ha pronunciato la seguente SENTENZA nel giudizio di legittimita' costituzionale dell'art. 12- bis della legge 1 dicembre 1970, n. 898 (Disciplina dei casi di scioglimento del matrimonio), introdotto dall'art. 16 della legge 6 marzo 1987, n. 74 (Nuove norme sulla disciplina dei casi di scioglimento di matrimonio), promosso con ordinanza emessa il 9 aprile 1990 dal Tribunale di Roma nel procedimento civile vertente tra Dau Pompeo e Giosia Luana, iscritta al n. 456 del registro ordinanze 1990 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 29, prima serie speciale, dell'anno 1990; Visti gli atti di costituzione di Dau Pompeo e Giosia Luana, nonche' l'atto di intervento del Presidente del Consiglio dei Ministri; Udito nell'udienza pubblica del 27 novembre 1990 il Giudice relatore Ugo Spagnoli; Uditi gli avvocati Giorgio della Valle per Dau Pompeo e Mario Guttieres per Giosia Luana e l'Avvocato dello Stato Sergio La Porta per il Presidente del Consiglio dei Ministri; Ritenuto in fatto 1. - Decidendo sull'opposizione al decreto ingiuntivo con il quale a Giosia Luana era stata attribuita una somma pari al quaranta per cento dell'indennita' di fine rapporto percepita da Dau Pompeo, commisurata agli anni in cui il rapporto di lavoro era coinciso con il matrimonio tra costoro e fino alla cessazione degli effetti civili di esso, il Tribunale di Roma ha sollevato, in riferimento agli artt. 3 e 38 Cost., una questione di legittimita' costituzionale dell'art. 12- bis della legge 1 dicembre 1970, n. 898, introdotto con l'art. 16 della legge 6 marzo 1987, n. 74. Tale disposizione - premette il Tribunale - e' applicabile nella specie pur se la sentenza di divorzio sia stata pronunciata anteriormente all'entrata in vigore di detta legge, sia perche' il diritto alla quota e' sorto solo con la percezione dell'indennita', avvenuta in epoca successiva, sia perche' nel caso si tratterebbe non di far retroagire la legge, ma di regolare in base ad essa gli effetti non esauriti del rapporto matrimoniale. La ratio dell'attribuzione all' ex-coniuge del diritto ad una quota dell'indennita' di fine rapporto - osserva il Tribunale, richiamando i lavori parlamentari - risiede nel contributo dato da ciascuno dei coniugi alla formazione del patrimonio e dei redditi personali e comuni e quindi nel principio di solidarieta' economica che si instaura tra essi durante la convivenza. A questa stregua, pero', la determinazione in misura fissa della quota - per di piu' riferita anche al periodo successivo alla cessazione della convivenza - sarebbe irrazionale, in quanto verrebbero cosi' parificate situazioni molto diverse tra loro in ragione della varia durata della convivenza e dei giudizi di separazione e divorzio, ovvero dell'addebitabilita' della separazione medesima. In particolare, la quota fissa risulterebbe sproporzionata all'effettivo contributo dato dal beneficiario alla conduzione familiare ove il divorzio intervenga molto tempo dopo la separazione (nel caso di specie, dopo quindici anni). Occorrerebbe, quindi, come per l'assegno divorzile, rimettere al giudice la determinazione della percentuale, onde contemperare equitativamente la componente assistenziale con quella compensativa di tale attribuzione patrimoniale ed evitare di parificare situazioni valutate diversamente in sede di fissazione della misura di detto assegno. A cio' non potrebbe opporsi ne' la pretesa natura esclusivamente assistenziale della quota, ne' l'obiettivo di accelerarne l'attribuzione. Detta natura e' - secondo il giudice a quo - smentita dalla Relazione della Commissione Giustizia del Senato e dalla stessa limitazione agli anni di matrimonio della base di calcolo; e l'obiettivo di accelerazione non contrasta con l'attribuzione al giudice di siffatto potere, tant'e' che questo e' stato riconosciuto dallo stesso legislatore - pur se in riferimento alla sola durata del rapporto - nell'ipotesi di attribuzione ripartita della pensione di riversibilita' (art. 9). La disposizione impugnata violerebbe altresi' l'art. 38 Cost., in quanto comporterebbe una sottrazione al lavoratore di parte del trattamento previdenziale, ingiustificata perche' non commisurata al reale sviluppo avuto nel caso concreto del rapporto di solidarieta' economica durante il matrimonio. 