Ricorso della regione Lombardia, in persona del presidente della giunta regionale ing. Giuseppe Giovenzana, autorizzato con delibera della giunta regionale n. V/2719 del 30 novembre 1990, rappresentato e difeso dagli avvocati prof. Valerio Onida e Gualtiero Rueca, ed elettivamente domiciliato presso quest'ultimo in Roma, largo della Gancia, 1, come da delega a margine del presente atto, contro il Presidente del Consiglio dei Ministri pro-tempore per la dichiarazione di illegittimita' costituzionale della legge 19 novembre 1990, n. 334, pubblicata nella Gazzetta Ufficiale n. 270 del 19 novembre 1990, concernente "Conversione in legge, con modificazioni, del d.-l. 15 settembre 1990, n. 262, recante misure urgenti per il finanziamento del saldo della maggiore spesa sanitaria relativa agli anni 1987 e 1988 e disposizioni per il finanziamento della maggiore spesa sanitaria relativa all'anno 1990", con particolare riferimento agli artt. 2- bis e 3 del d.-l. medesimo come convertito in legge. F A T T O L'art. 4 del d.-l. 25 novembre 1989, n. 382, convertito con modificazioni in legge 25 gennaio 1990, n. 8, aveva stabilito che le regioni determinassero "la maggiore spesa sanitaria corrente per gli esercizi finanziari 1987 e 1988" con i criteri e le modalita' gia' disposte, in relazione alla spesa sanitaria per gli esercizi 1985 e 1986, dal d.-l. 19 settembre 1987, n. 382, convertito in legge 29 ottobre 1987, n. 456 (sulla base cioe' di atti ricognitivi deliberati dagli organi di gestione dei servizi); e potessero autorizzare le u.s.l. e gli altri enti di gestione dei servizi ad iscrivere fra gli impegni degli esercizi finanziari 1987 e 1988 le obbligazioni effettivamente assunte e le sopravvenienze passive accertate, in eccedenza ai rispettivi stanziamenti di bilancio. La maggiore spesa cosi' determinata era "finanziata dalle regioni e dalle province autonome mediante l'impiego delle somme eventualmente non utilizzate, a valere sulle quote degli esercizi finanziari 1987 e 1988 del fondo sanitario nazionale di parte corrente, e mediante operazioni di finanziamento con onere di ammortamento a carico del bilancio dello Stato, nella misura del 20% con operazioni di mutuo da attivare entro il 31 dicembre 1989, e del 35% con operazioni di mutuo da attivare nell'anno 1990". Il quarto comma, ultima parte, di detto art. 4 stabiliva che "con successivo provvedimento legislativo" sarebbero stati determinati modalita' e tempi per l'ulteriore finanziamento della maggiore spesa sanitaria per i predetti esercizi 1987 e 1988. Tale provvedimento si inseriva nella cattiva prassi purtroppo ricorrente (e gia' segnalata da questa Corte nella sentenza n. 245/1984), per cui la spesa sanitaria viene regolarmente sottostimata in via preventiva, definendo l'ammontare del Fondo sanitario nazionale in misura inferiore al fabbisogno; le u.s.l. non potendo interrompere ne' ridurre l'erogazione dei servizi, accumulano debiti piu' o meno occulti; a posteriori si chiede di accertare tali debiti e i conseguenti disavanzi degli esercizi pregressi, provvedendo al loro ripiano solo in ritardo, spesso in modo solo parziale e incompleto, e rinviandone l'onere a futuri esercizi mediante operazioni di ricorso al credito (pur trattandosi, si noti, di coprire spesa corrente). In tale cattiva prassi erano state coinvolte le Regioni, nel senso di imporre loro la stipulazione dei mutui a ripiano dei disavanzi, pero' con onere di ammortamento assunto a carico dello Stato. Il d.