ha pronunciato la seguente
                                SENTENZA
 nei  giudizi  di legittimita' costituzionale dell'art. 199 del codice
 penale militare di pace, promossi con le seguenti ordinanze:
      1)  ordinanza emessa il 19 giugno 1990 dal Tribunale militare di
 Padova nel procedimento penale a carico di Lazzaron Ivone  ed  altro,
 iscritta  al  n.  593  del registro ordinanze 1990 e pubblicata nella
 Gazzetta Ufficiale della Repubblica  n.  39,  prima  serie  speciale,
 dell'anno 1990;
     2)  ordinanza  emessa  l'11 luglio 1990 dal Tribunale militare di
 Padova nel procedimento penale a  carico  di  Formisano  Pasquale  ed
 altro,  iscritta  al  n. 594 del registro ordinanze 1990 e pubblicata
 nella  Gazzetta  Ufficiale  della  Repubblica  n.  39,  prima   serie
 speciale, dell'anno 1990;
    Visti  gli  atti  di  intervento  del Presidente del Consiglio dei
 Ministri;
    Udito  nella  camera  di consiglio del 12 dicembre 1990 il Giudice
 relatore Ugo Spagnoli;
                           Ritenuto in fatto
    1.  -  A  seguito  di  un  diverbio,  originato  da futili motivi,
 verificatosi all'interno della  caserma  della  brigata  meccanizzata
 Vittorio  Veneto  in  Trieste  tra  un  caporale  ed  un  soldato, si
 procedeva nei confronti del primo per il  reato  di  ingiuria  ad  un
 inferiore  (art.  196,  comma  secondo, cod. pen. mil. di pace) e nei
 confronti del secondo per i reati di insubordinazione  con  violenza,
 con  minaccia  e  con ingiuria (artt. 186, primo comma e 189, primo e
 secondo comma, del cod. pen. mil. di pace).
    In  esito all'istruttoria dibattimentale, il Tribunale militare di
 Padova, premesso che i fatti  traggono  origine  da  un  sopruso  del
 superiore  nei confronti dell'inferiore, ha sollevato, in riferimento
 agli artt. 3 e 52, ultimo comma, Cost., una questione di legittimita'
 costituzionale  dell'art.  199  del cod. pen. mil. di pace, nel testo
 sostituito con l'art. 9 della legge  26  novembre  1985,  n.  689,  a
 termini   del   quale   le   disposizioni  dei  capi  III  (pene  per
 l'insubordinazione) e IV (pene per l'abuso di autorita') dello stesso
 codice "non si applicano quando alcuno dei fatti da esse preveduto e'
 commesso per cause estranee al servizio e alla  disciplina  militare,
 fuori  dalla  presenza di militari riuniti per servizio e da militare
 che non si trovi in servizio a bordo di una nave  militare  o  di  un
 aeromobile militare o in luoghi militari".
    Nel  caso  di  specie,  osserva  il Tribunale, sono applicabili le
 norme  incriminatrici  speciali  concernenti   l'insubordinazione   e
 l'abuso di autorita', anziche' quelle comuni di cui agli artt. da 222
 a 229 cod. pen. mil. di pace, solo perche' trattasi di fatti commessi
 in  luogo  militare,  ancorche'  essi  siano  da  ricondurre  a cause
 estranee  al  servizio  ed  alla  disciplina  militare:  ed  a   cio'
 conseguono  differenze rilevanti di disciplina in tema di trattamento
 sanzionatorio - piu' severo per i reati  speciali  -  di  circostanze
 aggravanti   ed   attenuanti,  di  procedibilita'  e  soprattutto  di
 applicabilita' delle cause di non punibilita'  della  provocazione  e
 della ritorsione, i cui estremi sussisterebbero nel caso di specie se
 i fatti fossero configurabili come reati comuni.
    Il  Tribunale  ricorda poi che questa Corte, nella sentenza n. 278
 del 1990, ha bensi' escluso che l'inapplicabilita' della causa di non
 punibilita'  della  provocazione  ai  reati  di  insubordinazione con
 ingiuria e di ingiuria  ad  un  inferiore  ledesse  il  principio  di
 uguaglianza;  ma ha anche ipotizzato che la questione potesse "essere
 utilmente riproposta" "argomentando ex art. 199" cod.  pen.  mil.  di
 pace.
    Cio'   premesso,  il  giudice  a  quo  osserva  che  il  requisito
 dell'estraneita' della causa si realizza solo quando, in presenza  di
 una   pluralita'   di   cause,  non  ve  ne  sia  alcuna  "intranea",
 espressione, cioe'  di  una  specifica  relazione  tra  superiore  ed
 inferiore  che  sia  tipica del servizio o della disciplina militare.
