   il
 decreto  del  Presidente  del  Consiglio  n. 150/1990, che la regione
 Toscana  si  trova  costretta   ad   impugnare   per   conflitto   di
 attribuzioni.
    Ai  fini  di  una  migliore  comprensione  del  problema  e  della
 specifica posizione regionale, pare utile tratteggiare sinteticamente
 la disciplina della materia.
    2.  -  Dopo un iniziale monopolio delle problematiche comunitarie,
 sia a carattere politico che amministrativo, a favore  del  Ministero
 affari  esteri,  e'  seguito un lungo periodo in cui, ferme rimanendo
 alcune competenze del Ministero degli esteri  di  natura  prettamente
 politica,  ogni amministrazione coinvolta nei procedimenti comunitari
 ha esercitato un suo ruolo diretto, sia nel versante  dell'attuazione
 del  diritto comunitario, sia anche in quello della sua elaborazione,
 ad esempio attraverso la partecipazione di propri funzionari ai  vari
 comitati CEE-amministrazioni nazionali.
    Questo  modello  disaggregato  ha  determinato  ovvi  problemi  di
 scoordinamento nell'azione italiana ed ha contribuito, inoltre,  alle
 difficolta'  nel recepimento del diritto comunitario, con le connesse
 azioni della Commissione nei nostri confronti (tutti questi problemi,
 ben   noti,  sono  richiamati  con  notevole  efficacia  anche  nelle
 relazioni illustrative dei disegni  di  legge  per  il  coordinamento
 delle  politiche  comunitarie  - poi legge n. 183/1987, e per la c.d.
 legge comunitaria 1990 - in attuazione della legge  n.  86/1989,  ora
 all'esame  della Camera dei deputati dopo l'approvazione del Senato).
    Le  proposte  per  un  nuovo  modello di governo nel settore delle
 politiche comunitarie si sono accompagnate a quelle  per  la  riforma
 della Presidenza del Consiglio e dell'attivita' di governo, sfociando
 in tre provvedimenti di grande importanza: da una parte, la legge  n.
 183/1987  e  la legge n. 86/1989 sul tema specifico del governo delle
 politiche comunitarie;  dall'altra,  la  legge  n.  400/1988  che  in
 generale  disciplina  l'attivita'  di  governo  e l'ordinamento della
 Presidenza del Consiglio dei Ministri.
    Le  tre  leggi  ora  citate  -  tra  di  loro sfalsate di un anno,
 elemento di cui dovremo tener conto nella ricostruzione  del  diritto
 applicabile  - sono pero' solo in parte compatibili, ed uno dei punti
 di   maggior   attrito   riguarda   per   l'appunto   la   disciplina
 dell'ordinamento per le politiche comunitarie.
    3.   -  Il  Dipartimento  per  il  coordinamento  delle  politiche
 comunitarie (d'ora in poi semlicemente Dipartimento) viene istituito,
 come  detto,  dalla  legge  n.  183/1987.  Non  si tratta tuttavia di
 un'assoluta  novita',  dato  che,  come  primo  esito   degli   studi
 riformatori  avviati  dalle  commissione Giannini-Amato e Piga tra la
 fine degli  anni  settanta  e  l'inizio  dello  scorso  decennio,  un
 Dipartimento  per  le  politiche comunitarie era gia' stato istituito
 con un ordine di servizio del Presidente  del  Consiglio  (Spadolini)
 del  1981,  poi  leggermente  modificato  con  analogo atto dell'anno
 successivo, nel contesto della (mini) riforma in  via  amministrativa
 della Presidenza del Consiglio.
    Proprio  la  non  felicissima esperienza di questa prima struttura
 (incerta per natura giuridica, collocazione rispetto alla  Presidenza
 e agli altri ministeri, competenze attribuitele) e l'affermarsi nello
 stesso periodo di nuove strutture  dipartimentali  "forti"  (cfr.  ad
 esempio  il  Dipartimento per il Mezzogiorno e il Dipartimento per la
 funzione pubblica), previsti con legge, concorsero alla decisione  di
 istituire  definitivamente  con  legge  il Dipartimento. Del resto, a
 favore di questa soluzione spingeva anche  la  riserva  di  legge  ex
 artt.  95  e  97 della Costituzione, che, per quanto sempre dibattuta
 sulla sua esatta portata, non puo' non rilevare in tutti  i  casi  di
 stutture pubbliche - nel caso organi centrali dello Stato - cui siano
 affidate competenze non di  carattere  esclusivamente  interno  e  di
 staff.
