Ricorso  della  regione  Lombardia, in persona del presidente della
 giunta regionale ing. Giuseppe Giovenzana, autorizzato  con  delibera
 della  giunta regionale n. V/2719 del 30 novembre 1990, rappresentato
 e difeso dagli avvocati prof. Valerio Onida  e  Gualtiero  Rueca,  ed
 elettivamente  domiciliato  presso  quest'ultimo in Roma, largo della
 Gancia, 1, come da delega a margine  del  presente  atto,  contro  il
 Presidente   del   Consiglio   dei   Ministri   pro-tempore   per  la
 dichiarazione  di  illegittimita'  costituzionale  della   legge   19
 novembre 1990, n. 334, pubblicata nella Gazzetta Ufficiale n. 270 del
 19  novembre   1990,   concernente   "Conversione   in   legge,   con
 modificazioni,  del  d.-l.  15 settembre 1990, n. 262, recante misure
 urgenti per il finanziamento del saldo della maggiore spesa sanitaria
 relativa  agli  anni  1987 e 1988 e disposizioni per il finanziamento
 della  maggiore  spesa  sanitaria  relativa   all'anno   1990",   con
 particolare riferimento agli artt. 2- bis e 3 del d.-l. medesimo come
 convertito in legge.
                               F A T T O
    L'art.  4  del  d.-l.  25  novembre  1989,  n. 382, convertito con
 modificazioni in legge 25 gennaio 1990, n. 8, aveva stabilito che  le
 regioni  determinassero "la maggiore spesa sanitaria corrente per gli
 esercizi finanziari 1987 e 1988" con i criteri e  le  modalita'  gia'
 disposte,  in  relazione alla spesa sanitaria per gli esercizi 1985 e
 1986, dal d.-l. 19 settembre 1987, n. 382,  convertito  in  legge  29
 ottobre 1987, n. 456 (sulla base cioe' di atti ricognitivi deliberati
 dagli organi di gestione dei servizi);  e  potessero  autorizzare  le
 u.s.l.  e gli altri enti di gestione dei servizi ad iscrivere fra gli
 impegni  degli  esercizi  finanziari  1987  e  1988  le  obbligazioni
 effettivamente  assunte  e  le  sopravvenienze  passive accertate, in
 eccedenza ai rispettivi stanziamenti di bilancio.
    La  maggiore spesa cosi' determinata era "finanziata dalle regioni
 e  dalle   province   autonome   mediante   l'impiego   delle   somme
 eventualmente  non  utilizzate,  a  valere sulle quote degli esercizi
 finanziari 1987  e  1988  del  fondo  sanitario  nazionale  di  parte
 corrente,  e  mediante  operazioni  di  finanziamento  con  onere  di
 ammortamento a carico del bilancio dello Stato, nella misura del  20%
 con  operazioni di mutuo da attivare entro il 31 dicembre 1989, e del
 35% con operazioni di mutuo da attivare nell'anno 1990".
    Il  quarto comma, ultima parte, di detto art. 4 stabiliva che "con
 successivo provvedimento  legislativo"  sarebbero  stati  determinati
 modalita'  e tempi per l'ulteriore finanziamento della maggiore spesa
 sanitaria per i predetti esercizi 1987 e 1988.
    Tale  provvedimento  si  inseriva  nella  cattiva prassi purtroppo
 ricorrente (e gia'  segnalata  da  questa  Corte  nella  sentenza  n.
 245/1984), per cui la spesa sanitaria viene regolarmente sottostimata
 in  via  preventiva,  definendo  l'ammontare  del   Fondo   sanitario
 nazionale  in  misura  inferiore al fabbisogno; le u.s.l. non potendo
 interrompere ne' ridurre l'erogazione dei servizi, accumulano  debiti
 piu'  o meno occulti; a posteriori si chiede di accertare tali debiti
 e i conseguenti disavanzi degli esercizi  pregressi,  provvedendo  al
 loro  ripiano  solo  in  ritardo,  spesso  in  modo  solo  parziale e
 incompleto,  e  rinviandone  l'onere  a  futuri   esercizi   mediante
 operazioni  di  ricorso  al  credito  (pur  trattandosi,  si noti, di
 coprire spesa corrente).
    In tale cattiva prassi erano state coinvolte le Regioni, nel senso
 di imporre loro la stipulazione dei mutui a  ripiano  dei  disavanzi,
 pero' con onere di ammortamento assunto a carico dello Stato.
    Il  d.-l. 15 settembre 1990, n. 262, ha dettato nuove disposizioni
 per la copertura dei disavanzi degli  esercizi  1987,  1988  e  1990.