 Con tale requisito, l'estensione delle norme incriminatrici  speciali
 risulta   coerente  con  l'oggetto  della  tutela.  Sarebbero  invece
 insignificanti, rispetto  a  detto  oggetto  (servizio  e  disciplina
 militare),  gli ulteriori requisiti che la norma impugnata pone sullo
 stesso piano del primo. La presenza di militari riuniti in  servizio,
 o  la  commissione  del  fatto  ad opera di militare in servizio, o a
 bordo di navi o aeromobili, o in altri luoghi militari non  sarebbero
 infatti   circostanze   idonee  a  controbilanciare  l'assenza  della
 specifica  lesivita'  derivante  dall'estraneita'  della   causa   al
 servizio  ed  alla disciplina militare. Ed il considerare ciascuna di
 esse di per  se'  sufficiente  a  rendere  applicabile  la  normativa
 speciale  costituirebbe  una  forma  di  tutela anticipata, basata su
 presunzioni astratte, che  violerebbe  il  principio  di  uguaglianza
 perche' comporta una pari regolamentazione dei fatti commessi in tali
 condizioni  con  quelli  dovuti  a  cause  "intranee",  mentre   essi
 dovrebbero essere fatti rientrare nella disciplina comune di cui agli
 artt. 222-229 cod. pen. mil. di pace.
    Secondo  il Tribunale rimettente, sarebbe violato anche l'art. 52,
 ultimo comma, Cost., dato  che  "il  legittimare  la  condanna  della
 vittima  che  solo  con  l'ingiuria  ha  reagito  nei  confronti  del
 superiore o inferiore  violento"  contrasterebbe  con  l'esigenza  di
 rispettare i diritti della persona.
    1.1.  -  Una  questione  identica  e' stata sollevata dallo stesso
 Tribunale militare di Padova con altra ordinanza dell'11 luglio 1990,
 emessa in un procedimento per fatti analoghi.
    2.  -  Il  Presidente  del  Consiglio dei ministri, intervenuto in
 entrambi i giudizi tramite l'Avvocatura dello Stato, ha  chiesto  che
 la questione sia dichiarata infondata.
    Secondo  la  discrezionale  valutazione  del legislatore, infatti,
 "l'essere stata l'offesa consumata alla presenza di militari  riuniti
 in  servizio  o in un sito militare infrange di per se' la disciplina
 militare, non foss'altro che  per  il  cattivo  esempio  di  cui  da'
 mostra,  indipendemente  dalle cause, sia pure estranee al servizio e
 alla disciplina militare, che hanno motivato quell'offesa".
                         Considerato in diritto
    1.  -  Nell'ambito  del  titolo  III, dedicato ai "reati contro la
 disciplina militare", il codice penale militare di pace  prevede:  al
 capo   III,   i   reati   di   "insubordinazione",  specificati  come
 insubordinazione con violenza (art. 186) e con  minaccia  o  ingiuria
 (art.  189); al capo IV, i reati di "abuso di autorita'", specificati
 come violenza (art. 195) ovvero minaccia o ingiuria (art. 196) contro
 un inferiore.
    Sotto  la  rubrica  "Cause  estranee al servizio o alla disciplina
 militare", il successivo art. 199 (Capo V), nel testo introdotto  con
 l'art.  9  della  legge 26 novembre 1985, n. 689 (Modifiche al codice
 penale militare di pace), prevede che "le disposizioni dei capi terzo
 e  quarto  non si applicano quando alcuno dei fatti da esse preveduto
 e' commesso  per  cause  estranee  al  servizio  ed  alla  disciplina
 militare,  fuori dalla presenza di militari riuniti per servizio e da
 militare che non si trovi in servizio o a bordo di una nave  militare
 o di un aeromobile militare o in luoghi militari".
    Il  Tribunale  militare  di  Padova  impugna  tale disposizione in
 quanto rende applicabili le disposizioni penali sull'insubordinazione
 e  sull'abuso  di  autorita'  ai fatti commessi per cause estranee al
 servizio e  alla  disciplina  militare,  sol  perche'  perpetrati  da
 militari  in servizio o in presenza di militari riuniti per servizio,
 o a bordo di navi o  aeromobili  militari,  ovvero  in  altri  luoghi
 militari.