2. - Alla tesi dell'ordinanza aderisce la parte privata Dau Pompeo, costituitasi a mezzo dell'avv. Giorgio della Valle. A suo avviso, per evitare che lunghi divari di tempo tra separazione e divorzio valgano a costituire "rendite di posizione" - inammissibili perche' svincolate dall'effettivo stato di bisogno e di non indipendenza socio-economica del coniuge piu' debole - occorrerebbe rapportare la quota dell'indennita' di fine rapporto all'effettivo periodo di convivenza, dato che in tal modo essa sarebbe commisurabile all'effettivo contributo dato dall' ex-coniuge alla condizione familiare. Peraltro - osserva la difesa in una memoria aggiunta - la questione sollevata non concerne tanto il punto della determinazione legale o giudiziale del quantum dell'indennita', quanto piuttosto l'ingiustificata parificazione di situazioni diverse che consegue alla mancata considerazione del solo periodo di effettiva convivenza; cio' che a suo avviso contraddice la ratio della norma, ispirata al criterio compensativo e quindi al concreto contributo del coniuge beneficiario alla formazione delle risorse familiari, che cessa non col divorzio ma con la separazione. La durata del matrimonio, del resto, rileva, ai fini della determinazione dell'assegno di divorzio, come mero criterio residuale, che va tenuto in conto solo dopo aver valutato tutti gli altri elementi indicati nell'art. 5, comma sesto, della legge n. 898 del 1970 (nel testo modificato con l'art. 10 della legge n. 74 del 1987): onde l'irrazionalita' del rilievo esclusivo che la durata del matrimonio ha ai fini della commisurazione della quota di indennita' di fine rapporto. La violazione dell'art. 38 Cost. sarebbe poi evidenziata dalla ritenuta applicabilita' della norma a rapporti di lavoro e di coniugio gia' definiti - come nella specie - anteriormente alla legge, nei quali la sottrazione della quota darebbe luogo ad uno stato di bisogno imprevisto ed imprevedibile. La disposizione, inoltre, incentiverebbe liti strumentali volte a procrastinare la pronuncia di divorzio, in tal modo vulnerando l'aspettativa degli ex-coniugi, tutelata dall'ordinamento, a ricostituire una propria famiglia legittima. Essa, inoltre, pregiudicherebbe la funzione previdenziale di tale indennita', in quanto sarebbe pretermessa la considerazione delle esigenze primarie del coniuge obbligato. 3. - Il Presidente del Consiglio dei ministri, intervenuto nel giudizio a mezzo dell'Avvocatura dello Stato, sostiene innanzitutto che la questione sarebbe inammissibile, dato che rientra nei poteri discrezionali del legislatore la scelta dei criteri di determinazione della quota di indennita' di fine rapporto da attribuire all' ex-coniuge in ragione della collaborazione prestata in costanza di matrimonio. Ne' sarebbe illogico che la quota sia rapportata anche al periodo in cui la convivenza e' gia' cessata, posto che della "durata del matrimonio" deve tenersi, tra l'altro, conto anche ai fini della determinazione dell'assegno di divorzio; che risponde ad una scelta dei coniugi se prolungare la separazione o accelerare il piu' possibile la procedura di divorzio; e che la frequente difficolta' di stabilire con certezza la data di interruzione della convivenza potrebbe aprire la via a innumerevoli contestazioni giudiziarie. La scelta del legislatore di stabilire direttamente l'entita' del diritto anziche' fissare criteri di massima da applicarsi in giudizio non e', secondo l'Avvocatura, censurabile, dato che detti criteri sarebbero risultati nel caso in esame eccessivamente vaghi perche' relativi a fatti e circostanze a volte remoti e comunque non quantificabili con precisione. Ne' rileverebbe l'eventuale difformita' tra la percentuale dell'indennita' e la misura dell'assegno divorzile giudiziariamente stabilita in rapporto al reddito dell'obbligato, dato che l'assegno e' soggetto a revisione con il mutare della situazione di fatto mentre l'indennita' va necessariamente ripartita una volta per tutte tra gli aventi diritto. 