-l. 15 settembre 1990, n. 262, ha dettato nuove disposizioni per la copertura dei disavanzi degli esercizi 1987, 1988 e 1990. Mentre per i primi due esercizi (artt. 1 e 2) si ricorre al solito metodo della copertura mediante mutui regionali con onere di ammortamento a carico dello Stato, dando luogo solo ad alcuni dubbi di legittimita' (dei quali si dira' piu' avanti) connessi alla oscurita' del testo, per il 1990 invece si prevedeva un meccanismo di finanziamento delle spese eccedenti, in definitiva, a carico della regione, attraverso mezzi propri, ovvero mediante alienazione di beni patrimoniali disponibili, o infine mediante mutui o prestiti contratti dalla regione con onere di ammortamento a carico di questa. Stante la palese violazione dell'autonomia finanziaria regionale, il d.-l. n. 262/1990 veniva impugnato davanti a questa Corte dalla esponente regione, con ricorso iscritto al n. 66/1990 reg. ric. Ora la legge n. 334/1990, nel convertire in legge il d.-l. n. 262/1990, via ha apportato alcune integrazioni e modificazioni, che pero' non fanno venir meno le ragioni di censura che avevano costretto la regione ricorrente a impugnare il decreto-legge, e che anzi per certi versi estendono e aggravano le ragioni di illegittimita' (cosi' con l'art. 2- bis aggiunto al decreto-legge in sede di conversione). Pertanto l'esponente deve rinnovare l'impugnazione nei confronti della legge di conversione e del decreto-legge cosi' come convertito, illegittimi e lesivi dell'autonomia della regione per i seguenti motivi di D I R I T T O 1. - Sull'art. 1 del decreto-legge. La non perspicua disposizione dell'art. 1, primo comma, del decreto-legge impugnato, non modificata in sede di conversione, sembra doversi intendere nel senso che i disavanzi delle gestioni sanitarie accertati per gli esercizi 1987 e 1988, per la quota (del 45%) non coperta dalle operazioni di finanziamento previste dall'art. 4 del d.-l. n. 382/1989, cioe' dai mutui stipulati dalle regioni, sono finanziati mediante nuovi mutui, da stipulare dalle regioni nel 1990 (per il 20% del disavanzo) e nel 1991 (per il residuo 25%), con onere di ammortamento in ogni caso a carico dello Stato. Se cosi' e', la regione non ha motivo di dolersi di tale disposizione se non nei limiti di quanto si dira' a proposito del secondo comma. Tuttavia la non chiara formulazione dell'art. 1, primo comma, che potrebbe far pensare ad un'assunzione solo parziale da parte dello Stato dell'onere di ammortamento dei mutui a ripiano del disavanzo, induce la ricorrente regione a formulare, cautelarmente, una censura di illegittimita' anche nei confronti di tale disposizione, per l'ipotesi in cui essa dovesse essere interpretata in senso diverso da quello prima accennato, nel senso cioe' che lo Stato assuma a proprio carico solo una parte dell'onere di ammortamento dei mutui, addossandone altra parte alla regione. Sarebbe palese infatti, in questa ipotesi, la violazione dell'autonomia finanziaria regionale nonche' dell'art. 81, quarto comma, della Costituzione (anche in riferimento all'art. 26 della legge n. 468/1z978 e all'art. 3, sesto comma, della legge 14 giugno 1990, n. 158), per avere lo Stato addossato alla regione un onere di copertura dei disavanzi delle u.s.l., in assenza di adeguati poteri di governo della spesa in capo alla regione medesima, e senza attribuire alla regione medesima le risorse necessarie (cfr. sentenze nn. 245/1984 e 452/1989). Il secondo comma, ultima parte, dell'art. 1 prevede, in relazione ai mutui regionali di cui si e' parlato, che "non si applicano i limiti per l'assunzione di mutui previsti dalle vigenti disposizioni per le ragioni e le province autonome". Tale disposizione sembra da intendere nel senso che i mutui de quibus non incidono in alcun modo ai fini del calcolo del limite massimo dei mutui che la regione puo' assumere (la quota annuale di ammortamento per l'insieme dei debiti non puo' superare il 25% del totale annuo delle entrate tributarie della regione: art. 10 della legge n. 281/1970, come modificato dall'art. 22 della legge n. 335/1976; e, per l'elevazione