ha pronunciato la seguente
                                SENTENZA
 nel  giudizio  di legittimita' costituzionale dell'art. 12- bis della
 legge 1› dicembre 1970, n. 898 (Disciplina dei casi  di  scioglimento
 del matrimonio), introdotto dall'art. 16 della legge 6 marzo 1987, n.
 74  (Nuove  norme  sulla  disciplina  dei  casi  di  scioglimento  di
 matrimonio),  promosso  con  ordinanza  emessa  il  9 aprile 1990 dal
 Tribunale di Roma nel procedimento civile vertente tra Dau  Pompeo  e
 Giosia  Luana,  iscritta  al  n.  456  del  registro ordinanze 1990 e
 pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della  Repubblica  n.  29,  prima
 serie speciale, dell'anno 1990;
    Visti  gli  atti  di  costituzione  di  Dau Pompeo e Giosia Luana,
 nonche'  l'atto  di  intervento  del  Presidente  del  Consiglio  dei
 Ministri;
    Udito  nell'udienza  pubblica  del  27  novembre  1990  il Giudice
 relatore Ugo Spagnoli;
    Uditi  gli  avvocati  Giorgio  della  Valle per Dau Pompeo e Mario
 Guttieres per Giosia Luana e l'Avvocato dello Stato Sergio  La  Porta
 per il Presidente del Consiglio dei Ministri;
                           Ritenuto in fatto
    1. - Decidendo sull'opposizione al decreto ingiuntivo con il quale
 a Giosia Luana era stata attribuita una somma pari  al  quaranta  per
 cento  dell'indennita'  di  fine  rapporto  percepita  da Dau Pompeo,
 commisurata agli anni in cui il rapporto di lavoro era  coinciso  con
 il matrimonio tra costoro e fino alla cessazione degli effetti civili
 di esso, il Tribunale di Roma ha sollevato, in riferimento agli artt.
 3  e 38 Cost., una questione di legittimita' costituzionale dell'art.
 12- bis della legge 1› dicembre 1970, n. 898, introdotto  con  l'art.
 16 della legge 6 marzo 1987, n. 74.
    Tale  disposizione  - premette il Tribunale - e' applicabile nella
 specie  pur  se  la  sentenza  di  divorzio  sia  stata   pronunciata
 anteriormente  all'entrata  in  vigore di detta legge, sia perche' il
 diritto alla quota e' sorto solo con la  percezione  dell'indennita',
 avvenuta in epoca successiva, sia perche' nel caso si tratterebbe non
 di far retroagire la legge, ma  di  regolare  in  base  ad  essa  gli
 effetti non esauriti del rapporto matrimoniale.
    La  ratio  dell'attribuzione  all'  ex-coniuge  del diritto ad una
 quota dell'indennita'  di  fine  rapporto  -  osserva  il  Tribunale,
 richiamando  i  lavori  parlamentari - risiede nel contributo dato da
 ciascuno dei coniugi alla formazione del  patrimonio  e  dei  redditi
 personali  e  comuni e quindi nel principio di solidarieta' economica
 che si instaura tra essi durante la convivenza.
    A  questa  stregua, pero', la determinazione in misura fissa della
 quota - per  di  piu'  riferita  anche  al  periodo  successivo  alla
 cessazione   della   convivenza  -  sarebbe  irrazionale,  in  quanto
 verrebbero cosi' parificate situazioni  molto  diverse  tra  loro  in
 ragione  della  varia  durata  della  convivenza  e  dei  giudizi  di
 separazione e divorzio, ovvero dell'addebitabilita' della separazione
 medesima.  In particolare, la quota fissa risulterebbe sproporzionata
 all'effettivo  contributo  dato  dal  beneficiario  alla   conduzione
 familiare  ove il divorzio intervenga molto tempo dopo la separazione
 (nel caso di specie, dopo quindici anni).
    Occorrerebbe,  quindi,  come per l'assegno divorzile, rimettere al
 giudice  la  determinazione  della  percentuale,  onde   contemperare
 equitativamente  la  componente assistenziale con quella compensativa
 di tale attribuzione patrimoniale ed evitare di parificare situazioni
 valutate  diversamente  in  sede  di fissazione della misura di detto
 assegno.
    A  cio'  non potrebbe opporsi ne' la pretesa natura esclusivamente
 assistenziale   della   quota,   ne'   l'obiettivo   di   accelerarne
 l'attribuzione. Detta natura e' - secondo il giudice a quo - smentita
 dalla Relazione della Commissione Giustizia del Senato e dalla stessa
 limitazione  agli  anni  di  matrimonio  della  base  di  calcolo;  e
 l'obiettivo di accelerazione  non  contrasta  con  l'attribuzione  al
 giudice  di siffatto potere, tant'e' che questo e' stato riconosciuto
 dallo stesso legislatore - pur se in riferimento alla sola durata del
 rapporto  -  nell'ipotesi di attribuzione ripartita della pensione di
 riversibilita' (art. 9).
    La  disposizione impugnata violerebbe altresi' l'art. 38 Cost., in
 quanto comporterebbe una  sottrazione  al  lavoratore  di  parte  del
 trattamento  previdenziale, ingiustificata perche' non commisurata al
 reale sviluppo avuto nel caso concreto del rapporto  di  solidarieta'
 economica durante il matrimonio.
    2.  -  Alla  tesi  dell'ordinanza  aderisce  la  parte privata Dau
 Pompeo, costituitasi a mezzo dell'avv. Giorgio  della  Valle.  A  suo
 avviso,  per  evitare  che  lunghi  divari di tempo tra separazione e
 divorzio valgano a costituire "rendite di posizione" -  inammissibili
 perche'   svincolate   dall'effettivo  stato  di  bisogno  e  di  non
 indipendenza socio-economica del coniuge piu' debole  -  occorrerebbe
 rapportare  la  quota  dell'indennita' di fine rapporto all'effettivo
 periodo  di  convivenza,  dato  che  in   tal   modo   essa   sarebbe
 commisurabile  all'effettivo  contributo  dato  dall' ex-coniuge alla
 condizione familiare.
