IL TRIBUNALE MILITARE
    Ha  pronunciato  la  seguente  ordinanza nella causa contro Solito
 Raffaele, nato il 24 aprile 1969 a Taranto, atto di nascita  n.  732,
 residente  a  Rho (Milano) in via Capuana n. 50, celibe, incensurato,
 soldato  nell'8º  battaglione  carri  "M.O.  Secchiaroli"  in  Aviano
 (Pordenone),  libero,  imputato  di  diserzione  (art. 148, n. 2, del
 c.p.m.p.) perche', soldato come sopra trasferito dal carcere militare
 di  Torino  al  predetto reparto in data 10 aprile 1989, senza giusto
 motivo ometteva di presentarsi nei cinque giorni successivi, restando
 arbitrariamente assente fino a tutt'oggi.
                            FATTO E DIRITTO
    Anteriormente   all'apertura   del   dibattimento,   il   pubblico
 ministero, dopo aver rilevato che il soldato Solito non era  comparso
 senza  un  legittimo  impedimento  dinanzi  a  questo  tribunale  pur
 essendogli stato  ritualmente  notificato  il  decreto  di  rinvio  a
 giudizio,  e  che lo stesso risultava accusato di reato di diserzione
 (art. 148, n. 2, del c.p.m.p.) la cui  assenza  non  era  cessata,  e
 infine che non si erano realizzate a norma dell'art. 377 del c.p.m.p.
 le condizioni necessarie  per  procedere  al  giudizio,  ha  eccepito
 l'illegittimita'  del medesimo art. 377 in relazione agli artt. 3, 52
 e 112 della Costituzione.
    La difesa si e' associata alla richiesta della parte pubblica.
    Per  giungere  all'esame  dell'eccezione,  occorre preliminarmente
 descrivere l'attuale situazione normativa, tale per l'appunto da  far
 pervenire  le parti alla conclusione dell'impossibilita' di procedere
 al giudizio nei confronti del Solito.
    Dispone  il  citato  art.  377  che per i reati di diserzione e di
 mancanza alla chiamata (art. 148, 149 e 151 del c.p.m.p.) non si puo'
 procedere a giudizio contumaciale, salvo che vi sia concorso di altro
 delitto, o che ne sia cessata la permanenza, o che  sia  diversamente
 ordinato  dal  procuratore  generale  militare della Repubblica. E la
 diserzione del Soilito, perfezionatasi alle  ore  24  del  15  aprile
 1989,  risulta  ancora  in atto dal momento che il militare non si e'
 mai presentato all'8º battaglione carri "M.O. Secchiaroli" in Aviano,
 e  non  concorre  con alcun altro delitto. Non esiste, d'altra parte,
 nell'incarto processuale un ordine del procuratore generale  militare
 di procedere comunque al giudizio.
    E'  chiaro che tramite la, relativamente complessa, norma in esame
 si e' a suo tempo  inteso  dare  una  disciplina  ad  una  situazione
 valutata,  a  ragione  o  a  torno  non  importa,  di  conflitto: tra
 l'esigenza di una normale punizione dei reati di assenza dal servizio
 ancora  in atto da un lato, e quella di incentivare il piu' possibile
 (particolarmente  per  mobilitazioni   che   si   presentavano   come
 probabili)  una  normale  incorporazione  e  adempimento dell'obbligo
 militare dall'altro. In questo senso un giudizio  nei  confronti  del
 disertore  (e  del mancante alla chiamata) ancora assente deve essere
 apparso, come ha sottolineato  parte  della  dottrina,  evenienza  in
 contrasto con il servizio e con la disciplina. E' possibile, inoltre,
 che  abbia  anche  influito  un  certo  sfavore   per   il   giudizio
 contumaciale  in  genere  (quale  si  evince anche da altre norme del
 codice penale militare), non assendo a quei tempi accettabile che  il
 militare  potesse  esimersi dal dovere di presentarsi dinanzi ai suoi
 giudici, ed al tempo stesso suoi superiori.  Si  legge,  infine,  nei
 lavori  preparatori  che,  essendo  la  diserzione e la mancanza alla
 chiamata reati permanenti "la (loro) gravita'  puo'  considerarsi  in
 continuo  crescendo  e  un  giudizio  anticipato,  prima che lo stato
 antigiuridico sia venuto a  cessare,  potrebbe,  nei  riguardi  della
 pena,  non  essere  esatto  e proporzionato all'entita' della lesione
 giuridica". Per tutte queste ragioni si sono stabilite, per  il  caso
 di  reati  di  assenza  dal  servizio  di  cui  non  sia  cessata  la
 permanenza,   delle   condizioni   di   procedibilita',   anzi   piu'
 particolarmente  di proseguibilita' all'azione penale e del giudizio:
 la concorrenza con altro delitto, o  in  alternativa  un  ordine  del
 procuratore generale militare.