4. - La parte privata Giosia Luana, costituitasi a mezzo dell'avv. Mario Guttieres, insiste anch'essa sulla discrezionalita' - e dunque sull'insindacabilita' - della scelta legislativa in questione, ed osserva che il rimettere ai giudici la determinazione della quota comporterebbe maggiori differenze di trattamento tra casi analoghi ed andrebbe a scapito della certezza del diritto, dato che il riferimento alla cessazione della convivenza darebbe luogo ad incertezze ed a conseguenti contestazioni giudiziarie. D'altra parte, la durata del matrimonio rileva anche ai fini dell'assegno di divorzio, ed il riferimento ad essa sarebbe giustificato dal permanere dei reciproci diritti dei coniugi fino al divorzio. Ad avviso della difesa, inoltre, l'attribuzione di una quota dell'indennita' di fine rapporto al coniuge divorziato non solo non contrasta con l'art. 38 Cost., ma si armonizza con i principi di solidarieta' familiare emergenti dal dettato costituzionale e dalla normativa vigente ed e' pienamente giustificata in base ad un "criterio compensativo-familiare", dato che l'indennita' corrisponde a redditi maturati in costanza di rapporto di lavoro che, se percepiti al momento della loro produzione, sarebbero stati goduti in parte qua anche dal coniuge piu' debole. Considerato in diritto 1. - L'art. 12-bis della legge 1 dicembre 1970, n. 898 (sulla disciplina dei casi di scioglimento del matrimonio), introdotto dall'art. 16 della legge 6 marzo 1987, n. 74, modificativa di tale disciplina, attribuisce al coniuge nei cui confronti sia stata pronunziata sentenza di scioglimento o di cessazione degli effetti civili del matrimonio, se non passato a nuove nozze e in quanto sia titolare di assegno divorzile ( ex art. 5 della citata legge n. 898 del 1970, nel testo modificato), il diritto ad una percentuale dell'indennita' di fine rapporto percepita dall'altro coniuge all'atto della cessazione del rapporto di lavoro, anche se l'indennita' viene a maturare dopo la sentenza (primo comma). Tale percentuale e' pari al quaranta per cento dell'indennita' totale riferibile agli anni in cui il rapporto e' coinciso col matrimonio (secondo comma). Il Tribunale di Roma dubita della legittimita' costituzionale di tale disposizione in riferimento agli artt. 3 e 38 Cost., sostenendo che l'attribuzione di detta percentuale, in quanto stabilita in misura fissa e rapportata anche al periodo successivo alla cessazione della convivenza, comporterebbe un'ingiustificata parificazione di situazioni tra loro molto diverse quanto a durata della convivenza e del periodo di separazione, attribuendo all' ex-coniuge - ove l'intervallo tra separazione e divorzio sia lungo - una percentuale dell'indennita' sproporzionata al suo effettivo contributo alla conduzione della famiglia; e che essa implicherebbe sottrazione al lavoratore di parte del trattamento previdenziale, non giustificata perche' non commisurata alla reale solidarieta' economica intercorsa tra i coniugi. 2. - Va innanzitutto chiarito che non spetta a questa Corte valutare se sia o meno esatto il presupposto in base al quale il Tribunale rimettente ha ritenuto l'applicabilita' della predetta disposizione nel giudizio principale, se cioe' sia a tal fine sufficiente che l'indennita' di fine rapporto sia percepita dopo la sua entrata in vigore, pur se la sentenza di divorzio sia passata in giudicato in epoca anteriore. Poiche' tale estensione dell'ambito della norma non e' oggetto di censura, si tratta di questione interpretativa, come tale riservata a giudici comuni. L'Avvocatura dello Stato e la parte attrice nel giudizio principale sostengono che la questione sarebbe inammissibile, in quanto incentrata sulla pretesa di sostituire, alla predeterminazione legislativa della percentuale dell'indennita', la determinazione della sua misura in base alla valutazione discrezionale del giudice, ritenuta piu' idonea a cogliere le particolarita' dei singoli casi concreti. Se l'oggetto del giudizio si esaurisse in cio', la questione sarebbe effettivamente inammissibile, dato che non puo' certo dirsi irragionevole una scelta legislativa che miri ad assicurare certezza e rapidita' nella definizione del contenuto del diritto all'indennita' e ad evitare il contenzioso che presumibilmente deriverebbe da diversita' di indirizzi giurisprudenziali. Un'attenta lettura dell'ordinanza convince, pero', che le censure prospettate vertono essenzialmente sul fatto che la percentuale in misura fissa venga applicata alla parte della indennita' di fine rapporto che coincide con l'intera durata del periodo matrimoniale "comprendendosi cioe', in ogni caso, anche il periodo successivo alla cessazione della convivenza, sino al momento dello scioglimento del vincolo coniugale". Cio' che il Tribunale lamenta e', in realta', che la percentuale dell'indennita' non sia rapportata alla sola durata della convivenza. 