del limite al 25%, art. 9 della legge n. 181/1982). Il "tetto" dell'indebitamento ammesso per la regione, in altri termini, non dovrebbe variare in alcun modo a seguito dell'assunzione dei mutui in oggetto. Peraltro, la "non applicazione" dei limiti per l'assunzione di mutui potrebbe anche, in ipotesi, intendersi nel senso che per effetto di tali mutui i limiti in questione possono essere superati, ma che, comunque, i mutui stessi concorrono a determinare il "tetto" di indebitamento, cosi' che, se la regione aveva un indebitamento inferiore al tetto del 25%, ma con l'assunzione dei mutui a ripiano del disavanzo sanitario tale limite venga superato, la regione non avrebbe piu' la possibilita' di assumere altri mutui entro il margine che risultava non utilizzato prima dell'assunzione dei mutui in questione. Se cosi' fosse, sarebbe evidente la lesione della autonomia finanziaria della regione, nonche' dell'art. 81, quarto comma, della Costituzione, anche in riferimento all'art. 26 della legge n. 468/1978 e all'art. 3, sesto comma, della legge n. 158/1990, in quanto l'assorbimento di una capacita' di indebitamento residua della regione si tradurrebbe indirettamente in un accollo di onere alla Regione per la copertura dei deficit delle u.s.l., nuovo onere cui non corrisponde l'attribuzione di nuove risorse. Anche tale ultima disposizione, pertanto, viene censurata a titolo cautelare dalla ricorrente, per il caso in cui essa dovesse interpretarsi in senso lesivo dell'autonomia finanziaria della regione. 2. - Sull'art. 2- bis del decreto-legge. La legge di conversione ha aggiunto al decreto-legge un art. 2bis, del seguente tenore: "1. Le eccedenze di spesa rispetto alle entrate complessive, registrate dalle unita' sanitarie locali e dagli altri enti che erogano assistenza sanitaria per l'esercizio 1989, sono coperte in via prioritaria con i proventi derivanti dall'alienazione totale o parziale dei beni patrimoniali di cui agli artt. 61, 65 e 66 della legge 23 dicembre 1978, n. 833, non soggetti a vincoli di qualsiasi natura. I disavanzi delle unita' sanitarie locali e degli altri enti che erogano assistenza sanitaria che non dispongono di beni patrimoniali alienabili e le eventuali eccedenze che non sia possibile coprire con le alienazioni di cui sopra, determinati dalle regioni e province autonome con criteri e modalita' da definirsi con decreto del Ministro della sanita' di concerto con quello del tesoro, sono ripianati dalle regioni mediante operazioni di mutuo, da stipulare nel secondo semestre dell'anno 1992, con le aziende e gli istituti di credito ordinario e speciale individuati da apposito decreto del Ministro del tesoro, che ne definisce anche la durata e le modalita'. Le regioni e le province autonome fanno fronte agli oneri di ammortamento, valutati in lire 1.500 miliardi a decorrere dal 1993, con specifiche quote del fondo sanitario nazionale all'uopo previste e vincolate a decorrere dall'anno 1993. Sugli atti di alienazione vigila una commissione nominata dalla regione o provincia autonoma e presieduta da un magistrato delle giurisdizioni amministrative che si avvale delle valutazioni dei locali uffici tecnici erariali". Ora, non puo' non colpire, anzitutto, l'assurdita' di una disposizione che, al fine di coprire i disavanzi delle gestioni sanitarie - causati peraltro per lo piu' dalla consapevole sottostima preventiva del fabbisogno e quindi del fondo sanitario nazionale - impone di vendere il patrimonio. Nessuna famiglia assennata penserebbe di vendere il patrimonio familiare per coprire un deficit che si crea nella gestione corrente della casa. E' evidente infatti che, se il deficit riguarda le entrate e le spese correnti, esso non e' un fatto occasionale (e infatti, per quanto riguarda le u.s.l., si ripete