 Mentre  per  i  primi due esercizi (artt. 1 e 2) si ricorre al solito
 metodo  della  copertura  mediante  mutui  regionali  con  onere   di
 ammortamento  a  carico dello Stato, dando luogo solo ad alcuni dubbi
 di legittimita' (dei  quali  si  dira'  piu'  avanti)  connessi  alla
 oscurita' del testo, per il 1990 invece si prevedeva un meccanismo di
 finanziamento delle spese eccedenti, in definitiva,  a  carico  della
 regione, attraverso mezzi propri, ovvero mediante alienazione di beni
 patrimoniali  disponibili,  o  infine  mediante  mutui   o   prestiti
 contratti dalla regione con onere di ammortamento a carico di questa.
    Stante  la palese violazione dell'autonomia finanziaria regionale,
 il d.-l. n. 262/1990 veniva impugnato davanti a  questa  Corte  dalla
 esponente regione, con ricorso iscritto al n. 66/1990 reg. ric.
    Ora  la  legge  n.  334/1990,  nel convertire in legge il d.-l. n.
 262/1990, via ha apportato alcune integrazioni e  modificazioni,  che
 pero'  non  fanno  venir  meno  le  ragioni  di  censura  che avevano
 costretto la regione ricorrente a impugnare il decreto-legge,  e  che
 anzi   per   certi   versi   estendono  e  aggravano  le  ragioni  di
 illegittimita' (cosi' con l'art. 2- bis aggiunto al decreto-legge  in
 sede di conversione).
    Pertanto  l'esponente  deve rinnovare l'impugnazione nei confronti
 della legge di conversione e del decreto-legge cosi' come convertito,
 illegittimi  e  lesivi  dell'autonomia  della  regione per i seguenti
 motivi di
                             D I R I T T O
    1. - Sull'art. 1 del decreto-legge.
    La  non  perspicua  disposizione  dell'art.  1,  primo  comma, del
 decreto-legge impugnato,  non  modificata  in  sede  di  conversione,
 sembra  doversi  intendere  nel  senso che i disavanzi delle gestioni
 sanitarie accertati per gli esercizi 1987 e 1988, per la  quota  (del
 45%) non coperta dalle operazioni di finanziamento previste dall'art.
 4 del d.-l. n. 382/1989, cioe' dai  mutui  stipulati  dalle  regioni,
 sono  finanziati mediante nuovi mutui, da stipulare dalle regioni nel
 1990 (per il 20% del disavanzo) e nel 1991 (per il residuo 25%),  con
 onere di ammortamento in ogni caso a carico dello Stato.
    Se  cosi'  e',  la  regione  non  ha  motivo  di  dolersi  di tale
 disposizione se non nei limiti di quanto si  dira'  a  proposito  del
 secondo comma.
    Tuttavia  la non chiara formulazione dell'art. 1, primo comma, che
 potrebbe far pensare ad un'assunzione solo parziale  da  parte  dello
 Stato  dell'onere  di ammortamento dei mutui a ripiano del disavanzo,
 induce la ricorrente regione a formulare, cautelarmente, una  censura
 di  illegittimita'  anche  nei  confronti  di  tale disposizione, per
 l'ipotesi in cui essa dovesse essere interpretata in senso diverso da
 quello prima accennato, nel senso cioe' che lo Stato assuma a proprio
 carico  solo  una  parte  dell'onere  di  ammortamento   dei   mutui,
 addossandone altra parte alla regione.
    Sarebbe   palese   infatti,   in  questa  ipotesi,  la  violazione
 dell'autonomia finanziaria regionale  nonche'  dell'art.  81,  quarto
 comma,  della  Costituzione  (anche  in riferimento all'art. 26 della
 legge n. 468/1z978 e all'art. 3, sesto comma, della legge  14  giugno
 1990,  n. 158), per avere lo Stato addossato alla regione un onere di
 copertura dei disavanzi delle u.s.l., in assenza di  adeguati  poteri
 di  governo  della  spesa  in  capo  alla  regione  medesima, e senza
 attribuire alla regione medesima le risorse necessarie (cfr. sentenze
 nn. 245/1984 e 452/1989).
    Il  secondo comma, ultima parte, dell'art. 1 prevede, in relazione
 ai mutui regionali di cui si e' parlato,  che  "non  si  applicano  i
 limiti  per l'assunzione di mutui previsti dalle vigenti disposizioni
 per le ragioni e le province autonome".
    Tale  disposizione  sembra  da  intendere nel senso che i mutui de
 quibus non incidono in alcun modo ai  fini  del  calcolo  del  limite
 massimo  dei  mutui che la regione puo' assumere (la quota annuale di
 ammortamento per l'insieme dei debiti non puo' superare  il  25%  del
 totale  annuo  delle  entrate tributarie della regione: art. 10 della
 legge n. 281/1970,  come  modificato  dall'art.  22  della  legge  n.