    La disposizione dell'art. 377 e' rimasta, peraltro, operante anche
 dopo l'entrata in vigore della nuova procedura  penale,  dal  momento
 che,  pur  essendo  in  via di principio intervenuta l'abrogazione di
 ogni speciale norma processuale (artt. 1 del c.p.p. 207 del d.lgs. 28
 luglio  1989,  n.  271),  l'art.  50 del c.p.p. espressamente esclude
 quest'effetto  per  le  varie  condizioni,  comuni  o  speciali,   di
 promovibilita' e proseguibilita' dell'azione penale.
    Appare,  pertanto, corretta la conclusione del pubblico ministero,
 e della stessa difesa, secondo cui nella specie  andrebbe  dichiarata
 la  non  procedibilita'  nei confronti del Solito. Del resto, proprio
 questa e' la soluzione costantemente adottata da questo tribunale  e,
 secondo  quanto risulta, da ogni altro organo giudiziario militare, e
 unanimemente  condivisa  dal  pubblico  ministero  nelle  sue   varie
 articolazioni,  cosi'  che,  a  tutt'oggi,  non  si  e'  avuta alcuna
 impugnazione e ricorso al giudice di legittimita'.
    Tuttavia, per spiegare in che senso l'art. 377 appaia in contrasto
 con  i  principi  costituzionali,  e'  necessario  descrivere   quali
 novita',  per effetto della sentenza della Corte costituzionale n. 74
 del 1985, della legge 5 agosto 1988, n.  330,  del  nuovo  codice  di
 procedura  penale, e infine della sentenza della Corte costituzionale
 n. 503/1989, siano intevenute nel contesto in cui lo stesso art.  377
 e' destinato ad operare.
    Ci si riferisce alla progressiva erosione della normativa speciale
 sulla liberta' personale nel procedimento per  reati  militari,  alla
 cui  stregua l'adozione di misure cautelari limitative della liberta'
 personale era doverosa nei confronti del militare  che  fosse  ancora
 arbitrariamente  assente,  e  consentita  quando  fosse  trascorsa la
 flagranza del reato. La prima citata sentenza  ha  invalidato  l'art.
 309  del c.p.m.p. sul fermo di polizia giudiziaria militare; la legge
 del 1988 ha abrogato l'art. 313  del  c.p.m.p.  che  disciplinava  il
 mandato  di cattura obbligatorio; il nuovo codice di procedura penale
 ha poi determinato la abrogazione  dell'art.  314  del  c.p.m.p.  che
 disciplinava  il  mandato  di  cattura  facoltativo  e l'art. 308 del
 c.p.m.p. in tema  di  arresto  in  flagranza  di  reato;  la  recente
 sentenza   della  Corte  costituzionale  ha,  infine,  invalidato  il
 medesimo art. 308 del c.p.m.p., eliminando in radice l'utilita' delle
 gia'  insorgenti  dispute  sul  problema  si  enil  nuovo  codice  di
 procedura avesse veramente operato la cennata abrogazione.
    La  conseguente  applicazione  ai  reati  militari della normativa
 comune, introdotta dal nuovo codice di procedura penale, comporta che
 in nessun caso, ne' su iniziativa della polizia giudiziaria militare,
 ne'  del  giudice  procedente,  possa  adottarsi  nei  confronti  del
 militare  che  si  trovi  in istato di diserzione (o di mancanza alla
 chiamata) una  misura  cautelare  personale  che  ponga  temine  alla
 permanenza del reato.
