IL TRIBUNALE MILITARE
    Ha  pronunciato  la seguente ordinanza nella causa contro Lazzaron
 Ivone, nato il 2 aprile 1970 a Castelfranco Veneto (Treviso), atto di
 nascita  n.  334/A.I.,  residente  a  Trebaseleghe  (Padova)  in  via
 Montello  n.  52,   celibe,   diploma   professionale,   congegnatore
 meccanico,  incensurato; cap.le nella brigata mecc. "Vittorio Veneto"
 in Trieste, Finocchiaro Marcello, nato il 30 agosto 1967  a  Catania,
 atto  di  nascita  n.  2569/A.I.,  residente  a  S. Giovanni la Punta
 (Catania) in via Regione n. 2, celibe, diploma ragioneria, impiegato,
 incensurato;   soldato  nella  brigata  mecc.  "Vittorio  Veneto"  in
 Trieste, entrambi liberi, imputati di:
    Lazzaron Ivone:
       a)  ingiuria  ad  un  inferiore  (art.  196, secondo comma, del
 c.p.m.p.) perche', cap.le nella brigata mecc.  "Vittorio  Veneto"  in
 Trieste,  il  9  febbraio  1990  verso le ore 15,40 nella caserma del
 corpo, offendeva il prestigio, l'onore  e  il  decoro  dell'inferiore
 sold.  Finocchiaro Marcello dicendogli: "Terrone, pecoraro, figlio di
 pecoraro";
       b)  violenza  contro  un  inferiore (art. 195, primo comma, del
 c.p.m.p.) perche' cap.le come  sopra,  nelle  stesse  circostanze  di
 tempo e di luogo di cui al cap. a), usava violenza contro l'inferiore
 sold. Finocchiaro Marcello spintonandolo, strattonandolo e colpendolo
 con uno schiaffo;
    Finocchiaro Marcello:
       c)  insubordinazione  con  violenza (art. 186, primo comma, del
 c.p.m.p.)  perche',  soldato  nella  brig.  mecc.  "Vittorio  V."  in
 Trieste,  il  9  febbraio  1990  verso le ore 15,40 nella caserma del
 corpo, usava violenza contro il cap.le Lazzaron Ivone colpendolo  con
 un  pugno  e cagionandogli un vasto ematoma sottopalpebrale esteso in
 regione zigomatica;
       d)  insubordinazione  con  minaccia (art. 189, primo comma, del
 c.p.m.p.) perche', soldato come sopra, nelle  stesse  circostanze  di
 tempo  e  di  luogo, minacciava un ingiusto danno al superiore cap.le
 Lazzaron Ivone dicendogli: "Ti aspetto fuori, faccio anche  presto  a
 prendere una pistola e a spararti";
       e)  insubordinazione con ingiuria (art. 189, secondo comma, del
 c.p.m.p.) perche' soldato come sopra,  nelle  stesse  circostanze  di
 tempo  e  di  luogo offendeva il prestigio, l'onore e la dignita' del
 superiore cap.le Lazzaron Ivone dicendogli: "Devi finire di  rompermi
 le palle".
                            FATTO E DIRITTO
    1. - A conclusione del dibattimento, celebratosi nelle udienze del
 30 maggio e  19  giugno,  appare  provata,  salva  la  necessita'  di
 ulteriori  approfondimenti  per  la decisione finale, la materialita'
 dei reati in rubrica. Il 9 febbraio 1990, nella caserma del  reparto,
 Trieste, il caporale Lazzaron Ivone ha rivolto al soldato Finocchiaro
 Marcello  le  espressioni  "terrone  africano,  pecoraio,  figlio  di
 pecoraio" e l'ha poi percosso in vario modo. Il Finocchiaro, da parte
 sua, ha colpito il caporale con un  pugno  cagionandogli  un  ematoma
 sottopalpebrale,  e  gli  ha  indirizzato  le espressioni "ti aspetto
 fuori" e "non devi rompermi le palle".
    Se  ai  fatti  di  ingiuria,  minaccia  e violenza sopra descritti
 debbano essere applicate le norme incriminatrici speciali (artt.  195
 e  196  per  il  Lazzaron, 186 e 189 per il Finocchiaro) comprese nei
 capi "Dell'abuso  di  autorita'"  e  "Dell'insubordinazione",  oppure
 quelle  comuni  (artt.  222  e  229 del c.p.m.p.), e' problema che va
 risolto alla stregua dei criteri indicati nell'art. 199 del c.p.m.p.,
 per  cui l'operativita' della normativa speciale e' esclusa quando il
 fatto a danno del superiore,  o  dell'inferiore,  sia  commesso  "per
 cause  estranee  al  servizio  e  alla  disciplina militare", purche'
 "fuori dalla presenza di militari riuniti per servizio e da  militare
 che  non  si trovi in servizio o a bordo di una nave militare o di un
 aeromobile militare o in luoghi militari".