 335/1976;  e,  per l'elevazione del limite al 25%, art. 9 della legge
 n. 181/1982). Il "tetto" dell'indebitamento ammesso per  la  regione,
 in  altri  termini,  non  dovrebbe  variare  in  alcun modo a seguito
 dell'assunzione dei mutui in oggetto.
    Peraltro,  la  "non  applicazione"  dei limiti per l'assunzione di
 mutui potrebbe anche,  in  ipotesi,  intendersi  nel  senso  che  per
 effetto  di tali mutui i limiti in questione possono essere superati,
 ma che, comunque, i mutui stessi concorrono a determinare il  "tetto"
 di  indebitamento,  cosi'  che,  se la regione aveva un indebitamento
 inferiore al tetto del 25%, ma con l'assunzione dei mutui  a  ripiano
 del  disavanzo  sanitario  tale limite venga superato, la regione non
 avrebbe piu' la possibilita' di assumere altri mutui entro il margine
 che  risultava  non  utilizzato  prima  dell'assunzione  dei mutui in
 questione.
   Se  cosi'  fosse,  sarebbe  evidente  la  lesione  della  autonomia
 finanziaria della regione, nonche' dell'art. 81, quarto comma,  della
 Costituzione,  anche  in  riferimento  all'art.  26  della  legge  n.
 468/1978 e all'art. 3, sesto  comma,  della  legge  n.  158/1990,  in
 quanto l'assorbimento di una capacita' di indebitamento residua della
 regione si tradurrebbe indirettamente in un  accollo  di  onere  alla
 Regione  per  la  copertura dei deficit delle u.s.l., nuovo onere cui
 non corrisponde l'attribuzione di nuove risorse.
    Anche tale ultima disposizione, pertanto, viene censurata a titolo
 cautelare  dalla  ricorrente,  per  il  caso  in  cui  essa   dovesse
 interpretarsi   in  senso  lesivo  dell'autonomia  finanziaria  della
 regione.
    2. - Sull'art. 2- bis del decreto-legge.
    La legge di conversione ha aggiunto al decreto-legge un art. 2bis,
 del seguente tenore:
    "1.  Le  eccedenze  di  spesa  rispetto  alle entrate complessive,
 registrate dalle unita' sanitarie  locali  e  dagli  altri  enti  che
 erogano  assistenza  sanitaria  per l'esercizio 1989, sono coperte in
 via prioritaria con i proventi derivanti  dall'alienazione  totale  o
 parziale  dei  beni  patrimoniali di cui agli artt. 61, 65 e 66 della
 legge 23 dicembre 1978, n. 833, non soggetti a vincoli  di  qualsiasi
 natura.  I disavanzi delle unita' sanitarie locali e degli altri enti
 che  erogano  assistenza  sanitaria  che  non  dispongono   di   beni
 patrimoniali   alienabili  e  le  eventuali  eccedenze  che  non  sia
 possibile coprire con le alienazioni di cui sopra, determinati  dalle
 regioni  e province autonome con criteri e modalita' da definirsi con
 decreto del Ministro della sanita' di concerto con quello del tesoro,
 sono  ripianati  dalle  regioni  mediante  operazioni  di  mutuo,  da
 stipulare nel secondo semestre dell'anno 1992, con le aziende  e  gli
 istituti  di  credito  ordinario  e  speciale individuati da apposito
 decreto del Ministro del tesoro, che ne definisce anche la  durata  e
 le  modalita'.  Le  regioni  e le province autonome fanno fronte agli
 oneri di ammortamento, valutati in lire 1.500  miliardi  a  decorrere
 dal 1993, con specifiche quote del fondo sanitario nazionale all'uopo
 previste e vincolate  a  decorrere  dall'anno  1993.  Sugli  atti  di
 alienazione vigila una commissione nominata dalla regione o provincia
 autonoma  e  presieduta  da   un   magistrato   delle   giurisdizioni
 amministrative  che  si  avvale  delle  valutazioni dei locali uffici
 tecnici erariali".
    Ora,   non  puo'  non  colpire,  anzitutto,  l'assurdita'  di  una
 disposizione che, al fine  di  coprire  i  disavanzi  delle  gestioni
 sanitarie - causati peraltro per lo piu' dalla consapevole sottostima
 preventiva del fabbisogno e quindi del fondo  sanitario  nazionale  -
 impone di vendere il patrimonio.
    Nessuna  famiglia  assennata  penserebbe  di vendere il patrimonio
 familiare per coprire un deficit che si crea nella gestione  corrente
 della casa.