    In  tal  senso,  l'art.  1  della  legge n. 183/1987 istituisce il
 Dipartimento, con cruciali funzioni a rilevanza comunitarie quali "il
 coordinamento delle politiche derivanti dall'appartenenza dell'Italia
 alle Comunita' europee", e "l'adeguamento della  normativa  nazionale
 alle  direttive comunitarie". La puntuale disciplina delle competenze
 e dell'organizzazione del Dipartimento veniva demandata a  successivo
 decreto  del  Presidente  della  Repubblica  da emanarsi a seguito di
 delibera  del  Consiglio  dei  Ministri,  adottata  su  proposta  del
 Presidente  del  Consiglio,  sentite  le competenti commissioni della
 Camera e del Senato.
    Al dipartimento la legge n. 183/1987 affianca anche la riforma del
 CIPE, che diviene ora il comitato  interministeriale  di  riferimento
 per  tutta  la  problematica  delle interconnessioni tra le politiche
 comunitarie e la politica economica  nazionale,  e  la  creazione  di
 nuove  strutture  operative,  quale il Fondo di rotazione nell'ambito
 del Ministero del tesoro. Questi profili non rilevano direttamente ai
 fini   considerati   e   ne   possiamo   tralasciare  l'esame,  salvo
 sottolineare come il legislatore del 1987 abbia avuto ben  chiaro  in
 mente  un  modello di governo delle politiche comunitarie, incentrato
 sul Dipartimento e articolato in molte altre strutture.
    In  parallelo  all'importante  ruolo attribuito al Dipartimento la
 legge n. 183/1987 configura un altrettanto importante ruolo  politico
 per  il  Ministro  delegato  per  il  coordinamento  delle  politiche
 comunitarie (d'ora in  poi  semplicemente  il  Ministro).  Lungi  dal
 risultare  un  esempio  di  Ministro senza portafoglio con competenze
 delegate di volta in volta dal Presidente del Consiglio  pro-tempore,
 senza  alcuna  garanzia anche in ordine alla stessa sua esistenza, il
 Ministro in esame risulta direttamente attributario  dalla  legge  di
 importanti   competenze   (cui   naturalmente  altre  se  ne  possono
 aggiungere per delega del Presidente del Consiglio)  e  ineliminabile
 per semplice decisione presidenziale.
    3.  -  La  successiva  legge  n.  400/1988  sull'ordinamento della
 Presidenza del Consiglio adotta  un  modello  di  dipartimento  assai
 diverso.  Di queste strutture si parla infatti unicamente all'art. 21
 della legge, quali organi "comprensivi di una  pluralita'  di  uffici
 cui  sono  affidate funzioni connesse" per il miglior svolgimento dei
 compiti del Segretariato generale della Presidenza del  Consiglio,  a
 sua   volta  strumentale  rispetto  ai  compiti  del  Presidente  del
 Consiglio.
    Siamo dunque di fronte a dei semplici uffici della Presidenza, che
 svolgono un ruolo ausiliario o strumentale per il  Presidente,  privi
 di  rilevanza  esterna  diretta  e  non  svolgenti funzioni autonome,
 bensi' di staff. Proprio per tale  motivo  i  dipartimenti  non  sono
 costituiti con legge (che, come rilevato, sarebbe imprescindibile per
 dipartimenti a rilevanza esterna in virtu' della riserva di legge  in
 materia  di  organizzazione  pubblica),  bensi' con semplici d.P.C.M.
 adottati senza particolari procedure, salvo l'intesa con il  Ministro
 competente  nei  casi  - come quello in esame - di dipartimenti posti
 alle dipendenze di ministri senza portafoglio.