    Nella  specie,  e'  subito  evidente  che vanno applicate le norme
 sull'insubordinazione e abuso di autorita', in quanto  i  fatti  sono
 venuti  in  essere  nell'ambito  della  caserma,  luogo  militare per
 antonomasia.
    Tuttavia,  per  le  ragioni  che  piu'  avanti  saranno  chiarite,
 l'indagine si e' estesa agli altri elementi  da  cui  puo'  dipendere
 l'operativita',  o  meno,  delle  speciali  norme  incriminatrici. Il
 contrasto verbale e la colluttazione risultano essersi svolte in  uno
 spazio  in  cui  i  due  casualmente  si  trovavano  assieme ad altri
 numerosi militari in  attesa  dell'orario  per  la  consumazione  del
 rancio, e quindi tra militari che non si trovavano nell'attualita' di
 uno specifico servizio (diversamente il  pubblico  ministero  avrebbe
 contestato l'aggravante delineata dall'art. 47, n. 3, del c.p.m.p.) e
 fuori dalla presenza di militari riuniti per servizio.
    Un   po'   piu'  laborioso  e'  stato  l'accertamento  concernente
 l'estraneita', o intraneita',  delle  cause  dei  reati  rispetto  al
 servizio   e   alla   disciplina   militare.  Dai  testimoni,  e  per
 dichiarazioni  degli  stessi  imputati,  si   e'   appreso   che   il
 Finocchiaro,  militare  dal  breve  servizio,  portava  in  testa  il
 berretto militare con delle scritte all'interno  e  con  il  frontino
 piegato  verso  il  basso,  come  consentito ai soli anziani. Per far
 rispettare la tradizione, il soldato anziano Mazzeo Massimiliano, con
 zelo  degno  di  migliore causa, si era impadronito del berretto, che
 era poi passato di  mano  in  mano,  mentre  il  Finocchiaro  cercava
 infruttuosamente  di  rientrarne  in  possesso,  sino  a  giungere al
 caporale  Lazzaron.  Questi,  profittando  dell'alta  statura,  aveva
 tenuto  il  berretto in alto con il braccio disteso, cosi' da rendere
 inutili, ed anche un po' ridicoli, i tentativi di recupero  da  parte
 del Finocchiaro. Il soldato, piuttosto contrariato, si era rivolto al
 graduato con espressioni e la cadenza tipiche della sua  Sicilia.  Il
 veneto  Lazzaron, a questo punto, aveva apostrofato il soldato con le
 espressioni "africano, terrone,  pecoraio,  figlio  di  pecoraio",  e
 confermato  il  suo  intendimento  di  non  restituire,  ed  anzi  di
 "strappare" il berretto. Subito dopo venivano in essere, da una parte
 e  dall'altra,  le  altre  espressioni  ingiuriose e minacciose, e le
 violenze descritte in epigrafe.
    Nel  dibattimento  il  Lazzaron  ha  affermato  che era suo dovere
 impedire al Finocchiaro di tenere il berretto in  quella  condizione.
 Ma, di certo, il suo comportamento iniziale (per le modalita' con cui
 al Finocchiaro e' stato tolto il berretto, per quel gesto  di  tenere
 il  berretto in alto, ecc.) possiede, piuttosto, tutti i requisiti di
 un sopruso, peraltro  non  cosi'  grave  come  altri,  perpetrato  in
 collaborazione con gli altri anziani a danno del Finocchiaro.
    Pertanto, dal momento che il descritto contatto tra il caporale ed
 il soldato non puo' in alcun modo essere inquadrato nelle  relazioni,
 tipicamente   militari,  del  servizio  e  della  disciplina,  questo
 tribunale ritiene che i fatti di ingiuria, minaccia e violenza  siano
 venuti  tutti  in  essere  "per  cause  estranee  al  servizio e alla
 disciplina".
    In     definitiva,     le     norme     incriminatrici    speciali
 sull'insubordinazione  e  abuso  di  autorita'  nella   specie   sono
 applicabili  nonostante i fatti siano stati posti in essere per cause
 estranee al servizio e alla disciplina,  solo  perche'  il  luogo  di
 realizzazione dei medesimi e' stato la caserma.