    E'  evidente  infatti  che, se il deficit riguarda le entrate e le
 spese correnti, esso non e' un  fatto  occasionale  (e  infatti,  per
 quanto  riguarda  le u.s.l., si ripete e si aggrava di anno in anno),
 ma strutturale: coprirlo con una entrata  patrimoniale  straordinaria
 significa  da  un  lato  impoverire  in  modo permanente il soggetto,
 dall'altro lato limitarsi a tamponare un problema che  si  ripresenta
 tal quale l'anno dopo.
    Senza  dire  che,  essendo  gli  enti  obbligati  a  cedere i beni
 patrimoniali,  e'  molto  probabile  che  questi  vengano   svenduti,
 anziche' ceduti vantaggiosamente.
    La  copertura  del disavanzo mediante vendita di beni che in molti
 casi,  com'e'  ben  noto,  sono  pervenuti  agli   enti   interessati
 attraverso  secoli  di liberalita' a favore degli ospedali, significa
 dissipare  un  patrimonio  prezioso  senza  giustificazione  e  senza
 contropartita:  quanto  cioe'  di piu' dissennato, e di meno conforme
 alle regole di buona amministrazione, si possa immaginare.
    Nella  specie, poi, si prevede la vendita sia di beni patrimoniali
 da reddito trasferiti ai comuni  con  vincolo  di  destinazione  alle
 u.s.l. (art. 66, primo comma, lett. b), della legge n. 833/1978), sia
 di beni patrimoniali destinati all'esercizio delle funzioni sanitarie
 (art.  61,  terzo  comma, lett.  a), art. 65, primo comma, e art. 66,
 primo comma, lett. a), della legge n. 833/1978).
    In entrambi i casi la vendita provoca una diminuzione di entrate o
 un aumento di spesa  a  carico  delle  u.s.l.  Infatti  i  redditi  e
 proventi  netti  dei  beni  patrimoniali  erano  confluiti  nel fondo
 sanitario nazionale (art. 69, primo comma, lett. c), della  legge  n.
 833/1978),  e  comunque  di  tali  entrate  si  era  tenuto conto del
 calcolare il fondo e le relative quote: pertanto il  venir  meno  dei
 redditi  si  traduce  in  una  minore  entrata  permanente  alla  cui
 copertura il legislatore statale non ha  provveduto  (violando  cosi'
 l'art. 81, quarto comma, della Costituzione).
    Quanto  ai  beni  destinati ai servizi sanitari, e' ovvio che essi
 non  possano  essere  ceduti  e  che,  se  lo  fossero,   le   u.s.l.
 incontrerebbero   nuove  spese  per  doversi  procurare  (ad  esempio
 mediante locazioni) beni che li sostituiscano. Anche in  questo  caso
 dunque  avremmo  un  nuovo  onere  a carattere continuativo, alla cui
 copertura non si e' provveduto.
    La previsione poi, di una commissione, presieduta da un magistrato
 delle  giurisdizioni  amministrative,  che  "vigila"  sugli  atti  di
 alienazione e' lesiva dell'autonomia organizzativa della regione.
   Per  i  disavanzi  non  suscettibili  di  essere coperti mediante i
 proventi delle alienazioni, l'art. 2- bis in esame prevede  che  essi
 siano  ripianati  dalle  Regioni,  mediante  operazioni  di  mutuo da
 stipularsi con gli istituti e alle condizioni stabilite dal  Ministro
 del tesoro.
    Gia'  qui  e'  dato  di  scorgere  una  violazione  dell'autonomia
 finanziaria e contabile della regione, che  dovrebbe  indebitarsi,  e
 farlo per di piu' a condizioni stabilite dal Ministro.
    All'onere  dei mutui, addossato alla regione, non fa riscontro poi
 alcuna attribuzione di risorse. Vero e' che l'art.  2-  bis  prosegue
 prevedendo  che  si  faccia  fronte  agli  oneri di ammortamento "con
 specifiche quote del Fondo sanitario nazionale  all'uopo  previste  e
 vincolate a decorrere dall'anno 1993".
    Ma,   poiche'   non  vi  e'  nessuna  garanzia  (e  nemmeno  alcun
 affidamento)  che  il  fondo,  a   partire   da   quell'anno,   venga
 adeguatamente incrementato - tanto e' vero che non e' nella legge, in
 violazione dell'art. 81, quarto  comma,  della  Costituzione,  alcuna
 copertura  dell'onere  che deriverebbe allo Stato dalla necessita' di
 dover incrementare  il  fondo  (l'art.  4  del  decreto-legge,  sulla
 copertura  finanziaria,  e  che  si riferisce al solo onere derivante
 dall'attuazione dell'art. 1, non  e'  stato  modificato  in  sede  di
 conversione  -,  in  realta'  la  disposizione in parola si traduce o
 rischia di tradursi in un gioco di  prestigio,  per  cui  si  vincola
 preventivamente  una  parte del Fondo nazionale (non incrementato), a
 partire dal 1993, a far fronte agli oneri di ammortamento dei  mutui,
 riducendo contestualmente le disponibilita' libere del fondo medesimo
 ripartito fra le regioni, e quindi semplicemente differendo nel tempo
 il puro e semplice addossamento alle regioni dell'onere del disavanzo
 delle u.s.l.
