IL TRIBUNALE
   Ha pronunciato la seguente ordinanza nella controversia individuale
 di lavoro promossa da Scatolificio Mosca S.n.c., corrente  in  Genova
 ed  ivi elettivamente domiciliata in via XII Ottobre, 10/13, presso e
 nello studio dell'avv. G.C. Raimondo che la rappresenta e difende per
 mandato   in  atti,  appellante,  contro  I.N.P.S.,  in  persona  del
 presidente pro-tempore, con sede in Roma ed elettivamente domiciliato
 in  Genova, rappresentato e difeso dal dott. proc. Antonietta Coretti
 in forza di procura generale alle liti 15 febbraio 1988  notaio  Lupo
 di Roma, appellato.
                             O S S E R V A
    1. - L'appellante ha proposto il gravame con ricorso depositato in
 cancelleria il 17 gennaio 1990 avverso una  sentenza  non  notificata
 dal pretore di Genova, pubblicata il 23 dicembre 1988; della avvenuta
 pubblicazione era  stata  data  comunicazione  al  procuratore  dello
 Scatolificio   Mosca  con  avviso  notificato  il  17  gennaio  1989.
 L'I.N.P.S.   eccepisce   preliminarmente   l'inammissibilita'   della
 impugnazione  perche'  proposta  dopo  il decorso del termine annuale
 previsto dall'art. 327 del c.p.c., norma che stabilisce il decorso di
 tale  termine  a far data dalla pubblicazione della sentenza (essendo
 nelle cause  di  lavoro  inapplicabile  la  sospensione  feriale  dei
 termini che comporterebbe una proroga).
    Parte  appellante replica sostenendo la tempestivita' dell'appello
 in  quanto  proposto   entro   l'anno   dalla   comunicazione   della
 pubblicazione   della   sentenza,   ed   eccependo  in  subordine  la
 illegittimita' costituzionale dell'art. 327 del c.p.c. nella parte in
 cui fa decorrere il termine dalla pubblicazione stessa anziche' dalla
 comunicazione di essa.
    Il tribunale deve innanzi tutto rilevare che l'art. 327 del c.p.c.
 e' applicabile anche alle cause trattate  con  il  rito  del  lavoro,
 nulla  disponendo  in  contrario  l'art.  434  del  c.p.c. ed essendo
 applicabili  le  norme  generali  del  codice  dove  esse  non   sono
 specificatamente   derogate.  Inoltre  va  rilevato  che  la  lettera
 dell'art. 327 non consente l'interpretazione datane  dall'appellante,
 perche'  la  espressa  menzione, come momento iniziale per il decorso
 del termine, della "pubblicazione" della  sentenza  non  consente  di
 sostituire   a  tale  evento  un  fatto  diverso  e  cronologicamente
 posteriore.
    In  conseguenza  l'impugnazione  proposta dallo Scatolificio Mosca
 appare tardiva, ed acquista quindi rilevanza in causa l'eccezione  di
 illegittimita'  costituzionale della decorrenza contenuta nella norma
 impugnata, posto che il gravame e' stato proposto entro l'anno  dalla
 comunicazione dell'avvenuta pubblicazione.
    2.  -  Il  problema  sollevato  nella presente causa e' gia' stato
 sottoposto  da  questo  tribunale  alla  Corte   costituzionale   con
 ordinanza  in data 24 gennaio 1990, causa Fazia c/ Bertone; come gia'
 evidenziato in tale  occasione,  occorre  valutare  la  esistenza  di
 numerosi  termini processuali, taluni anche di durata assai ampia (ad
 es. i termini semestrali di cui agli art. 125- bis, 129- bis e 133bis
 delle disp. att. del c.p.c.), decorrenti dalla comunicazione di fatti
 rilevanti anziche' dall'accadimento di questi, e  la  tendenza  della
 Corte costituzionale, nel corso degli anni, ed estendere il principio
 che il termine inizia a decorrere dalla conoscenza del  fatto,  cioe'
 da  quando la parte e' in grado di agire in conseguenza (in tal senso
 si vedano le sentenze Corte costituzionale nn.   159/1971,  255/1974,
 15/1977, 102/1986 e 120/1986).
    D'altro  canto  in numerosi casi sono tutt'ora previsti decorrenze
 processuali da eventi che non debbono essere previamente  comunicati,
 ed  e'  controverso che nella legislazione e nella giurisprudenza sia
 evidenziabile un principio generale della necessita' di  comuncazione
 per  l'inizio  del  decorso  dei  termini;  in  particolare  e' stato
 sottolineato il fatto  che  in  genere  gli  interventi  della  Corte
 costituzionale  hanno avuto luogo in presenza di termini molto brevi,
 in cui era facilmente ravvisabile un pregiudizio a danno della  parte
 non  a  conoscenza  del  verificarsi dell'evento iniziale, mentre nel
 caso in esame il termine inosservato ha durata annuale, ed e'  quindi
 tale   da   consentire,   con   l'uso  dell'ordinaria  diligenza,  la
 proposizione tempestiva del gravame anche senza previa  comunicazione
 della pubblicazione della sentenza.