    2.  -  Con ordinanza 14 novembre 1989 questo tribunale, chiamato a
 giudicare un soldato che, nella camerata ed in un  contesto  estraneo
 al servizio e alla disciplina militare, aveva indirizzato insulti nei
 confronti  del  caporale  che  poco  prima  lo  aveva   violentemente
 "sbrandato",  sollevava  questione  di  legittimita'  costituzionale,
 lamentando che, per il disposto degli artt. 228, secondo comma, e 198
 del  c.p.m.p.,  al militare stesso, cui per l'ingiuria era attribuito
 il reato speciale configurato dall'art. 189 del c.p.m.p.,  non  fosse
 applicabile  l'esimente  di  aver agito nello stato d'ira determinato
 dal fatto ingiusto altrui e subito dopo di esso.
    Con   la  sentenza  n.  278  in  data  23  maggio  1990  la  Corte
 costituzionale ha dichiarato non fondata la questione, e nel contempo
 ha  suggerito  al  giudice  di  merito  la possibilita' di riproporla
 "argomentando ex art. 199 del c.p.m.p". La Corte, piu'  precisamente,
 dopo  aver  stabilito  che,  in  considerazione  del  bene  giuridico
 tutelato  (la  disciplina  militare),  non  e'  affatto  lesiva   del
 principio  di  uguaglianza  la previsione secondo cui la provocazione
 non   costituisce   causa   di   non   punibilita'   dei   reati   di
 insubordinazione  con  ingiuria  e  di  ingiuria  ad un inferiore, ha
 manifestato comprensione  per  il  disagio  del  giudice  remittente,
 costretto a pronunciare condanna nei confronti di chi, vittima di una
 violenza,  aveva  subito  reagito  con  nient'altro  che  un'ingiuria
 verbale  all'indirizzo  del superiore violento. Da qui l'invito ad un
 esame critico sugli elementi decisivi,  a  norma  dell'art.  199  del
 c.p.m.p.,  per  l'applicabilita'  della normativa speciale, piuttosto
 che di quella comune, nella quale, al contrario, la  provocazione  e'
 configurata come esimente dell'ingiuria.
    Viene  posto,  in  tal  modo,  un  problema di piu' ampio respiro,
 perche' non si tratta tanto di sottoporre a vaglio critico  questa  o
 quella  deroga rispetto alla normativa comune, ma piuttosto i criteri
 di carattere generale che definiscono l'ambito di operativita'  della
 normativa  speciale nel suo insieme. Come e' ben evidente e rilevante
 anche nel presente procedimento, la  diversita'  di  regolamentazione
 investe  il  trattamento  sanzionatorio,  che per i reati speciali e'
 piu' severo; la procedibilita' che e' sempre d'ufficio nei  reati  di
 insubordinazione  e  di abuso di autorita', mentre e' a richiesta del
 comandante  (art.  260  del  c.p.m.p.)  per  i  piu'  lievi   tra   i
 corrispondenti  reati militari comuni (artt. 222 e 229 del c.p.m.p.);
 le circostanze aggravanti ed attenuanti; la causa di non  punibilita'
 della  provocazione,  i  cui  estremi  nella specie sussisterebbero a
 favore  del  Finocchiaro  per  l'ingiuria  con  cui  ha  reagito  nei
 confronti  del  caporale;  quella  della  ritorsione che nella specie
 potrebbe profilarsi a favore di uno o di entrambi gli offensori; ecc.
    3.  -  In  origine,  l'art. 199 stabiliva l'inapplicabilita' delle
 norme sull'insubordinazione ed abuso di autorita' nel  solo  caso  di
 fatti   commessi   "a  causa  d'onore,  nelle  circostanze,  indicate
 nell'art. 587 del  codice  penale".  Non  a  sproposito,  dunque,  si
 parlava  di  "indelebilita'" del rapporto gerarchico, destinato a non
 avere   rilievo   solamente   nella    particolarissima    situazione
 suaccennata.
    Ora,  a  seguito  del  riordinamento operato dalla legge 26 aprile
 1985,  n.  689,  al  centro  della  disposizione  e  della   relativa
 problematica  si collocano, come si e' gia' visto, le "cause estranee
 al servizio e alla disciplina militare".
    E'  chiaro  come  la  casualita'  in  discorso non possa avere una
 prevalente dimensione psicologica (il  che  avveniva  per  la  "causa
 d'onore")  e debba invece essere individuata in un ambito prettamente
 oggettivo. In questo senso, per cause si intendono le  condizioni,  i
 fatti antecedenti e la concreta situazione ed occasione del reato. E'
 pure evidente che, alla stregua di questa nozione oggettiva di causa,
 il  piu' della volte in relazione al reato che e' venuto in essere si
 individuano piu' cause di diversa natura, sia intranee  che  estranee
 al servizio e alla disciplina militare.