    Possiamo  dunque affermare che i dipartimenti di cui alla legge n.
 400/1988 non hanno alcun carattere proprio e rappresentano solo degli
 uffici interni della Presidenza, finalizzati al miglior esercizio dei
 poteri del Presidente del Consiglio, che la legge intende contribuire
 a     riaffermare    (assumendo    cosi'    un'oggettiva    rilevanza
 costituzionale).
    4. - E' ben presto apparso che i dipartimenti ex legge n. 400/1988
 non possono esaurire l'intera problematica organizzativa riassumibile
 sotto la testa di capitolo "dipartimenti". Mentre quanto ivi previsto
 vale ovviamente per il futuro,  ogni  volta  che  il  Presidente  del
 Consiglio  intenda  meglio  sviluppare un settore della Presidenza, e
 puo' valere anche per una serie di dipartimenti esistenti  che  senza
 molta   fatica   possono   essere   riportati  al  nuovo  modello  di
 dipartimento "interno", ve ne sono altri che per origine legislativa,
 tipo  di  competenze  attribuite  e  carattere  esterno della proprio
 azione non  possono  che  rimanere  distinti  dal  nuovo  modello  di
 dipartimenti, ancorche' collocati presso la Presidenza.
    In  sostanza,  la tesi qui sostenuta e' che anche dopo la legge n.
 400/1988 vi siano almeno due categorie di  dipartimento:  quelli  che
 corrispondono  al  tipo  di  mero  ufficio  interno della Presidenza,
 istituibili con d.P.C.M.; e quelli a carattere "esterno", istituibili
 solo  per  legge  ed  organizzati  con  decreti  del Presidente della
 Repubblica.  I  due  tipi  descritti  corrispondono  a  due   diverse
 necessita'  nell'azione di governo: i primi sono del tutto funzionali
 ai compiti del Presidente del Consiglio, tanto che per i loro compiti
 si  usa  la  nozione  di  attivita'  di  staff; i secondi sono invece
 preposti a settori molto ampi,  talora  a  carattere  orizzontale,  e
 dotati   di  competenze  dirette.  La  loro  collocazione  presso  la
 Presidenza risponde solo alla necessita' di tali responsabilita'  non
 verticali  trovino  adeguata  cornice  nell'organo tipicamente a cio'
 preposto.
    5.  - Nel caso qui in esame delle politiche comunitarie, la chiave
 di  lettura  e'  confermata  pienamente  dalla  terza   delle   leggi
 sopracitate,  ovvero  dalla legge n. 86/1989, recante "Norme generali
 sulla partecipazione dell'Italia al processo normativo comunitario  e
 sulle procedure di esecuzione degli obblighi comunitari".
    Viene  infatti  confermato  ed  anzi  aumentato il complesso delle
 competenze  attribuite  al  Dipartimento,  cosi'   come   si   dilata
 fortemente  il ruolo del Ministro. Basti pensare alla nuova procedura
 di  recepimento  della  normativa  comunitaria,   nota   come   legge
 comunitaria  annuale,  ed  al  complesso  delle  altre competenze per
 quanto  riguarda   l'attuazione   in   via   amministrativa   ed   il
 coordinamento dell'azione statale.
    6. - Dopo un'attesa triennale, negativamente sottolineata da tutti
 coloro che avevano consapevolezza del crescente divario con gli altri
 partners    comunitari,    il    decreto    impugnato   scioglie   la
 contrapposizione interpretativa sopra richiamata a favore del modello
 interno,  ma  con  una procedura volutamente equivoca, come meglio si
 vedra', e  attribuendo  competenze  al  Dipartimento  che  vanificano
 importanti spazi regionali.