e si aggrava di anno in anno), ma strutturale: coprirlo con una entrata patrimoniale straordinaria significa da un lato impoverire in modo permanente il soggetto, dall'altro lato limitarsi a tamponare un problema che si ripresenta tal quale l'anno dopo. Senza dire che, essendo gli enti obbligati a cedere i beni patrimoniali, e' molto probabile che questi vengano svenduti, anziche' ceduti vantaggiosamente. La copertura del disavanzo mediante vendita di beni che in molti casi, com'e' ben noto, sono pervenuti agli enti interessati attraverso secoli di liberalita' a favore degli ospedali, significa dissipare un patrimonio prezioso senza giustificazione e senza contropartita: quanto cioe' di piu' dissennato, e di meno conforme alle regole di buona amministrazione, si possa immaginare. Nella specie, poi, si prevede la vendita sia di beni patrimoniali da reddito trasferiti ai comuni con vincolo di destinazione alle u.s.l. (art. 66, primo comma, lett. b), della legge n. 833/1978), sia di beni patrimoniali destinati all'esercizio delle funzioni sanitarie (art. 61, terzo comma, lett. a), art. 65, primo comma, e art. 66, primo comma, lett. a), della legge n. 833/1978). In entrambi i casi la vendita provoca una diminuzione di entrate o un aumento di spesa a carico delle u.s.l. Infatti i redditi e proventi netti dei beni patrimoniali erano confluiti nel fondo sanitario nazionale (art. 69, primo comma, lett. c), della legge n. 833/1978), e comunque di tali entrate si era tenuto conto del calcolare il fondo e le relative quote: pertanto il venir meno dei redditi si traduce in una minore entrata permanente alla cui copertura il legislatore statale non ha provveduto (violando cosi' l'art. 81, quarto comma, della Costituzione). Quanto ai beni destinati ai servizi sanitari, e' ovvio che essi non possano essere ceduti e che, se lo fossero, le u.s.l. incontrerebbero nuove spese per doversi procurare (ad esempio mediante locazioni) beni che li sostituiscano. Anche in questo caso dunque avremmo un nuovo onere a carattere continuativo, alla cui copertura non si e' provveduto. La previsione poi, di una commissione, presieduta da un magistrato delle giurisdizioni amministrative, che "vigila" sugli atti di alienazione e' lesiva dell'autonomia organizzativa della regione. Per i disavanzi non suscettibili di essere coperti mediante i proventi delle alienazioni, l'art. 2- bis in esame prevede che essi siano ripianati dalle Regioni, mediante operazioni di mutuo da stipularsi con gli istituti e alle condizioni stabilite dal Ministro del tesoro. Gia' qui e' dato di scorgere una violazione dell'autonomia finanziaria e contabile della regione, che dovrebbe indebitarsi, e farlo per di piu' a condizioni stabilite dal Ministro. All'onere dei mutui, addossato alla regione, non fa riscontro poi alcuna attribuzione di risorse. Vero e' che l'art. 2- bis prosegue prevedendo che si faccia fronte agli oneri di ammortamento "con specifiche quote del Fondo sanitario nazionale all'uopo previste e vincolate a decorrere dall'anno 1993". Ma, poiche' non vi e' nessuna garanzia (e nemmeno alcun affidamento) che il fondo, a partire da quell'anno, venga adeguatamente incrementato - tanto e' vero che non e' nella legge, in violazione dell'art. 81, quarto comma, della Costituzione, alcuna copertura dell'onere che deriverebbe allo Stato dalla necessita' di dover incrementare il fondo (l'art. 4 del decreto-legge, sulla copertura finanziaria, e che si riferisce al solo onere derivante dall'attuazione dell'art. 1, non e' stato modificato in sede di conversione -, in realta' la disposizione in parola si traduce o rischia di tradursi in un gioco di prestigio, per cui si vincola preventivamente una parte del Fondo nazionale (non incrementato), a partire dal 1993, a far fronte agli