    Sull'art. 3 del decreto-legge.
    I  primi due commi dell'art. 3 del decreto, non modificati in sede
 di conversione, prevedono rispettivamente  che  "le  regioni  possono
 autorizzare   le  unita'  sanitarie  locali  e  gli  altri  enti  che
 gestiscono i servizi sanitari finanziati dalle  quote  regionali  del
 fondo   sanitario  nazionale  ad  assumere  impegni  per  l'esercizio
 finanziario 1990  anche  in  eccedenza  agli  stanziamenti  di  parte
 corrente  autorizzati con il bilancio di previsione, per provvedere a
 spese  improcrastinabili  e  di   assoluta   urgenza   entro   limiti
 prequantificati dalle regioni stesse per ciascun ente"; e che "per il
 finanziamento della spesa autorizzata in eccedenza ai sensi del primo
 comma,  le  regioni  possono autorizzare le unita' sanitarie locali e
 gli altri enti che gestiscono i servizi sanitari ad  assumere  con  i
 propri tesorieri anticipazioni straordinarie di cassa alle condizioni
 previste dalle convenzioni di tesoreria".
    All'originario  terzo comma dell'art. 3 la legge di conversione ha
 sostituito i seguenti quattro commi:
    "3.   La   spesa   effettivamente   sostenuta   a   fronte   delle
 autorizzazioni concesse ai sensi del primo comma, desunta  dai  conti
 consuntivi dei singoli enti, e gli oneri derivati dalle anticipazioni
 straordinarie di cassa di cui al secondo comma, sono assunti a carico
 delle regioni e province autonome e sono finanziati con operazioni di
 mutuo, fino alla concorrenza di L. 90.000 a cittadino  residente  per
 ciascuna  regione  o  provincia autonoma, con oneri di ammortamento a
 carico dello Stato.
    3-bis. Alla differenza residua si fa fronte:
       a) quanto al 25 per cento con oneri a carico del bilancio delle
 regioni e province autonome, che vi provvedono o con propri mezzi  di
 bilancio  o  mediante alienazioni di beni disponibili ovvero mediante
 la contrazione di mutui  o  prestiti  con  istituti  di  credito,  da
 assumere  anche  in  deroga  alle  limitazioni previste dalle vigenti
 disposizioni, avvalendosi, per la copertura delle  relative  rate  di
 ammortamento,  anche  delle  entrate  tributarie previste dall'art. 6
 della legge 14 giugno 1990, n. 158;
       b) quanto al restante 75 per cento mediante accensione di mutui
 con oneri di ammortamento a carico dello Stato.
    3-ter.  Le  operazioni di mutuo con oneri di ammortamento a carico
 dello Stato possono essere attivate con le  aziende  ed  istituti  di
 credito  ordinario  e  speciale  individuati  ai  sensi  dell'art. 4,
 secondo comma,  lett.  b),  del  d.-l.  25  novembre  1989,  n.  382,
 convertito,  con  modificazioni, dalla legge 25 gennaio 1990, n. 8, e
 secondo condizioni e durata stabilite ai sensi della norma  medesima;
 al   pagamento   delle  rate  di  ammortamento  provvedono  gli  enti
 mutuatari.
    3-quater.   All'onere   per   l'ammortamento   dei  mutui  per  il
 finanziamento della spesa di pertinenza  statale,  valutato  in  lire
 2.185  miliardi  a  decorrere dal 1972, gli enti mutuatari provvedono
 mediante utilizzo  di  quota  parte  del  fondo  sanitario  nazionale
 all'uopo prevista e vincolata".
    Il  finanziamento della maggiore spesa e quindi del disavanzo - al
 di la' del meccanismo delle anticipazioni straordinarie di cassa, che
 si  limita a spostare in avanti nel tempo l'onere, aggravandolo con i
 relativi interessi - e' affidato dunque, per  una  parte,  al  solito
 congegno dei mutui regionali con oneri di ammortamento a carico dello
 Stato.
   Ma  questo  finanziamento e' dichiaratamente solo parziale, poiche'
 esso e' commisurato al tetto massimo di L. 90.000 per ogni  cittadino
 residente  (terzo  comma),  mentre  il  comma 3- bis espressamente si
 riferisce alla "differenza residua".