    Pertanto,  la  disposizione  dell'art.  199, in quanto destinata a
 delimitare l'ambito di applicabilita'  di  norme  incriminatrici  che
 tutelano  la  disciplina militare e per il tramite di quest'ultima lo
 stesso  servizio,  o  addirittura  volta  a  definire  gli   elementi
 costitutivi  dei  relativi  reati, deve essere interpretata nel senso
 che le norme speciali non operano solamente quando, tra le cause  del
 reato,  non  ve  ne sia alcuna intranea al servizio o alla disciplina
 militare.   In    altri    termini,    si    applicano    le    norme
 sull'insubordinazione  e abuso di autorita' quando, pur risultando il
 reato commesso anche  per  cause  di  diversa  natura,  tra  i  fatti
 antecedenti  al  medesimo  vi  sia  comunque  lo  svolgimento  tra il
 superiore  e  l'inferiore  di  una  specifica  relazione  tipica  del
 servizio o della disciplina militare.
    Secondo  la ricostruzione della vicenda compiuta da questo giudice
 di merito, i reati  di  Lazzaron  e  Finocchiaro  non  rivelano  che,
 nell'ambito  delle circostanze che li hanno preceduti e condizionati,
 vi  sia  stata  l'esplicazione  tra  i  due  soggetti  del   rapporto
 gerarchico  di  una  qualsiasi  specifica  relazione di servizio o di
 disciplina. Proprio per questa ragione, per quest'esclusiva  presenza
 di cause di diversa natura, essi risultano essere stati commessi "per
 cause estranee al servizio e alla diciplina militare".
    Il  rilievo  attribuito all'estremita', o intraneita', delle cause
 rispetto alla disciplina e al servizio appare coerente soluzione  per
 definire  l'estensione  di  norme  incriminatrici  che,  come  si  e'
 accennato,  proprio  la  disciplina  e  indirettamente  il   servizio
 intendono  tutelare. E' chiaro, dunque, che il riferimento agli altri
 elementi  -  la  presenza  di  militari  riuniti  per  servizio,   la
 commissione  dei fatti ad opera di militare in servizio, o a bordo di
 navi o aeromobili o in altri luoghi militari - ognuno  dei  quali  di
 per  se' sono sufficiente a rendere applicabile la speciale normativa
 prescindendo dalla natura delle cause, crea delle  gravi  complessive
 disarmonie,  del  resto  bene  messe  in  evidenza dalla dottrina, in
 quanto nessuno di questi elementi puo' essere cosi' significativo  di
 una lesione della disciplina da controbilanciare la sicura carenza di
 questa specifica lesivita', che deriva dall'assenza di una  qualsiasi
 causa intranea al servizio e alla disciplina medesima.
    Si tratta, a parere di questo tribunale, di una tutela anticipata,
 predisposta peraltro sulla base di astratte presunzioni,  che  appare
 in  contraddizione  con  il  principio  di  uguaglianza (art. 3 della
 Costituzione):  il  fatto  commesso  a   danno   del   superiore,   o
 dell'inferiore,  per  cause  estranee  al  servizio e alla disciplina
 militare non puo' in alcun caso, per  effetto  dei  cennati  elementi
 insignificanti,  rientrare nella stessa regolamentazione prevista per
 quello posto in essere per cause intranee, e  deve  piuttosto  essere
 assimilato  ai  comuni  fatti  di  ingiuria, minaccia e violenza pure
 previsti dalla legge penale militare (artt. 222 e 229 del  c.p.m.p.).
    D'altra   parte,   se  per  tutelare  la  disciplina  militare  e'
 necessaria una normativa derogatoria rispetto a quella comune, e  tra
 l'altro  sino  al  punto di legittimare la condanna della vittima che
 solo  con  l'ingiuria  ha  reagito  nei  confronti  del  superiore  o
 inferiore  violento,  allora non v'e' dubbio che altrettanto rigoroso
 debba essere l'accertamento sui presupposti della normativa medesima:
 lo  esige il rispetto dei diritti della persona, che nell'ordinamento
 militare non possono avere  importanza  minore  che  nell'ordinamento
 generale (art. 52, ultimo comma, della Costituzione).
    Questo  tribunale,  in  definitiva,  ritiene  di  dover  sollevare
 questione di legittimita' costituzionale dell'art. 199 del  c.p.m.p.,
 in relazione agli artt. 3 e 52 della Costituzione.