oneri di ammortamento dei mutui, riducendo contestualmente le disponibilita' libere del fondo medesimo ripartito fra le regioni, e quindi semplicemente differendo nel tempo il puro e semplice addossamento alle regioni dell'onere del disavanzo delle u.s.l. Sull'art. 3 del decreto-legge. I primi due commi dell'art. 3 del decreto, non modificati in sede di conversione, prevedono rispettivamente che "le regioni possono autorizzare le unita' sanitarie locali e gli altri enti che gestiscono i servizi sanitari finanziati dalle quote regionali del fondo sanitario nazionale ad assumere impegni per l'esercizio finanziario 1990 anche in eccedenza agli stanziamenti di parte corrente autorizzati con il bilancio di previsione, per provvedere a spese improcrastinabili e di assoluta urgenza entro limiti prequantificati dalle regioni stesse per ciascun ente"; e che "per il finanziamento della spesa autorizzata in eccedenza ai sensi del primo comma, le regioni possono autorizzare le unita' sanitarie locali e gli altri enti che gestiscono i servizi sanitari ad assumere con i propri tesorieri anticipazioni straordinarie di cassa alle condizioni previste dalle convenzioni di tesoreria". All'originario terzo comma dell'art. 3 la legge di conversione ha sostituito i seguenti quattro commi: "3. La spesa effettivamente sostenuta a fronte delle autorizzazioni concesse ai sensi del primo comma, desunta dai conti consuntivi dei singoli enti, e gli oneri derivati dalle anticipazioni straordinarie di cassa di cui al secondo comma, sono assunti a carico delle regioni e province autonome e sono finanziati con operazioni di mutuo, fino alla concorrenza di L. 90.000 a cittadino residente per ciascuna regione o provincia autonoma, con oneri di ammortamento a carico dello Stato. 3-bis. Alla differenza residua si fa fronte: a) quanto al 25 per cento con oneri a carico del bilancio delle regioni e province autonome, che vi provvedono o con propri mezzi di bilancio o mediante alienazioni di beni disponibili ovvero mediante la contrazione di mutui o prestiti con istituti di credito, da assumere anche in deroga alle limitazioni previste dalle vigenti disposizioni, avvalendosi, per la copertura delle relative rate di ammortamento, anche delle entrate tributarie previste dall'art. 6 della legge 14 giugno 1990, n. 158; b) quanto al restante 75 per cento mediante accensione di mutui con oneri di ammortamento a carico dello Stato. 3-ter. Le operazioni di mutuo con oneri di ammortamento a carico dello Stato possono essere attivate con le aziende ed istituti di credito ordinario e speciale individuati ai sensi dell'art. 4, secondo comma, lett. b), del d.-l. 25 novembre 1989, n. 382, convertito, con modificazioni, dalla legge 25 gennaio 1990, n. 8, e secondo condizioni e durata stabilite ai sensi della norma medesima; al pagamento delle rate di ammortamento provvedono gli enti mutuatari. 3-quater. All'onere per l'ammortamento dei mutui per il finanziamento della spesa di pertinenza statale, valutato in lire 2.185 miliardi a decorrere dal 1972, gli enti mutuatari provvedono mediante utilizzo di quota parte del fondo sanitario nazionale all'uopo prevista e vincolata". Il finanziamento della maggiore spesa e quindi del disavanzo - al di la' del meccanismo delle anticipazioni straordinarie di cassa, che si limita a spostare in avanti nel tempo l'onere, aggravandolo con i relativi interessi - e' affidato dunque, per una parte, al solito congegno dei mutui regionali con oneri di ammortamento a carico dello Stato. Ma questo finanziamento e' dichiaratamente solo parziale, poiche' esso e' commisurato al tetto massimo di L. 90.000 per ogni cittadino residente (terzo comma), mentre il comma 3- bis espressamente si riferisce alla "differenza residua". Tale ulteriore disavanzo viene