    In  tal  modo  sarebbero  violati, a suo avviso, gli artt. 3 e 52,
 ultimo comma, Cost.,  dato  che  tali  elementi  sarebbero  privi  di
 rilievo  rispetto  alla  disciplina militare, oggetto della tutela, e
 comporterebbero un'arbitraria parificazione  ai  fatti  commessi  per
 cause  attinenti al servizio e alla disciplina militare - anziche' ai
 corrispondenti reati comuni di cui agli artt. 222, 229 cod. pen. mil.
 di  pace  -  determinando  altresi'  la  violazione delle esigenze di
 rispetto della persona.
    In  entrambi  i  casi oggetto dei due giudizi a quibus, i reati di
 abuso di autorita' ed insubordinazione - contestati, rispettivamente,
 ad  un  caporale  ed un soldato - avvennero, secondo la ricostruzione
 del Tribunale, per cause estranee  al  servizio  ed  alla  disciplina
 militare  ed al di fuori dell'attivita' di servizio. Solo il primo di
 tali episodi si verifico' alla presenza di altri  militari,  peraltro
 non riuniti per servizio.
    Pertanto,  l'unico  elemento  che,  nonostante l'estraneita' delle
 cause al servizio od alla disciplina, determina l'applicabilita'  dei
 reati  speciali  in  luogo dei corrispondenti reati comuni (percosse,
 lesioni, ingiuria e minaccia tra militari: artt. 222, 223, 226 e  229
 cod.pen.  mil.  di pace) e' costituito dalla commissione dei fatti in
 luogo militare (caserma).
    Benche'    il    Tribunale   rimettente   tenti   di   coinvolgere
 nell'impugnativa   anche   gli   altri   fattori   che    impediscano
 l'operativita' della circostanza delle "cause estranee", la questione
 e' percio'  rilevante  solo  in  riferimento  a  quello  dei  "luoghi
 militari",  ed  in questi soli limiti va esaminata. Si tratta, cioe',
 di decidere se la commissione  di  fatti  coinvolgenti  superiori  ed
 inferiori  in un luogo militare diverso dalle navi o aeromobili cioe'
 in "caserme" "stabilimenti militari" o altri luoghi "dove i  militari
 si trovano, ancorche' momentaneamente, per ragioni di servizio": art.
 230, ultimo comma, cod. pen. mil. di pace - possa  ritenersi  ragione
 sufficiente,  pur  in  assenza  di tutte le altre condizioni previste
 dalla  norma  impugnata,  a   giustificare   l'applicabilita'   della
 normativa  speciale  contro la disciplina militare in luogo di quella
 comune concernente i reati contro la persona tra militari.
    2. - Nei suddetti limiti, la questione e' fondata.
    Nella   disciplina  dei  reati  di  insubordinazione  e  abuso  di
 autorita' anteriore alla riforma del  1985,  le  "cause  estranee  al
 servizio   ed   alla  disciplina  militare"  erano  considerate  come
 circostanze  attenuanti.  Piu'   precisamente,   per   i   reati   di
 insubordinazione  con violenza, minaccia o ingiuria la diminuzione di
 pena operava se il fatto risultava "commesso per  cause  estranee  al
 servizio e alla disciplina militare, fuori della presenza di militari
 riuniti per servizio e da militare che non si trovi in servizio  o  a
 bordo  di una nave militare o di un aeromobile militare" (artt. 188 e
 192, abrogati dall'art. 7 della legge n. 689 del 1985); per  i  reati
 di violenza, minaccia o ingiuria contro un inferiore, invece, bastava
 ad integrare l'attenuante la loro commissione "per cause estranee  al
 servizio e alla disciplina militare" (art. 197, abrogato dal medesimo
 art. 7).
    La  riforma  ha  dunque  inciso  in  un duplice senso: da un lato,
 trasformando le attenuanti in cause di esclusione dell'applicabilita'
 della  normativa  speciale,  ed  allineando in quella delimitazione i
 reati di abuso di autorita' e quelli di insubordinazione; dall'altro,
 introducendo  ex  novo, come elemento sufficiente all'integrazione di
 tali fattispecie - anziche' di quelle comuni  -  la  commissione  del
 fatto "in luoghi militari" diversi dalle navi o aeromobili.