3. - Intesa in questi limiti, la questione e' certamente ammissibile, ma non puo' dirsi fondata. Con la riforma della disciplina del divorzio del 1970, il legislatore del 1987 ha mirato "a rimuovere effetti di segno negativo e a ripristinare una situazione di uguaglianza tra i soggetti del rapporto matrimoniale nella misura in cui cio' e' possibile dopo la dissoluzione del vincolo coniugale" (cfr. la Relazione al disegno di legge presentata al Senato): ha cioe' avuto tra i suoi obiettivi quello di dare una piu' ampia e sistematica tutela al soggetto economicamente piu' debole con l'approntamento di incisivi strumenti giuridici a garanzia di posizioni economicamente pregiudicate dagli effetti della cessazione del matrimonio. Di qui l'apprestamento di una serie di misure, che vanno dalla fissazione di criteri piu' articolati e precisi per la determinazione dell'assegno divorzile, al suo adeguamento automatico e alla piu' intensa tutela sul terreno esecutivo e su quello penale rispetto ai rischi di inadempienza; dalla nuova disciplina del trattamento pensionistico di reversibilita' alla attribuzione di una quota percentuale dell'indennita' di liquidazione spettante al divorziato. Nella concreta disciplina di tali istituti, la durata del matrimonio e' un parametro cui e' attribuito rilievo centrale. Cosi' e', non solo per la quota di indennita' di fine rapporto, ma anche per l'assegno divorzile, rispetto al quale e' prescritto che gli indici e criteri che concorrono alla sua determinazione vadano valutati "anche in rapporto alla durata del matrimonio" (art. 5); ed, ancora, per la pensione di riversibilita', che va ripartita tra coniuge divorziato e coniuge superstite in base all'unico criterio della durata di ciascun matrimonio (art. 9, terzo comma). Il parametro in questione corrisponde quindi ad un indirizzo generale inteso non solo ad assicurare la certezza dei rapporti ma anche, e soprattutto, a valorizzare la solidarieta' economica che lega i coniugi durante il matrimonio. 4. - Nel nuovo istituto dell'attribuzione all' ex- coniuge di una quota dell'indennita' di fine rapporto convergono, secondo l'opinione prevalente, sia profili assistenzialistici, evidenziati dal fatto che essa presuppone la spettanza dell'assegno divorzile; sia, e soprattutto - come la citata Relazione sottolinea - criteri di carattere compensativo, rapportati al contributo personale ed economico dato dall' ex-coniuge alla formazione del patrimonio di ciascuno e di quello comune. Ed a motivo della valorizzazione di tale criterio - qui, piu' che ai fini dell'assegno divorzile - sta, indubbiamente, la considerazione della particolare condizione della donna, che deve assumere su di se' oneri rilevanti in ordine all'assolvimento di compiti di natura domestica e familiare in sostituzione o in aggiunta al lavoro extradomestico, e del pregiudizio che ne consegue rispetto a prospettive di autonomia economica e di affermazione professionale. Si coglie, in cio', il riflesso delle crescenti difficolta' di organizzazione della vita quotidiana e familiare, dei problemi connessi agli oneri del doppio lavoro e della discriminazione di fatto della donna sul terreno professionale: onde una piu' appropriata considerazione dei vantaggi e delle utilita' economiche che l'altro coniuge trae dall'impegno e dalle energie profuse dalla donna nella famiglia. 