    Il  concetto  dell'ordinaria  diligenza  e' stato richiamato anche
 dalla Corte costituzionale, ad es. nella sentenza n. 15/1977, dove si
 osserva   che   il  pregiudizio  della  difesa  (per  mancanza  della
 comunicazione dell'avvenuta fissazione della udienza  di  discussione
 nelle cause di lavoro in sede di gravame ai sensi dell'art. 435/2 del
 c.p.c.) "neppure puo' essere (sempre) evitato con l'uso della normale
 diligenza  da  parte del procuratore". Su tale argomento si e' basata
 la giurisprudenza della Cassazione  (s.u.  n.  3501/1979;  si  vedano
 anche  le sentenze nn. 6412/1979, 5819/1984 e 2799/1987, quest'ultima
 della sezione lavoro) per affermare la manifesta  infondatezza  della
 questione qui in esame, in quanto la ampiezza particolare del termine
 impedirebbe ogni pregiudizio, purche' venga per  l'appunto  posta  in
 essere  l'ordinaria diligenza del procuratore (che effettui periodici
 controlli in cancelleria).
    3.  -  Il tribunale deve innanzi tutto rilevare che l'art. 327 non
 e' l'unica norma che stabilisca un  termine  per  l'impugnazione:  la
 prima  e'  piu'  normale  regola  per  la proposizione del gravame e'
 dettata dall'art. 434 (in tema di processo di  lavoro),  applicazione
 particolare,  per  la  parte  che  interessa in questa sede, del piu'
 generale principio dell'art. 326 del c.p.c., secondo cui  il  termine
 decorre  dalla  notificazione  della sentenza (salve le ipotesi degli
 artt. 395, 397  e  404,  in  cui  comunque  la  decorrenza  e'  dalla
 conoscenza   del  fatto  idoneo  a  mettere  in  moto  il  meccanismo
 processuale). L'art. 327, invece, introduce, un ulteriore  principio,
 secondo  cui  si forma il giudicato per il solo fatto obiettivo della
 mancanza di impugnazione entro un anno (salve anche  qui  le  ipotesi
 degli artt. 395, 397 e 404).
    In   questo   caso  si  prescinde  da  ogni  forma  di  conoscenza
 dell'esistenza  dell'atto  impugnabile,  anche  nei   confronti   del
 contumace  (tranne  i casi espressamente previsti dal capoverso della
 norma,  relativi  a   mancanza   di   effettiva   instaurazione   del
 contraddittorio).
    La ratio di una disposizione tanto singolare e' palesemente quella
 di consentire la definizione dei rapporti attraverso  una  formazione
 del  giudicato  entro  il termine tassativo (anche se poi la certezza
 conseguente non potra' mai essere completa, potendo sempre sollevarsi
 dal  contumace  questioni  in  ordine alla instaurazione del rapporto
 processuale); ma nei confronti  della  parte  costituita  il  sistema
 funziona   in  maniera  completa,  con  un  vero  e  proprio  effetto
 saracinesca.
    Vi  sarebbe  da chiedersi se tale disposizione sia compatibile con
 il sistema del processo civile, tutto improntato  alla  regola  della
 disponibilita'  di parte su tutto cio' che abbia affetti sostanziali,
 principio vigente anche nel processo del lavoro.
    Ma   l'indubbia  anomalia  -  che  non  significa  automaticamente
 illegittimita' costituzionale - della disposizione esula dal tema del
 presente giudizio, in cui non e' coinvolto l'intero art. 327, ma solo
 il momento iniziale del termine in esso contenuto.
    4.  -  La  Corte  costituzionale  ha  ripetutamente  avuto modo di
 affermare (si vedano le sentenze sopra citate) che il pieno esercizio
 del  diritto  di  difesa,  garantito dall'art. 24 della Costituzione,
 postula la  possibilita'  di  utilizzare  "nella  sua  interezza"  il
 termine  stabilito  dalla legge per il compimento di un atto; cio' "a
 maggior ragione" se il termine e' breve (sentenza 12  novembre  1974,
 n.  255),  cosa  che  dimostra  come  tale  brevita'  sia un elemento
 rafforzativo dell'argomentazione, ma non costituisce per cio'  stesso
 il  motivo  esclusivo  della decisione: quindi il termine deve essere
 goduto nella sua interezza anche se esso non e' breve, come  conferma
 la decisione della stessa Corte costituzionale 6 luglio 1971, n. 159,
 che ha ritenuta illegittima la decorrenza  dell'evento  interruttivo,
 anziche' dalla conoscenza di esso, prevista dall'art. 305 del c.p.c.,
 del termine, che e' stabilito in sei  mesi  ed  appare  quindi  assai
 ampio.