    Questa  considerazione  della perpetrazione in luogo militare come
 autonoma ragione di aggravamento della repressione dei reati militari
 contro  la  persona  determina un'evidente disarmonia nel sistema del
 codice penale militare di pace. L'art.  47  cod.  pen  mil.  di  pace
 prevede  infatti,  ai nn. 3) e 4), come circostanze aggravanti comuni
 dei reati militari, la commissione del  fatto  "durante  un  servizio
 militare,  ovvero  a  bordo  di  una nave militare o di un aeromobile
 militare" ovvero "alla presenza di tre o piu' militari o comunque  in
 circostanze  di  luogo,  per  le  quali  possa  verificarsi  pubblico
 scandalo". Sono quindi considerate aggravanti, nella sostanza,  tutte
 quelle  circostanze che, per il novellato art. 199, rendono operativa
 la disciplina speciale pur se i  reati  contro  la  persona  traggano
 origine  da  cause  estranee al servizio ed alla disciplina militare,
 tranne, appunto, quella concernente la commissione del fatto in luogo
 militare   (che   nulla  ha  a  che  vedere,  evidentemente,  con  le
 "circostanze di  luogo,  per  le  quali  possa  verificarsi  pubblico
 scandalo").
    Cio'  significa  che  al  vincolo  gerarchico  nei luoghi militari
 comuni (diversi, cioe', da quelli  -  particolarissimi  sotto  questo
 profilo  -  costituiti da navi e aeromobili), il legislatore del 1985
 ha inteso assegnare, pur quando si sia al di  fuori  dell'ambito  del
 servizio  e della disciplina, quella particolare protezione che sta a
 base dell'aggravamento delle pene (nell'art.  47)  e  dell'inclusione
 nella piu' rigorosa normativa speciale (nell'art. 199).
    3.  -  Per  misurare  la  portata di questa scelta legislativa, e'
 opportuno  ricordare  quali  siano  le  principali  conseguenze   che
 l'inquadramento  dei  reati  contro  la  persona  in  tale  normativa
 comporta,  rispetto  ai  corrispondenti  reati  tra  militari  (artt.
 222-229 cod. pen. mil. di pace) ed a quelli di diritto penale comune.
    Innanzitutto,  vengono ad essere parificati - in quanto ricompresi
 nella nozione unitaria di "violenza" di cui  all'art.  43  cod.  pen.
 mil.  di  pace  -  i  fatti di percosse, lesioni lievissime e lesioni
 lievi, che il diritto penale comune (ed anche quello speciale di  cui
 al  capo  III  del titolo IV del cod. pen. mil. di pace) considera in
 modo assai diverso sia  sotto  il  profilo  sanzionatorio  che  sotto
 quello   della   procedibilita'.   A  tali  fatti,  inoltre,  vengono
 equiparati anche i  "maltrattamenti",  nei  quali  la  giurisprudenza
 tende  a ricomprendere ogni offesa fisica alla persona che non giunga
 all'intensita' della percossa, quali spinte, strattonamenti e simili:
 sicche'  anche per questi, se commessi in luogo militare in danno del
 superiore o dell'inferiore, risulta  applicabile  la  sanzione  della
 reclusione militare da uno a tre anni (articoli 186 e 195).
    In  secondo  luogo,  per  i fatti di ingiuria e diffamazione viene
 esclusa  l'applicabilita'  delle  cause  di  non  punibilita'   della
 ritorsione  e  della  provocazione  prevista  dal  diritto penale sia
 comune (art. 599 cod. pen.) che militare (art. 228 cod. pen. mil.  di
 pace): sicche' la ritorsione non rileva, e la provocazione opera solo
 come attenuante (art. 198 cod. pen. mil. di pace).
    Percosse,  lesioni lievissime e ingiurie sono, infine, soggette ad
 un regime di perseguibilita' differenziato per il diritto penale  sia
 comune  (querela)  che  militare  (richiesta del comandante: art. 260
 cod. pen. mil. di pace) mentre gli stessi fatti, se qualificati  come
 insubordinazione o abuso di autorita', sono in ogni caso perseguibili
 d'ufficio.
    4.  -  Con  l'innovazione  in discorso, quindi, il legislatore del
 1985 ha operato un'estensione del criterio della  "integralita'"  del
 diritto   penale   militare,   a   scapito   di   quello   della  sua
 "complementarita'"rispetto al diritto penale comune: criterio che  si
 caratterizza  per l'adozione di principi pienamente autonomi rispetto
 a quest'ultimo e del quale questa Corte -  proprio  a  proposito  dei
 reati  contro  la  persona - ha ritenuto giustificata l'adozione solo
 per i reati "esclusivamente"  o  almeno  "obbiettivamente"  militari,
 cioe'  lesivi di valori militari meritevoli di particolare protezione
 (sentenza n.  213  del  1984).  Piu'  precisamente,  l'incidenza  del
 suddetto  criterio e' stata ridotta escludendo l'applicabilita' della
 disciplina speciale  laddove  prima  era  riconosciuta  una  semplice
 attenuante;  ma rispetto al nuovo discrimine cosi' definito tra reati
 comuni e speciali il  criterio  ha  avuto  nuova  espansione  con  la
 considerazione   del   "luogo   militare"   come  autonoma  causa  di
 applicabilita' di questi ultimi.