coperto ancora con mutui regionali il cui onere di ammortamento e' assunto dallo Stato (comma 3- bis, lett. b), ma solo limitatamente al 75%, mentre il 25% dovrebbe essere coperto "con oneri a carico del bilancio delle regioni e province autonome", che vi dovrebbero provvedere "o con propri mezzi di bilancio o mediante alienazione di beni disponibili ovvero mediante la contrazione di mutui o prestiti", in quest'ultimo caso "avvalendosi, per la copertura delle relative rate di ammortamento, anche delle entrate tributarie previste dall'art. 6 della legge 14 giugno 1990, n. 158". Anche, poi, per la parte finanziata da mutui con oneri a carico dello Stato (comma 3 e comma 3- bis), lett. b), l'assunzione dell'onere da parte dello Stato e' solo apparente in quanto il comma 3-quater stabilisce che a tali oneri si faccia fronte mediante utilizzo di quota parte del fondo sanitario nazionale. Poiche', anche qui, non vi e' alcuna garanzia ne' alcun affidamento che il fondo venga incrementato, a partire dal 1992, delle somme necessarie (tanto e' vero che non si prevede alcuna copertura del maggiore onere, cosi' violando l'art. 81, quarto comma, della Costituzione, essendosi lasciato invariato il testo della norma sulla copertura finanziaria, contenuta nell'art.4 del d.l., che fa riferimento solo all'onere "derivante dall'attuazione dell'art. 1"), il meccanismo di finanziamento in questione rischia di rivelarsi uno strumento per differire semplicemente nel tempo l'addossamento dell'onere alle Regioni; queste, a partire dal 1992, potrebbero vedersi attribuire quote di un fondo non incrementato, con le quali dovrebbero pero' finanziare necessariamente (essendo titolari del debito contratto con i mutui) l'onere dei mutui in questione. In definitiva, dunque, il disavanzo, o comunque una quota cospicua del medesimo, e' posto a carico non gia' dallo Stato ma della regione, senza peraltro attribuire ad essa alcuna nuova risorsa. Ora, questa Corte ha ripetutamente affermato in altre occasioni l'incostituzionalita' di disposizioni legislative statali che pongano l'onere della copertura dei disavanzi delle u.s.l. a carico delle regioni, in assenza di effettivi e sufficienti poteri di governo della spesa sanitaria in capo alle regioni medesimi, e senza l'attribuzione ad esse delle risorse necessarie. Nella sentenza n. 245/1984 la Corte osservo' che le competenze attribuite alle regioni in materia sanitaria non bastano a far concludere "che le amministrazioni regionali portino dunque l'effettiva responsabilita' degli eventuali disavanzi delle u.s.l."; che "la parte essenziale della spesa sanitaria ed ospedaliera non puo' non gravare sullo Stato... per l'evidente ragione che il diritto alla salute spetta egualmente a tutti i cittadini e va salvaguardato sull'intero territorio nazionale", onde non e' causale che la spesa sanitaria "sia prevalentemente rigida e non si presti a venire manovrata, in qualche misura, se non dagli organi centrali di governo"; che "in breve, gran parte della spesa sanitaria si forma indipendentemente dalle scelte regionali (e dalle stesse deliberazioni degli organi di gestione delle unita' locali)". Concludeva la Corte, censurando l'art. 29 della legge n. 730/1984, che "in realta', il pie' di lista permane con la sola novita' rappresentata dal subentrare delle Regioni in luogo dello Stato". Successivamente il legislatore ricadde nella stessa tentazione, con l'art. 2, primo comma, della legge n. 37/1989, che addossava le eccedenze di spesa sanitaria alle regioni. Nuovamente la Corte fu costretta ad una dichiarazione di illegittimita' costituzionale, rilevando che si trattava di disposizione "irragionevolmentelesiva dell'autonomia finanziaria delle Regioni", poiche' "la garanzia di tale autonomia... comporta che non possano