    Tale  ulteriore disavanzo viene coperto ancora con mutui regionali
 il cui onere di ammortamento e' assunto dallo Stato  (comma  3-  bis,
 lett. b), ma solo limitatamente al 75%, mentre il 25% dovrebbe essere
 coperto "con oneri a carico del bilancio  delle  regioni  e  province
 autonome",  che  vi  dovrebbero  provvedere  "o  con  propri mezzi di
 bilancio o mediante alienazione di beni disponibili  ovvero  mediante
 la   contrazione   di   mutui   o  prestiti",  in  quest'ultimo  caso
 "avvalendosi, per la copertura delle relative rate  di  ammortamento,
 anche  delle  entrate  tributarie previste dall'art. 6 della legge 14
 giugno 1990, n. 158".
    Anche,  poi,  per  la parte finanziata da mutui con oneri a carico
 dello Stato  (comma  3  e  comma  3-  bis),  lett.  b),  l'assunzione
 dell'onere  da parte dello Stato e' solo apparente in quanto il comma
 3-quater stabilisce che  a  tali  oneri  si  faccia  fronte  mediante
 utilizzo di quota parte del fondo sanitario nazionale.
    Poiche',   anche   qui,  non  vi  e'  alcuna  garanzia  ne'  alcun
 affidamento che il fondo venga  incrementato,  a  partire  dal  1992,
 delle  somme  necessarie  (tanto  e'  vero  che non si prevede alcuna
 copertura del maggiore onere, cosi' violando l'art. 81, quarto comma,
 della Costituzione, essendosi lasciato invariato il testo della norma
 sulla copertura finanziaria, contenuta nell'art.4 del  d.l.,  che  fa
 riferimento  solo all'onere "derivante dall'attuazione dell'art. 1"),
 il meccanismo di finanziamento in questione rischia di rivelarsi  uno
 strumento   per  differire  semplicemente  nel  tempo  l'addossamento
 dell'onere alle Regioni;  queste,  a  partire  dal  1992,  potrebbero
 vedersi  attribuire  quote di un fondo non incrementato, con le quali
 dovrebbero pero' finanziare  necessariamente  (essendo  titolari  del
 debito contratto con i mutui) l'onere dei mutui in questione.
    In definitiva, dunque, il disavanzo, o comunque una quota cospicua
 del medesimo, e' posto  a  carico  non  gia'  dallo  Stato  ma  della
 regione, senza peraltro attribuire ad essa alcuna nuova risorsa.
    Ora,  questa  Corte  ha ripetutamente affermato in altre occasioni
 l'incostituzionalita' di disposizioni legislative statali che pongano
 l'onere  della  copertura  dei  disavanzi delle u.s.l. a carico delle
 regioni, in assenza di effettivi  e  sufficienti  poteri  di  governo
 della  spesa  sanitaria  in  capo  alle  regioni  medesimi,  e  senza
 l'attribuzione ad esse delle risorse necessarie.
    Nella  sentenza  n.  245/1984  la Corte osservo' che le competenze
 attribuite alle regioni  in  materia  sanitaria  non  bastano  a  far
 concludere   "che   le   amministrazioni   regionali  portino  dunque
 l'effettiva responsabilita' degli eventuali disavanzi delle  u.s.l.";
 che  "la  parte  essenziale  della spesa sanitaria ed ospedaliera non
 puo' non gravare sullo Stato... per l'evidente ragione che il diritto
 alla  salute spetta egualmente a tutti i cittadini e va salvaguardato
 sull'intero territorio nazionale", onde non e' causale che  la  spesa
 sanitaria  "sia  prevalentemente  rigida  e  non  si  presti a venire
 manovrata, in  qualche  misura,  se  non  dagli  organi  centrali  di
 governo";  che  "in  breve, gran parte della spesa sanitaria si forma
 indipendentemente   dalle   scelte   regionali   (e   dalle    stesse
 deliberazioni degli organi di gestione delle unita' locali)".
    Concludeva la Corte, censurando l'art. 29 della legge n. 730/1984,
 che "in realta', il  pie'  di  lista  permane  con  la  sola  novita'
 rappresentata dal subentrare delle Regioni in luogo dello Stato".
    Successivamente  il  legislatore  ricadde nella stessa tentazione,
 con l'art. 2, primo comma, della legge n. 37/1989, che  addossava  le
 eccedenze di spesa sanitaria alle regioni.