    Da  un lato, infatti, la nuova disciplina prevede misure cautelari
 personali coercitive solamente per i reati punibili con l'ergastolo o
 con  la  reclusione  in  quantita' superiore ad un certo limite (artt
 280, 380,  primo  comma,  381,  primo  comma,  e  384,  del  c.p.p.),
 categoria da cui al reato di diserzione (come quello di mancanza alla
 chiamata) rimane escluso: sia perche', a differenza di reati militari
 piu'  gravi,  e'  punibile  con  la reclusione militare; sia perche',
 anche volendo in contrasto con il principio di tassativita' stabilito
 dall'art.  13  della Costituzione, estendere alla reclusione militare
 le norme riguardanti la reclusione, esso e'  punibile,  anche  quando
 ricorrano  le  agravvanti  ad  effetto  speciale,  con  la reclusione
 militare in quantita' inferiore al limite stabilito.
    Dall'altro, deve essere data risposta negativa anche al quesito se
 almeno sia ammissibile, giusto per  far  cessare  la  permanenza  nel
 reato, un accompagnamento coattivo al reparto militare in adempimento
 del dovere di impedire che i  reati  vengano  portati  a  conseguenze
 ulteriori, configurato dall'art. 55 del c.p.p. quest'ultima, infatti,
 e' mera norma di sintesi (come si puo'  affermare  sulla  base  della
 giurisprudenza  formatasi  sull'art. 219 del codice abrogato), da cui
 non e' certo possibile desumere che alla polizia giudiziaria militare
 siano  attribuiti in tema di liverta' personale poteri piu' estesi di
 quelli delineati dalle gia' citate specifiche norme. Del resto, non a
 caso  e'  regolata  da apposita specifica disposizione la facolta' di
 arresto per determinati reati, tra cui non fidurano  quelli  militari
 di assenza dal servizio "quando ricorra la necessita' di interrompere
 l'attivita' criminosa" (art. 381, secondo comma, del c.p.p.).
    Sulla base di tutte queste premesse, ora e' ben possibile cogliere
 appieno  la   situazione   normativa   costituente   il   presupposto
 dell'eccezione  di legittimita' costituzionale sollevata dal pubblico
 ministero. Dal momento che nel caso di diserzione (e di mancanza alla
 chiamata)  non sono adottabili misure cautelari personali coercitive,
 la cessazione della permanenza in questo reato non  puo'  realizzarsi
 coattivamente  per  intevento  della  polizia  giudiziaria  militare,
 bensi' solamente  per  spontaneo  rientro  al  reparto  militare  del
 disertore,  o  successivamente  per  provvedimento dell'autorita' che
 riconosca il venir meno di ogni obbligo militare  (di  regola  il  31
 dicembre  dell'anno in cui si compiono i quarantacinque anni di eta',
 a norma dell'art. 9 del d.P.R. 14 febbraio 1964, n. 237).
    Di  conseguenza,  a  differenza di quanto si verificava sulla base
 delle speciali norme procedurali ora obrogate o caducate dalla  Corte
 costituzionale,  il  militare  in istato di diserzione (o di mancanza
 alla  chiamata)  attualmente  puo'   stabilire,   senza   timore   di
 interferenze  da  parte  della  polizia  giudiziaria  militare  o del
 magistrato inquirente, di permanere nell'arbitraria assenza  e  cosi'
 di   sottrarsi  all'obbligo  militare;  per  cio'  stesso,  salvo  un
 impobabile  (per  le  ragioni  che  saranno  esposte   piu'   avanti)
 intervento  del  procuratore generale militare, a norma dell'art. 377
 rende impossibile il giudizio e l'irrogazione della pena. Questa  gli
 sara'  inflitta  solamente alla cessazione di ogni obbligo militare e
 quindi, se si tratta di militare in servizio  di  ferma,  dopo  circa
 venticinque anni.