    Mentre   la   prima  innovazione  e'  coerente  alle  esigenze  di
 razionalizzazione e riforma in senso democratico del  sistema  penale
 militare  che questa Corte ha additato in numerose sentenze anteriori
 alla legge del 1985 (cfr. le sentenze nn. 26 del 1979, 103 del  1982,
 173  e  213  del  1984,  102 e 126 del 1985) e di recente anche nella
 sentenza n. 278 del 1990 (par. 4), non altrettanto puo'  dirsi  della
 seconda.
    L'adozione  del  criterio "integralistico" e' certo giustificata -
 come si e' ribadito in quest'ultima decisione - quando si  tratti  di
 tutelare   l'irrinunciabile   bene  della  disciplina  militare,  che
 comporta che durante il servizio  siano  rigorosamente  garantiti  il
 rispetto  del  rapporto  gerarchico  intercorrente  tra  superiore ed
 inferiore  e  l'osservanza  da  parte  del  primo   dei   doveri   di
 comportamento inerenti alla sua funzione.
    Cio'   pero'   vale  per  quelle  situazioni  e  rapporti  la  cui
 connotazione "obiettivamente" militare faccia venire in gioco il bene
 della disciplina e quindi la rilevanza del rapporto gerarchico.
    Nella  fattispecie  qui  considerata,  invece,  tale  obiettivita'
 manca, o e' perlomeno assai evanescente. Si presuppone, invero, da un
 lato,  che  il  fatto,  o i fatti, siano commessi per cause del tutto
 estranee al servizio od alla disciplina militare, che  cioe'  tra  di
 esse  -  come opportunamente precisa il giudice a quo - non ve ne sia
 alcuna attinente al servizio  od  alla  disciplina;  dall'altro,  che
 l'agente  non  si  trovi  in  servizio  ne' alla presenza di militari
 riuniti per servizio. Si presuppone altresi'  -  implicitamente,  che
 neanche  la  persona  offesa  sia in servizio, giacche' altrimenti il
 rapporto  gerarchico  -  disciplinare  sarebbe  attuale  ed  il   suo
 svolgimento andrebbe quindi ricompreso tra le circostanze antecedenti
 al fatto-reato, si' da integrare la causa attinente  al  servizio  od
 alla disciplina.
    In  siffatte  condizioni  -  come  la Corte ha gia' implicitamente
 rilevato nella sentenza n. 278 del 1990 (par. 4) - il  reato  risulta
 collegato  in  modo  del  tutto  estrinseco  all'area degli interessi
 militari attinenti alla  tutela  del  servizio  e  della  disciplina,
 giacche'   l'unico   elemento  di  collegamento  e'  dato  dalla  sua
 commissione in luogo militare.
    Nel necessario bilanciamento tra le esigenze di coesione dei corpi
 militari  e  quelle  di  tutela  dei  diritti  individuali  che  sono
 postulate  dallo  spirito  democratico cui va informato l'ordinamento
 delle Forze Armate (art. 52, terzo comma, Cost.: cfr. sentenza n. 126
 del  1985), la considerazione di quell'unico elemento di collegamento
 trasmoda in  eccesso  di  tutela  delle  prime.  Ne  risulta  infatti
 violato, senza sufficienti ragioni, il principio di pari dignita' che
 deve presiedere alla regolamentazione dei rapporti tra  militari  che
 si  svolgono  al  di  fuori  del  servizio ed in ambito privato (cfr.
 l'art. 4, comma terzo, della legge 11 luglio 1978, n. 382, contenente
 le "norme di principio sulla disciplina militare").
    Nelle  dette  condizioni, inoltre, le pesanti deroghe al principio
 di proporzione tra fatto e pena (cfr. sentenze nn. 26 del 1979 e  103
 del  1982),  che  l'applicazione  della  disciplina speciale comporta
 (cfr. supra, par. 3), non possono dirsi assistite da adeguate ragioni
 giustificative, ed urtano percio' contro il principio di uguaglianza.
    Ne'  puo'  dirsi che le esigenze della disciplina restano prive di
 tutela, perche' ai fatti  cosi'  espunti  dalla  disciplina  speciale
 restano  pur  sempre  applicabili,  oltre alle sanzioni disciplinari,
 quelle previste dagli artt. da 222 a 229 del cod. pen. mil. di  pace.