    Nuovamente   la   Corte  fu  costretta  ad  una  dichiarazione  di
 illegittimita'  costituzionale,  rilevando   che   si   trattava   di
 disposizione   "irragionevolmentelesiva   dell'autonomia  finanziaria
 delle Regioni", poiche' "la garanzia di  tale  autonomia...  comporta
 che  non  possano essere addossati al bilancio regionale... gli oneri
 derivanti da decisioni non imputabili alla regione stessa...  o  che,
 comunque,  dipendono  dall'esigenza  di tutelare interessi pubblici o
 diritti costituzionali dei cittadini la cui cura  e'  affidata  dalla
 Costituzione soltanto in parte - e non certo quella essenziale - alla
 regione" (sentenza n. 452/1989).
    Sempre  nella  stessa  sentenza la Corte rilevo' che la disciplina
 legislativa intervenuta successivamente a  quella  giudicata  con  la
 sentenza n. 245/1984 "non ha certo spostato a favore delle regioni la
 responsabilita' della spesa sanitaria".
    Ora, l'art. 3 del decreto-legge impugnato realizza precisamente di
 nuovo quell'accollo dell'onere del disavanzo  ai  bilanci  regionali,
 senza  attribuzione  di  risorse  corrispondenti,  che  la  Corte  ha
 giudicato inammissibile.
    E  certo non si puo' dire che, rispetto al momento in cui la Corte
 emano' le citate pronunce, qualcosa  sia  cambiato  nel  senso  della
 attribuzione  alle  regioni di maggiori poteri di governo della spesa
 sanitaria.
    Tutti i fattori principali della spesa sfuggono infatti, oggi piu'
 che mai, a qualsiasi potere determinativo o di governo della regione,
 e  sono, eventualmente, governabili solo da organi statali: cio' vale
 per l'identificazione delle prestazioni spettanti ai  cittadini,  per
 gli  organici  e  il  trattamento  del  personale, per il costo delle
 convenzioni dei medici generici e  degli  specialisti,  per  i  costi
 dell'assistenza farmaceutica, e cosi' via.
    Non  vale  a far venir meno l'illegittimita' il fatto che il primo
 comma, dell'art. 3, preveda, ipocritamente, che le  regioni  "possono
 autorizzare"  le  u.s.l.  ad assumere impegni in eccedenza alla quota
 del fondo sanitario ad esse spettante, e che  il  secondo  comma  del
 medesimo  art.  3  preveda, altrettanto ipocritamente, che le Regioni
 "possono   autorizzare"   le   u.s.l.   a   contrarre   anticipazioni
 straordinarie  di  cassa  col  proprio tesoriere per il finanziamento
 della spesa autorizzata in eccedenza.
    Che non si sia in presenza di una semplice facolta' della regione,
 che essa potrebbe esercitare o non esercitare discrezionalmente, e il
 cui  esercizio  quindi  possa legittimamente dar luogo all'assunzione
 del relativo onere da parte della regione medesima, e' reso del tutto
 evidente  dalla  stessa  disposizione  legislativa,  la quale prevede
 siffatte "autorizzazioni" per "provvedere a spese improcrastinabili e
 di   assoluta   urgenza".    Se   si   tratta,   infatti,   di  spesa
 improcrastinabile  e  di  assoluta  urgenza,  non  c'e'  spazio   per
 decisioni discrezionali; l'autorizzazione regionale non e' in realta'
 una  autorizzazione   a   spendere,   che   possa   essere   o   meno
 discrezionalmente  concessa,  ma  e'  una  semplice  autorizzazione a
 contabilizzare e a pagare spese  e  debiti  comunque  gia'  assunti,e
 quindi a far emergere un disavanzo che si e' comunque inevitabilmente
 creato (si tenga presente che siamo gia' alla fine del 1990, e quindi
 la  spesa  in eccedenza da "autorizzare" in realta' e' spesa in larga
 parte  gia'  intervenuta,  cui  corrispondono  debiti  delle   u.s.l.
 inevitabilmente  destinati  a tradursi in un disavanzo dell'esercizio
 1990).  Una riprova di cio' sta nel fatto che anche l'art.  4,  primo
 comma,  del decreto-legge n. 38/1989, che provvedeva ai disavanzi del
 1987 e del 1988, stabiliva che le regioni  "possono  autorizzare"  le
 u.s.l.  ad  iscrivere  tra  gli impegni degli esercizi 1987 e 1988 le
 obbligazioni  effettivamente  assunte   le   sopravvenienze   passive
 accertate in eccedenza ai rispettivi stanziamenti di bilancio: eppure
 a tali "autorizzazioni" conseguiva l'assunzione dell'onere dei mutui,
 necessari  per  ripianare il disavanzo, a carico dello Stato (art. 4,
 secondo comma).  In realta' anche il meccanismo disegnato dall'art. 3
 del   decreto-legge   n.   262/1990  non  e'  che  un  meccanismo  di
 ripianamento  del   disavanzo   "necessario"   (reso   tale,   cioe',
 dall'eccedenza  della  spesa  indispensabile  per  la continuita' dei
 servizi, rispetto alla entita' - sottostimata - del  Fondo  sanitario
 nazionale)  mediante  l'assunzione di mutui regionali: solo che, come
 si  e'  detto,  l'onere  di  ammortamento   dei   mutui   e'   posto,
 illegittimamente, a carico della regione anziche' dello Stato.