essere addossati al bilancio regionale... gli oneri derivanti da decisioni non imputabili alla regione stessa... o che, comunque, dipendono dall'esigenza di tutelare interessi pubblici o diritti costituzionali dei cittadini la cui cura e' affidata dalla Costituzione soltanto in parte - e non certo quella essenziale - alla regione" (sentenza n. 452/1989). Sempre nella stessa sentenza la Corte rilevo' che la disciplina legislativa intervenuta successivamente a quella giudicata con la sentenza n. 245/1984 "non ha certo spostato a favore delle regioni la responsabilita' della spesa sanitaria". Ora, l'art. 3 del decreto-legge impugnato realizza precisamente di nuovo quell'accollo dell'onere del disavanzo ai bilanci regionali, senza attribuzione di risorse corrispondenti, che la Corte ha giudicato inammissibile. E certo non si puo' dire che, rispetto al momento in cui la Corte emano' le citate pronunce, qualcosa sia cambiato nel senso della attribuzione alle regioni di maggiori poteri di governo della spesa sanitaria. Tutti i fattori principali della spesa sfuggono infatti, oggi piu' che mai, a qualsiasi potere determinativo o di governo della regione, e sono, eventualmente, governabili solo da organi statali: cio' vale per l'identificazione delle prestazioni spettanti ai cittadini, per gli organici e il trattamento del personale, per il costo delle convenzioni dei medici generici e degli specialisti, per i costi dell'assistenza farmaceutica, e cosi' via. Non vale a far venir meno l'illegittimita' il fatto che il primo comma, dell'art. 3, preveda, ipocritamente, che le regioni "possono autorizzare" le u.s.l. ad assumere impegni in eccedenza alla quota del fondo sanitario ad esse spettante, e che il secondo comma del medesimo art. 3 preveda, altrettanto ipocritamente, che le Regioni "possono autorizzare" le u.s.l. a contrarre anticipazioni straordinarie di cassa col proprio tesoriere per il finanziamento della spesa autorizzata in eccedenza. Che non si sia in presenza di una semplice facolta' della regione, che essa potrebbe esercitare o non esercitare discrezionalmente, e il cui esercizio quindi possa legittimamente dar luogo all'assunzione del relativo onere da parte della regione medesima, e' reso del tutto evidente dalla stessa disposizione legislativa, la quale prevede siffatte "autorizzazioni" per "provvedere a spese improcrastinabili e di assoluta urgenza". Se si tratta, infatti, di spesa improcrastinabile e di assoluta urgenza, non c'e' spazio per decisioni discrezionali; l'autorizzazione regionale non e' in realta' una autorizzazione a spendere, che possa essere o meno discrezionalmente concessa, ma e' una semplice autorizzazione a contabilizzare e a pagare spese e debiti comunque gia' assunti,e quindi a far emergere un disavanzo che si e' comunque inevitabilmente creato (si tenga presente che siamo gia' alla fine del 1990, e quindi la spesa in eccedenza da "autorizzare" in realta' e' spesa in larga parte gia' intervenuta, cui corrispondono debiti delle u.s.l. inevitabilmente destinati a tradursi in un disavanzo dell'esercizio 1990). Una riprova di cio' sta nel fatto che anche l'art. 4, primo comma, del decreto-legge n. 38/1989, che provvedeva ai disavanzi del 1987 e del 1988, stabiliva che le regioni "possono autorizzare" le u.s.l. ad iscrivere tra gli impegni degli esercizi 1987 e 1988 le obbligazioni effettivamente assunte le sopravvenienze passive accertate in eccedenza ai rispettivi stanziamenti di bilancio: eppure a tali "autorizzazioni" conseguiva l'assunzione dell'onere dei mutui, necessari per ripianare il disavanzo, a carico dello Stato (art. 4, secondo comma). In realta' anche il meccanismo disegnato dall'art. 3 del decreto-legge n. 262/1990 non e' che un meccanismo di ripianamento del disavanzo "necessario" (reso