   Il  d.P.C.M.  30  aprile  1990,  n. 150, segue di poco altri cinque
 decreti del Presidente del Consiglio (nn.  109-113  del  13  febbraio
 1990,  in  Gazzetta  Ufficiale  n. 108 dell'11 maggio 1990) che hanno
 "normalizzato"  alcuni  dipartimenti  piu'  assimilabili  alla  nuova
 configurazione   prevista   dalla   legge  n.  400/1988.  Il  decreto
 impugnato, pur con una impronta assai  simile,  evidenzia  fin  dalla
 premessa  le  sue peculiarita' di procedura e di contenuti, ma rimane
 ineluttabilmente viziato per i seguenti
                              M O T I V I
    I)  Violazione  della  riserva  di legge di cui all'art. 95, terzo
 comma, e art. 97 della Costituzione; in riferimento all'art. 1  della
 legge n. 183/1987; e alla legge n. 86/1989.
    Il   decreto   impugnato   del   Presidente  del  Consiglio  viola
 apertamente i principi costituzionali in  materia  di  organizzazione
 pubblica,  in  particolare  viola  la  riserva  di  legge di cui agli
 articoli  costituzionali  in  rubrica,  cosi'   come   nella   specie
 correttamente sviluppati dalle leggi nn. 183/1987 e 86/1989.
    Per  i  motivi  ampiamente svolti nelle premesse, l'organizzazione
 del Dipartimento non avrebbe potuto che essere prevista  con  decreto
 del  Presidente  della  Repubblica, emanato a seguito della complessa
 procedura ivi prevista. Il Dipartimento e'  infatti  uno  dei  tipici
 esempi   di   dipartimento   "esterno",   con   propri   caratteri  e
 responsabilita', non  svolgente  attivita'  puramente  strumentali  a
 quelle del Presidente del Consiglio.
    Del resto, in contraddizione con la forma dell'atto utilizzato, lo
 stesso d.P.C.M. dilata le competenze del Dipartimento contribuendo in
 modo  decisivo  a  farne  un  organo operativo e sicuramente esterno,
 tanto da violare addirittura le attribuzioni regionali.
    L'esame  della  premessa del decreto e' illuminante per confermare
 il nostro assunto.
    Anzitutto,  si  richiama  il decreto del P.C.M. 23 agosto 1989 con
 cui si  sono  delegate  funzioni  al  Ministro,  per  poi  affermare:
 "ritenuto   di   dover   assicurare   al  predetto  Dipartimento,  in
 conformita' a quanto previsto dall'art.  21  della  citata  legge  n.
 400/1988,  una  struttura organizzativa idonea all'espletamento delle
 funzioni attribuite allo stesso Ministro...". Ora e' ben noto che  le
 funzioni  delegate  al  Ministro  non  sono  altro  che una conferma,
 rilevante ai soli fini politici, di una  vasta  serie  di  competenze
 attribuite al Ministro stesso direttamente dalla legge. Cosi' come e'
 noto che, secondo l'art. 21 della legge n. 400/1988,  i  dipartimenti
 non   sono  strutture  organizzative  finalizzate  all'esercizio  dei
 compiti dei Ministri senza portafoglio,  bensi'  del  Presidente  del
 Consiglio (supportato dal Segretariato generale della Presidenza).
    In secondo luogo, la procedura seguita per l'adozione del d.P.C.M.
 ha cercato di somigliare quanto possibile a quella prevista nell'art.
 1  della legge n. 183/1987, nell'evidente tentativo di scongiurare le
 censure di costituzionalita', che invece rimangono  piene  stante  la
 forma  dell'atto  finale.  Cio'  rappresenta  un'ulteriore differenza
 rispetto agli  altri  decreti  di  organizzazione  dei  dipartimenti,
 emanati  esattamente  secondo le piu' semplici e flessibili procedure
 di cui all'art. 21 della legge n. 400/1988.
    La regione non puo' non dolersi di questa preliminare circostanza,
 dato che in  forma  incostituzionale  e  meno  garantistica  -  basti
 pensare  che  il  d.P.C.M.  in  questione  potra'  in avvenire essere
 emendato secondo la elementare procedura  di  cui  all'art.  21  piu'
 volte  citato, in spregio a tutte le garanzie sottese alla riserva di
 legge  e  ai  suoi   svolgimenti   tramite   il   corretto   rapporto
 legge-regolamento  esecutivo  di  organizzazione - vengono introdotte
 nuove  competenze  dipartimentali   in   violazione   delle   proprie
 attribuzioni.