5. - Ai fini della determinazione dell'assegno divorzile, la prevalente giurisprudenza (cfr., da ultimo, Cass., Sez. Un., 12 ottobre 1990, n. 11489) ritiene che il contributo dato dall' ex-coniuge alla conduzione familiare ed alla formazione del patrimonio di ciascuno e di quello comune vada valutato in riferimento all'intera durata del matrimonio, in quanto esso non cessa col venir meno della convivenza e con l'instaurarsi dello stato di separazione, di fatto o legale. Analogo principio deve presiedere alla commisurazione della quota d'indennita' di fine rapporto. E cio', non solo per la ragione generale secondo cui - nel modello di divorzio concepito nella legge del 1970 e mantenuto in quella del 1987 - la cessazione della convivenza non comporta immediatamente ed automaticamente il totale venir meno della comunione materiale e spirituale di vita e la separazione legale introduce una fase di sospensione della convivenza - con la permanenza di diritti ed obblighi - e di riflessione sulla possibilita' di ripristinarla. Ma, soprattutto, perche' qui si tratta della ripartizione di un'entita' economica maturata nel corso del rapporto di lavoro e del matrimonio, sicche' il contributo dato dall'altro coniuge non puo' non avere rilievo determinante. E' evidente che, in via generale, tale contributo non cessa con la separazione, legale o di fatto: e cio' specie nel caso in cui il coniuge piu' debole sia quello cui sono affidati i figli: anzi, esso aumenta con l'accrescersi della sua responsabilita' nell'opera di educazione e di assistenza e col venir meno di quel tanto di materiale collaborazione che, in relazione ad un compito cosi' importante e spesso assorbente, poteva pervenirgli dall'altro coniuge. E' del tutto ragionevole che il legislatore, una volta fatta la scelta di attribuire la quota dell'indennita' in una percentuale predeterminata, abbia tenuto in particolare considerazione situazioni di tal genere, che sono notoriamente assai frequenti; cosi' come e' ragionevole che abbia preferito ancorarsi ad un dato giuridicamente certo ed irreversibile, quale la durata del matrimonio, piuttosto che ad uno incerto e precario come la cessazione della convivenza: non solo perche' questa e' di non facile accertamento in caso di separazione di fatto, ma perche' anche in quella legale essa e' soggetta a fasi di riversibilita'. E' ben vero che in tal modo puo' darsi parita' di trattamento di coppie con uguale durata di matrimonio e diversa durata di convivenza. Ma, anche rispetto a situazioni - diverse da quelle suaccennate - in cui cio' potrebbe apparire di un qualche rilievo, e' decisivo considerare che si tratta essenzialmente di differenze di mero fatto, perche' in certa misura legate a determinazioni degli stessi coniugi. Se poi si tratta di convivenza breve (o brevissima) seguita da un lungo periodo di separazione, e' da ricordare che la giurisprudenza esclude che l'assegno divorzile possa consistere in una rendita di carattere puramente parassitario (cfr. la sentenza dianzi citata): sicche' e' verosimile che in tali situazioni verrebbe a mancare il presupposto per l'attribuzione della percentuale di indennita' in discorso. Ne' rileva che tale percentuale possa risultare in concreto difforme da quella dell'assegno divorzile considerato in rapporto alla retribuzione goduta dal coniuge obbligato: sia perche' i due istituti sono congegnati sulla base di criteri parzialmente diversi, sia perche' l'assegno e' suscettibile di revisioni successive, mentre la quota di indennita' e' percepita una tantum in base ad una ripartizione che non puo' che essere definitiva. In conclusione, quindi, il proposto criterio della cessazione della convivenza sarebbe, non solo incoerente con l'indirizzo seguito dal legislatore in tema di misure patrimoniali e con le esigenze di certezza da esso perseguite, ma, soprattutto, inidoneo a cogliere il modo in cui prevalentemente si articolano, in concreto, il contributo personale e le esigenze di solidarieta'. 6. - Quanto gia' detto vale anche a confutare la censura di violazione dell'art. 38, secondo comma, Cost. Se, invero, l'indennita' di fine rapporto di lavoro corrisponde ad una quota del trattamento economico maturata in costanza di questo, e' logico che il coniuge il quale, durante il matrimonio, abbia contribuito alla formazione di tale trattamento, sia, per questa parte, legittimato a fruirne. L'indennita' di fine rapporto invero assolve anche nei confronti di quel coniuge, per il periodo di coincidenza tra i rapporti di matrimonio e di lavoro, alla funzione latamente previdenziale che le e' propria.