tale, cioe', dall'eccedenza della spesa indispensabile per la continuita' dei servizi, rispetto alla entita' - sottostimata - del Fondo sanitario nazionale) mediante l'assunzione di mutui regionali: solo che, come si e' detto, l'onere di ammortamento dei mutui e' posto, illegittimamente, a carico della regione anziche' dello Stato. La lesione dell'autonomia regionale e' dunque palese. La disposizione impugnata si riferisce, per il finanziamento della quota di oneri posta anche formalmente a carico della regione, anzitutto ai "mezzi di bilancio" della regione: ma il bilancio di questa, come e' ben noto, e' totalmente impegnato per le altre spese della regione medesima, e non presenta alcuna disponibilita' non utilizzata. In secondo luogo si fa riferimento alla "alienazione di beni disponibili". Non e' chiaro a quali beni si faccia riferimento: letteralmente sembrerebbe trattarsi di beni della regione, dato che e' la regione a dover finanziare gli oneri che che disposizione in esame esplicitamente afferma dover essere assunti " a carico del bilancio delle Regioni e Province autonome". Ma la regione non possiede beni patrimoniali alienabili a questo scopo| In realta' probabilmente il legislatore voleva alludere ai beni di cui agli artt. 61, 65 e 66 della legge n. 833/1978, trasferiti ai comuni (o in Lombardia alle associazioni intercomunali che gestiscono le u.s.l.). Solo che la vendita di tali beni dipende da determinazioni degli enti proprietari: la regione potrebbe al piu' autorizzarne la vendita; e questa potrebbe al massimo procurare qualche risorsa alle u.s.l. dipendenti dei comuni proprietari dei beni venduti, non alle altre. A parte cio', valgono qui nuovamente le censure e gli argomenti che si sono esposti a proposito dell'analoga previsione dell'art. 2- bis (e che devono intendersi qui riprodotti), in ordine all'incongruita' di una copertura di oneri correnti mediante l'alienazione di beni patrimoniali, e alla mancata copertura delle minori entrate o delle maggiori spese conseguenti a tale alienazione. E' dunque evidente che l'alienazione di beni patrimoniali, oltre che essere del tutto insufficiente a coprire i disavanzi, e a richiedere moltissimo tempo, e' strumento del tutto incongruo a tale scopo. Il legislatore d'altronde sa bene che non sono questi espedienti a poter fornire le risorse necessarie a coprire il deficit: ed ecco percio' che impone il ricorso all'unico mezzo disponibile, cioe' i mutui a ripiano. Ma, ponendo l'onere di ammortamento a carico della regione, non fa che spostare il problema in avanti: la regione infatti non ha le risorse necessarie per sostenere tale onere. Non vale certo fare richiamo alle "entrate tributarie previste dall'art. 6 della legge 14 giugno 1990, n. 158": anzitutto, e decisivamente, perche' tali entrate non sussistono ancora, dovendo essere disciplinate da decreti legislativi non ancora emanati; in secondo luogo perche' le nuove entrate previste sono destinate a compensare la riduzione dei trasferimenti statali, e quindi non metteranno nuove risorse a disposizione delle regioni; in terzo luogo, comunque, perche' tali entrate saranno assai inferiori, in generale e in particolare per la regione ricorrente, all'importo della quota dei disavanzi sanitari e degli oneri di ammortamento dei mutui a ripiano, che la regione dovrebbe accollarsi. Tanto e' vero che lo stesso legislatore statale, ben consapevole dell'assoluta insufficienza di tali risorse, si limita a prevedere che le regioni si avvalgano per la copertura dei nuovi oneri "anche" di dette entrate tributarie: ammette cioe' che, almeno in parte, gli stessi oneri dovranno essere coperti con altre risorse della regione. Ma, appunto, cio' significa addossare alla regione nuovi oneri senza provvedere alle risorse necessarie.