    II)  Illegittimita'  dell'art. 2, lettere a), c), d), i), g) e n),
 per  violazione  degli  artt.  117  e  118  della  Costituzione,   in
 riferimento  all'art.  4  del  d.P.R.  n.  616/1977;  alla  legge  n.
 183/1987; alla legge n. 86/1989; al regolamento del  Consiglio  delle
 comunita' europee n. 2088/85; ai vari regolamenti del consiglio delle
 Comunita'  europee  relativi  ai   fondi   comunitari   a   finalita'
 strutturali.
    1.  -  L'art. 2 dell'impugnato decreto definisce le competenze del
 Dipartimento, svolgendo le indicazioni generali contenute all'art.  1
 della  legge  n. 183/1987. Ai nostri fini rilevano le disposizioni in
 tema di coordinamento  delle  politiche  derivanti  dall'appartenenza
 dell'Italia  alle  Comunita'  europee,  in riferimento alla posizione
 delle regioni, che determinano un palese e grave  vulnus  al  sistema
 costituzionale  delle  attribuzioni  regionali,  cosi' come nel tempo
 meglio precisato dalla normativa statale e comunitaria richiamata  in
 rubrica.
    Il  d.P.C.M.  impugnato prevede infatti una forma di coordinamento
 sull'attivita' regionale che va ben al di  la'  del  vero  e  proprio
 potere  di  coordinamento,  per  assumere  il  carattere  di  diretta
 ingerenza negli affari regionali a  rilievo  comunitario,  eliminando
 anche  spazi di azione esplicitamente riconosciuti alle regioni dalla
 normativa comunitaria.
    Le   disposizioni   contestate  sono  in  particolare  quelle  che
 specificano  in  riferimento  alle  regioni  il  generico  potere  di
 promozione    e    coordinamento   dell'attivita'   delle   pubbliche
 amministrazioni relativamente  alle  politiche  comunitarie,  di  cui
 all'art.  1,  lett.  a).  Si  tratta  del  disposto  della  lett.  c)
 (coordinamento,  per   specifici   settori   di   competenza,   delle
 amministrazioni  pubbliche...  ai  fini della formulazione degli atti
 comunitari"); della lett.  d)  ("...  coordinamento  delle  attivita'
 delle   regioni   in   sede   comunitaria,  in  collegamento  con  il
 Dipartimento per gli affari regionali"); lett.  g)  ("lo  sviluppo...
 dei   rapporti   con  gli  uffici  delle  Comunita'  europee  per  la
 trattazione,  a  livello  tecnico  ed   istruttorio,   degli   affari
 comunitari  di  interesse  dell'Italia,  promuovendo, d'intesa con il
 Ministero degli affari esteri, le relative iniziative); lett. i) ("la
 vigilanza  sulla  corretta e tempestiva attuazione delle disposizioni
 comunitarie da parte delle  amministrazioni  pubbliche  operanti  nei
 settori  oggetto  di  tali  discipline,  nonche'  le  iniziative  per
 l'adeguamento e il coordinamento  delle  azioni,  delle  procedure  e
 degli  atti  di  competenza delle singole amministrazioni"); lett. n)
 (le attivita' connesse all'attuazione dei regolamenti  comunitari  in
 tema  di  Programmi  integrati  mediterranei  e di Fondi comunitari a
 finalita' strutturali).
    Una  lettura  coordinata di queste diverse competenze ora affidate
 al Dipartimento conferma che lo Stato  si  e'  arrogato  qualsivoglia
 rapporto  con  le  Comunita'  europee,  togliendo  alle  regioni  non
 soltanto  la  possibilita'  di   svolgere   attivita'   tecniche   ed
 istruttorie,   da   sempre  ovviamente  ammesse,  ma  addirittura  le
 competenze dirette previste dai regolamenti CEE -  la  cui  posizione
 nella  gerarchia delle fonti e', in questa sede, inutile richiamare -
 per la realizzazione dei Programmi  integrati  mediterranei  (PIM)  e
 della politica comunitaria dei Fondi a finalita' strutturali.