    La lesione dell'autonomia regionale e' dunque palese.
    La disposizione impugnata si riferisce, per il finanziamento della
 quota di oneri  posta  anche  formalmente  a  carico  della  regione,
 anzitutto  ai  "mezzi  di  bilancio" della regione: ma il bilancio di
 questa, come e' ben noto, e' totalmente impegnato per le altre  spese
 della  regione  medesima,  e  non  presenta alcuna disponibilita' non
 utilizzata.
    In  secondo  luogo  si  fa  riferimento  alla "alienazione di beni
 disponibili".
    Non  e'  chiaro  a quali beni si faccia riferimento: letteralmente
 sembrerebbe trattarsi di beni della regione, dato che e' la regione a
 dover   finanziare   gli   oneri   che   che  disposizione  in  esame
 esplicitamente afferma dover essere assunti " a carico  del  bilancio
 delle  Regioni  e Province autonome". Ma la regione non possiede beni
 patrimoniali alienabili a questo scopo|
    In realta' probabilmente il legislatore voleva alludere ai beni di
 cui agli artt. 61, 65 e 66 della legge  n.  833/1978,  trasferiti  ai
 comuni (o in Lombardia alle associazioni intercomunali che gestiscono
 le  u.s.l.).  Solo  che  la  vendita  di   tali   beni   dipende   da
 determinazioni  degli  enti  proprietari: la regione potrebbe al piu'
 autorizzarne la vendita;  e  questa  potrebbe  al  massimo  procurare
 qualche  risorsa  alle  u.s.l.  dipendenti dei comuni proprietari dei
 beni venduti, non alle altre.
    A  parte  cio',  valgono qui nuovamente le censure e gli argomenti
 che si sono esposti a proposito dell'analoga previsione dell'art.  2-
 bis   (e   che   devono   intendersi   qui   riprodotti),  in  ordine
 all'incongruita'  di  una  copertura  di  oneri   correnti   mediante
 l'alienazione  di  beni  patrimoniali, e alla mancata copertura delle
 minori entrate o delle maggiori spese conseguenti a tale alienazione.
    E'  dunque  evidente che l'alienazione di beni patrimoniali, oltre
 che essere del  tutto  insufficiente  a  coprire  i  disavanzi,  e  a
 richiedere  moltissimo tempo, e' strumento del tutto incongruo a tale
 scopo.
    Il legislatore d'altronde sa bene che non sono questi espedienti a
 poter fornire le risorse necessarie a coprire  il  deficit:  ed  ecco
 percio'  che  impone  il ricorso all'unico mezzo disponibile, cioe' i
 mutui a ripiano. Ma, ponendo l'onere di ammortamento a  carico  della
 regione,  non  fa  che  spostare  il  problema  in avanti: la regione
 infatti non ha le risorse necessarie per sostenere tale onere.
    Non  vale  certo  fare  richiamo alle "entrate tributarie previste
 dall'art. 6 della  legge  14  giugno  1990,  n.  158":  anzitutto,  e
 decisivamente,  perche'  tali  entrate non sussistono ancora, dovendo
 essere disciplinate da decreti legislativi  non  ancora  emanati;  in
 secondo  luogo  perche'  le  nuove  entrate previste sono destinate a
 compensare la riduzione  dei  trasferimenti  statali,  e  quindi  non
 metteranno  nuove  risorse  a  disposizione  delle  regioni; in terzo
 luogo, comunque, perche' tali entrate  saranno  assai  inferiori,  in
 generale  e  in  particolare  per  la regione ricorrente, all'importo
 della quota dei disavanzi sanitari e degli oneri di ammortamento  dei
 mutui a ripiano, che la regione dovrebbe accollarsi.
    Tanto  e'  vero che lo stesso legislatore statale, ben consapevole
 dell'assoluta insufficienza di tali risorse, si  limita  a  prevedere
 che  le regioni si avvalgano per la copertura dei nuovi oneri "anche"
 di dette entrate tributarie: ammette cioe' che, almeno in parte,  gli
 stessi oneri dovranno essere coperti con altre risorse della regione.
 Ma, appunto, cio' significa addossare alla regione nuovi oneri  senza
 provvedere alle risorse necessarie.