    Di  fronte a questa situazione, il pubblico ministero non si duole
 del fatto che sia venuta meno, in tema di liberta' personale e  sotto
 ogni  altro profilo, la specialita' del procedimento penale militare,
 ne' del fatto che ora la misura cautelare personale sia ammessa, come
 stabilisce  l'art.  13  della Costituzione, solo in casi eccezionali.
 Del  resto,  non  e'   frutto   di   improvvisazione   o   del   caso
 quest'adeguamento del procedimento penale militare a quello comune ed
 ai principi della Costituzione. E, d'atra parte,  proprio  da  questo
 tribunale  sono  a  suo  tempo venute le iniziative che hanno portato
 alla dichiarazione di  illegittimita'  degli  artt.  308  e  309  del
 c.p.m.p.
    Il  problema,  come  ha sottolineato lo stesso pubblico ministero,
 sta  invece  nella  sopravvivenza  dell'art.  377,  che  nella  nuova
 situazione  normativa  comporta  le descritte conseguenze. Ma, pur in
 questo ambito, non viene proposta  un'eccezione  intesa  a  censurare
 un'insufficiente tutela penale di un bene di rilievo costituzione (la
 presenza  alle  armi,  strumentale  alla  prestazione  del   servizio
 militare,  a  sua  volta  mezzo  di adempimento del "sacro" dovere di
 difesa della  Patria).  Il  legislatore  non  puo'  di  certo  essere
 costituzionalmente  vincolato  a  tutelare  un  bene giuridico con lo
 strumento della sanzione penale, e pertanto,  sotto  questo  profilo,
 potrebbe   anche  essergli  consentito  di  sperimentare  quanto,  in
 mancanza di adeguate sanzioni di questo tipo, l'obbligo del  servizio
 militare  perda in effettivita', e persino di intraprendere la via di
 una surrettizia abolizione dell'obbligo medesimo.
    La   questione   di   legittimita'   costituzionale  si  incentra,
 piuttosto, innanzitutto sulla violazione del princio  di  uguaglianza
 sancito  dall'art.  3  della  Costituzione.  Come si e' gia' detto, i
 disertori  (ed  i  mancanti  alla  chiamata)  che  permangono   nella
 arbitraria  assenza,  oltre  che  sottrarsi  all'obbligo del servizio
 militare, evitano l'immediato giudizio e l'irrogazione della pena. Al
 contrario,  la giustizia segue normalmente il suo corso nei confronti
 dei militari che, gia' in stato di arbitraria assenza per un  periodo
 sufficiente  ad  integrare  un  reato di assenza dal servizio, per le
 ragioni piu' varie (intima adesione  alla  norma  violata,  ignoranza
 della  vigente  normativa,  timore  di  una sanzione che comunque non
 manchera'  al  compimento  del  quarantacinquesimo  anno   di   eta',
 necessita'   di   ottenere   in  tempi  brevi  la  certificazione  di
 militesenza, ecc.) siano  rientrati  al  reparto  militare  entro  il
 quinto  giorno  cosi'  ponendo  in  essere il reato di allontanamento
 illecito  (art.  147  del  c.p.m.p.),  o  oltre  quel  termine  cosi'
 realizzando il reato di diserzione o di mancanza alla chiamata (artt.
 118 e 151 del c.p.m.p.). L'art. 377 del  c.p.m.p.,  com'e'  evidente,
 costituisce   un   ingiustificato  privilegio  a  favore  di  quanti,
 astenendosi dal  rientrare  al  reparto,  permangono  nell'arbitraria
 assenza.
    Inoltre,  l'altenativa  tra  immediato giudizio e pena nel caso di
 spontaneo rientro al reparto, e  impunita  nel  caso  di  protrazione
 dell'assenza   arbitraria,   sicuramente  disincentiva  l'adempimento
 dell'obbligo del servizio  militare.  Pertanto,  mentre  non  vengono
 formulate   censure   semplicemente   incentrate   sulla  mancanza  o
 insufficienza della tutela penale, sembra  evidente  che  l'art.  377
 vada oltre questa problematica, addirittura promuovendo la violazione
 dell'obbligo militare, che in quanto correlato al  dovere  di  difesa
 della  Patria  ha un suo rilievo costituzionale. Esso, dunque, appare
 in contrasto anche con  l'art.  52,  primo  e  secondo  comma,  della
 Costituzione.