    2. - La possibilita' per le regioni di instaurare rapporti diretti
 con la CEE (non interessa qui l'eventuale rapporto  con  l'Euratom  e
 con  la CECA) e' un tema da lungo tempo discusso, e che di recente ha
 trovato ulteriori importanti sviluppi sia  in  sede  comunitaria  che
 nazionale.
    Dopo un incerto avvio del dibattito, il legislatore e' intervenuto
 con l'art. 4 del d.P.R. n. 616/1977  che,  da  un  lato,  prevede  la
 riserva  a  favore  dello  Stato delle funzioni attinenti ai rapporti
 internazionali e con la  CEE;  dall'altro,  autorizza  le  regioni  a
 svolgere  all'estero  attivita' promozionali relative alle materie di
 loro competenza, previa intesa con il  Governo  e  nell'ambito  degli
 indirizzi e degli atti di coordinamento.
    Si  tratta,  purtroppo,  di una previsione assai incompleta e poco
 rispondente alla complessita' dei rapporti  Stato-regioni-CEE;  tanto
 che,  fin  dal  principio, e' stato oggetto di un ulteriore dibattito
 interpretativo, sfociato anche  in  importanti  pronunce  dell'ecc.ma
 Corte costituzionale. I temi controversi erano principalmente due: la
 definizione del concetto di attivita' di rilievo internazionale, e la
 dimensione  delle  attivita'  a  rilievo  comunitario consentite alle
 regioni. Il primo  problema  qui  meno  interessa,  anche  se  appare
 importante  per  la dimostrazione che anche relativamente ai rapporti
 internazionali sussistono spazi non secondari per le regioni. Come e'
 stato   felicemente   posto   in  luce  dalla  sentenza  della  Corte
 costituzionale n.  179/1987  -  confermata  poi  dalle  sentenze  nn.
 42/1989, 379/1988, 737/1988 e dall'ordinanza n. 250/1988 - oltre alle
 vere e proprie attivita' promozionali, e' dato riscontro  nell'ambito
 della  realta'  internazionale  "alcune  attivita' di vario contenuto
 congiuntamente compiute dalle regioni e  da  altri  organismi  esteri
 aventi  per oggetto finalita' di studio o di informazione (in materie
 tecniche) oppure la previsione  di  partecipazione  a  manifestazioni
 dirette  ad  agevolare  il progresso culturale ed economico in ambito
 locale,  ovvero,  infine,  l'enunciazione  di  propositi  intesi   ad
 armonizzare  unilateralmente le rispettive condotte in vista di scopi
 di  comune  interesse  connessi  alle  materie  loro   devolute,   da
 realizzare  mediante  atti propri o, al piu', mediante sollecitazione
 dei competenti organi nazionali. Si tratta delle cosiddette attivita'
 di  mero  rilievo internazionale che esulano dall'ambito dei rapporti
 internazionali riservati allo Stato, in quanto con  esse  le  regioni
 non  pongono  in essere veri accordi ne' assumono diritti ed obblighi
 tali da impegnare  la  responsabilita'  internazionale  dello  Stato"
 (citazioni dalle sentenze nn. 179/1987 e 42/1989).
    I  richiamati  esiti della discussione sulla prima e piu' delicata
 problematica non possono non influenzare anche la  risoluzione  della
 gestione  - qui direttamente in esame - dell'ambito delle attivita' a
 rilevanza comunitaria riconosciute alle regioni.
     Al   riguardo,   la   difesa   della   regione  Toscana  aderisce
 all'interpretazione-   autorevolmente   sostenuta   -   che   ritiene
 ammissibili  i  contatti  diretti  tra  gli organismi comunitari e le
 regioni in tutti i casi non ascrivibili ai "rapporti internazionali",
 ovvero  al  potere estero riservato allo Stato; tanto piu' che appare
 ben fondato il rilievo che i rapporti di  carattere  istruttorio  e/o
 tecnico  con  gli  organi  comunitari  non  siano  neanche  presi  in
 considerazione dall'art. 4 del d.P.R. n. 616/1977.