    La   fattispecie   esaminata  da  quest'ultima  sentenza  presenta
 caratteri di diversita'  rispetto  a  quella  attualmente  in  esame,
 perche'  il fatto previsto dall'art. 305 ha caratteri di eventualita'
 laddove la pubblicazione della sentenza dopo la sua pronuncia  e'  un
 fatto  sicuro (entro un periodo di tempo sufficientemente contenuto);
 ma  il  collegamento  fra  tutte  le  ipotesi   in   cui   la   Corte
 costituzionale  ha  stabilito  la necessita' del godimento intero del
 termine e la esistenza di termini processuali assai ampi  in  cui  la
 legge  o  la  Corte  hanno  stabilito  la  decorrenza della effettiva
 conoscenza costituisce certamente un elemento di  considerevole  peso
 argomentativo  in favore della eccepita illegittimita' dell'art. 327.
    5.  -  Di  fronte  a  tale argomentazione l'opposta tesi poggia in
 sostanza su  un  unico  pilastro:  il  termine  annuale  e'  tale  da
 consentire comunque la sua osservanza.
    Ma un discorso assolutamente analogo potrebbe farsi per il termine
 semestrale;  d'altra  parte  quale   dovrebbe   essere   il   termine
 imcompatibile con l'ordinaria diligenza? L'art. 327 rischia di essere
 elemento di confusione, anziche' di certezza dei rapporti.
    Occorre  anche osservare che l'attesa della comunicazione potrebbe
 essere sempre ritenuta come comportamento non negligente da parte del
 procuratore  se  si  considera che tale adempimento di cancelleria e'
 atto dovuto, la cui  omissione  od  ingiustificato  ritardo  potrebbe
 provocare   ulteriori   questioni  in  tema  di  responsabilita'  del
 funzionario e dello Stato, ad  ulteriore  smentita  dello  scopo  che
 l'art. 327 si propone.
    La  comunicazione  di cancelleria, d'altra parte, risponde a varie
 funzioni, in quanto essa vale a mettere le parti  -  compresa  quella
 vincitrice  -  a conoscenza del contenuto stesso della decisione, per
 quanto attiene al processo ordinario, nonche', in questo ed in quello
 del  lavoro, in grado di sapere che possono avere inizio le attivita'
 processuali ulteriori: esecuzione, regolarizzazionefiscale  ed  anche
 impugnazione,  come  la  stessa  dottrina piu' autorevole ha posto in
 luce.
    E  non  si  riesce  a  ravvisare  alcun  motivo  fondato  per  cui
 l'efficacia  informativa  dovrebbe  essere  disgiunta  da  quella  di
 provocare  l'inizio  di decorso di un termine, che tale informazione,
 nei  fatti,  comunque  presuppone,  non  potendosi  in  nessun   caso
 seriamente  ipotizzare  una impugnazione proposta contro una sentenza
 non ancora depositata (a parte il caso, ben diverso, dell'art. 431/3,
 limitato e rivolto ad altri scopi).
    Per  cui,  in  definitiva, non si vede a quale scopo sarebbe stato
 previsto l'obbligo di comunicazione  ("immediata"  nel  processo  del
 lavoro: art. 430 del c.p.c.; entro il termine brevissimo nel processo
 ordinario: art. 133/2 del c.p.c.,  disposizioni  tutte  di  carattere
 ordinatorio e non tali da comportare differenze sostanziali tra i due
 regimi); se poi essa fosse del tutto  indifferente  rispetto  ad  uno
 degli scopi principali per i quali puo' viceversa essere utile.
    E  cio'  tanto  piu'  in  quanto,  per  i  ben  noti  problemi  di
 funzionalita' degli uffici  giudiziari,  nessuna  fondata  previsione
 puo'  farsi  sulla  data  in  cui  avverra'  la  pubblicazione  della
 sentenza.
    6.  -  Per  le  ragioni  sopra  esposte la questione del possibile
 contrasto fra l'art. 327/1 del c.p.c. e l'art. 24 della Costituzione,
 non  si  presenta  come  manifestamente infondata, e quindi, ai sensi
 dell'art. 1 della legge costituzionale 9 febbraio 1948,  n.  1,  essa
 deve  essere  rimessa  al  giudizio  della Corte costituzionale, alla
 quale soltanto spetta di decidere sulla fondatezza o meno.