    Il   suesposto   ordine  di  idee,  gia'  comprovante  l'apparente
 fondatezza delle eccezioni sollevate dal pubblico ministero, potrebbe
 essere   parzialmente  smentito  dall'osservazione  secondo  cui  non
 sarebbe poi cosi' assoluta l'improcedibilita' per il reato di assenza
 dal  servizio  ancora  in  atto,  dal  momento che lo stesso art. 377
 dispone che si proceda al giudizio quando vi sia  un  ordine  in  tal
 senso  del  procuratore  generale militare. Si e' voluto, in effetti,
 come risulta dai lavori preparatori, dare  rilievo  a  "...  evidenti
 motivi  di  opportunita' che possano, in determinate circostanze, far
 considerare necessaria la  esemplarita'  dell'effettiva  applicazione
 della  senzione, anche se la permanenza del reato non sia cessata". E
 l'ultima giurisprudenza  al  riguardo,  risalente  al  1946,  ha  poi
 correttamente precisato che al procuratore generale militare e' cosi'
 attribuito  "un  insindacabile  potere  discrezionale  di   carattere
 politico-amministrativo,il cui uso non puo' essere oggetto di censura
 in sede di ricorso di  legittimita'"  (19  febbraio  1946,  in  Mass.
 sentenze del T.S.M. 1942-51).
    In  realta',  si  tratta di un potere (a suo tempo del procuratore
 generale  militare  presso  il  T.S.M.   ed   ora   trasferitosi   al
 corrispondente  organo  presso  la  Corte  di  cassazione  o la corte
 militare d'appello) che, dopo il sopra citato caso, non  risulta  sia
 stato  mai  esercitato.  E l'obiettiva ragione di cio' va sicuramente
 individuata   nell'incostituzionalita'   non    solo    genericamente
 dell'intero art. 377, ma piu' specificamente dello stesso nella parte
 in cui ritiene di  poter  limitare  il  regime  dell'improcedibilita'
 tramite  l'attribuzione  di  siffatto  potere al procuratore generale
 militare.
    Non v'e' dubbio che, anche considerato in questa sua parte, l'art.
 377, mentre conferma la sua globale incostituzionalita',  anche  piu'
 specificamente risulta, per quella previsione di valutazione politica
 di competenza del procuratore generale  militare,  in  contraddizione
 con  l'art.  3  della  Costituzione,  ed  ancor piu' con il principio
 dell'obbligatorieta' dell'azione penale sancito dall'art.  112  della
 Costituzione.  Poco  importa  che  con l'esercizio del potere sarebbe
 conseguito il risultato della  procedibilita',  che  e'  conforme  ai
 principi     costituzionali.     Ai    fini    della    censura    di
 incostituzionalita', appare invece decisivo che il  procedimento  per
 reati  di assenza dal servizio ancora in atto passi o meno, alla fase
 del giudizio a seguito di una discrizionale valutazione  del  vertice
 della parte pubblica del procedimento medesimo.
    In definitiva, deve essere denunciata la questione di legittimita'
 costituzionale dell'art. 377 del c.p.m.p., come  hanno  concordemente
 chiesto il pubblico ministero e la difesa, in relazione agli artt. 3,
 52 e 112 della Costituzione.
    Questo giudice, avuto riguardo alla natura processuale della norma
 impugnata,  ritiene  che  la  questione  possa  essere   nel   merito
 affrontata   dalla   Corte   senza  l'interferenza  di  eccezioni  di
 irrilevanza basate sull'ultrattivita'  del  regime  sostanziale  piu'
 favorevole.  Tuttavia,  per  l'eventualita'  che nella norma medesima
 dovesse  individuarsi  una   prevalente   dimensione   di   carattere
 sostanziale,  a  sostegno  della permanenza dell'ammissibilita' della
 questione  si  richiama  alle  chiare  ed  esaurienti  argomentazioni
 contenute nella sentenza n. 148/1983 della Corte costituzionale.