    A  cio'  si  puo'  aggingere  che la recente normativa comunitaria
 riconosce esplicitamente un ruolo diretto alle regioni,  compartecipi
 di  alcune  importanti politiche comunitarie non soltanto per la fase
 di attuazione, ma anche per la fase di elaborazione.  Si  tratta  per
 l'appunto  delle  politiche  regionali  della Comunita' tradottesi in
 particolare  nei  Programmi  integrati  mediterranei  e   nei   Fondi
 strutturali,  disciplinati  dai  regolamenti  CEE  citati  che ora il
 decreto impugnato viola apertamente. Il ruolo  delle  regioni  e'  in
 questi   regolamenti   CEE   cosi'   importante   da  tradursi  nella
 responsabilita' primaria per l'attuazione delle relative politiche.
    Anche  la  recente normativa statale in materia - ovvero le citate
 leggi nn. 183/1987 e 86/1989 - considera le regioni come soggetti che
 partecipano  direttamente alla determinazione ed all'attuazione delle
 politiche comunitarie, prevedendo  opportune  forme  di  indirizzo  e
 coordinamento (cfr. specialmente l'art. 9 della legge n. 86/1989) nel
 pieno rispetto  delle  attribuzioni  costituzionalmente  riconosciute
 alle regioni.
    A  fronte  di  questa  posizione  ormai  acquisita  e  incentrata,
 anzitutto,  sulla  disciplina  comunitaria,  il   decreto   impugnato
 introduce  forme  di  coordinamento  che,  lungi  dal  rispettare  le
 competenze regionali, consentono  anche  un  loro  totale  esproprio.
 Vengono  inoltre  preclusi  alle  regioni  financo i contatti con gli
 organi comunitari aventi mero carattere tecnico ed istruttorio  (cfr.
 lett. g) dell'art. 1 del decreto).
    Infine,   vengono  riservate  allo  Stato  le  attivita'  connesse
 all'attuazione dei regolamenti sui PIM e sui  Fondi  strutturali,  in
 violazione diretta degli stessi regolamenti CEE.
    III)  Illegittimita'  dell'art.  1,  primo  comma,  lett.  o), per
 violazione degli artt. 117 e 118 della Costituzione;  alla  legge  21
 dicembre 1978, n. 845.
    L'art.  1,  primo  comma,  lett. o), del decreto impugnato prevede
 anche,  tra  le  competenze  del  Dipartimento,  "la  formazione   di
 personale  e di operatori pubblici e privati con riferimento a temi e
 problemi comunitari".
    Si  tratta, con tutta evidenza, di un'indebita intromissione nelle
 attribuzioni regionali in materia di  formazione  professionale,  tra
 l'altro  del  tutto  inaspettata  perche' nessuno si attendeva che un
 Dipartimento governativo, preposto - quale  che  sia  la  sua  esatta
 natura  -  a  funzioni  di  alto  profilo  politico  e  di  indirizzo
 amministrativo, divenisse un centro di formazione  professionale  per
 operatori pubblici e privati.
    La  circostanza  e'  sicuramente  rilevante  anche per la conferma
 della  tesi  espressa  nel  primo  motivo  circa  i   caratteri   del
 Dipartimento,  ma  vale  anche  come  autonomo motivo di impugnazione
 perche' rappresenta una violazione della competenza regionale per  la
 formazione  professionale, cosi' come ben definita nella legge quadro
 in materia (legge n. 845/1978).
    La nuova ed eterodossa competenza statale e' prevista, inoltre, in
 termini cosi' generici da consentire qualsivoglia intervento  statale
 alla  sola  condizione  che  la  formazione  abbia  riguardo a temi e
 problemi comunitari. Ora e' di palmare evidenza che non esiste  ormai
 quasi nessuna problematica che non abbia qualche rilievo comunitario;
 si' che ove fosse  dannatamente  confermato  il  citato  criterio  le
 regioni  perderebbero una enorme parte delle proprie attribuzioni per
 la formazione professionale.