    Peraltro  -  osserva  la  difesa  in  una  memoria  aggiunta  - la
 questione sollevata non concerne tanto il punto della  determinazione
 legale  o  giudiziale  del  quantum dell'indennita', quanto piuttosto
 l'ingiustificata parificazione di  situazioni  diverse  che  consegue
 alla mancata considerazione del solo periodo di effettiva convivenza;
 cio' che a suo avviso contraddice la ratio della norma,  ispirata  al
 criterio  compensativo  e  quindi  al concreto contributo del coniuge
 beneficiario alla formazione delle risorse familiari, che  cessa  non
 col divorzio ma con la separazione.
    La  durata  del  matrimonio,  del  resto,  rileva,  ai  fini della
 determinazione  dell'assegno  di   divorzio,   come   mero   criterio
 residuale,  che  va tenuto in conto solo dopo aver valutato tutti gli
 altri elementi indicati nell'art. 5, comma sesto, della legge n.  898
 del  1970  (nel  testo modificato con l'art. 10 della legge n. 74 del
 1987): onde l'irrazionalita' del rilievo esclusivo che la durata  del
 matrimonio  ha ai fini della commisurazione della quota di indennita'
 di fine rapporto.
   La  violazione  dell'art.  38  Cost.  sarebbe poi evidenziata dalla
 ritenuta applicabilita'  della  norma  a  rapporti  di  lavoro  e  di
 coniugio  gia'  definiti  -  come  nella  specie - anteriormente alla
 legge, nei quali la sottrazione della  quota  darebbe  luogo  ad  uno
 stato  di  bisogno  imprevisto  ed  imprevedibile.  La  disposizione,
 inoltre, incentiverebbe liti strumentali  volte  a  procrastinare  la
 pronuncia  di  divorzio,  in  tal modo vulnerando l'aspettativa degli
 ex-coniugi, tutelata dall'ordinamento,  a  ricostituire  una  propria
 famiglia  legittima.  Essa,  inoltre,  pregiudicherebbe  la  funzione
 previdenziale di tale indennita', in quanto  sarebbe  pretermessa  la
 considerazione delle esigenze primarie del coniuge obbligato.
    3.  -  Il  Presidente  del Consiglio dei ministri, intervenuto nel
 giudizio a mezzo dell'Avvocatura dello Stato,  sostiene  innanzitutto
 che  la  questione sarebbe inammissibile, dato che rientra nei poteri
 discrezionali del legislatore la scelta dei criteri di determinazione
 della  quota  di  indennita'  di  fine  rapporto  da  attribuire all'
 ex-coniuge in ragione della collaborazione prestata  in  costanza  di
 matrimonio. Ne' sarebbe illogico che la quota sia rapportata anche al
 periodo in cui la convivenza e' gia' cessata, posto che della "durata
 del  matrimonio" deve tenersi, tra l'altro, conto anche ai fini della
 determinazione dell'assegno di divorzio; che risponde ad  una  scelta
 dei  coniugi  se  prolungare  la  separazione  o  accelerare  il piu'
 possibile la procedura di divorzio; e che la frequente difficolta' di
 stabilire  con  certezza  la  data  di  interruzione della convivenza
 potrebbe aprire la via a innumerevoli contestazioni  giudiziarie.  La
 scelta  del  legislatore  di  stabilire  direttamente  l'entita'  del
 diritto anziche' fissare criteri di massima da applicarsi in giudizio
 non  e',  secondo  l'Avvocatura,  censurabile, dato che detti criteri
 sarebbero risultati nel caso in esame  eccessivamente  vaghi  perche'
 relativi  a  fatti  e  circostanze  a  volte  remoti  e  comunque non
 quantificabili   con   precisione.   Ne'   rileverebbe    l'eventuale
 difformita'   tra   la   percentuale   dell'indennita'  e  la  misura
 dell'assegno divorzile  giudiziariamente  stabilita  in  rapporto  al
 reddito  dell'obbligato,  dato  che l'assegno e' soggetto a revisione
 con il mutare  della  situazione  di  fatto  mentre  l'indennita'  va
 necessariamente ripartita una volta per tutte tra gli aventi diritto.
    4. - La parte privata Giosia Luana, costituitasi a mezzo dell'avv.
 Mario Guttieres, insiste anch'essa sulla discrezionalita' - e  dunque
 sull'insindacabilita'  -  della  scelta  legislativa in questione, ed
 osserva che il rimettere ai giudici  la  determinazione  della  quota
 comporterebbe maggiori differenze di trattamento tra casi analoghi ed
 andrebbe  a  scapito  della  certezza  del  diritto,  dato   che   il
 riferimento   alla  cessazione  della  convivenza  darebbe  luogo  ad
 incertezze ed a conseguenti contestazioni giudiziarie.
    D'altra  parte,  la  durata  del  matrimonio  rileva anche ai fini
 dell'assegno  di  divorzio,  ed  il  riferimento  ad   essa   sarebbe
 giustificato  dal permanere dei reciproci diritti dei coniugi fino al
 divorzio.
    Ad  avviso  della  difesa,  inoltre,  l'attribuzione  di una quota
 dell'indennita' di fine rapporto al coniuge divorziato non  solo  non
 contrasta  con  l'art.  38  Cost.,  ma si armonizza con i principi di
 solidarieta' familiare emergenti dal dettato costituzionale  e  dalla
 normativa  vigente  ed  e'  pienamente  giustificata  in  base  ad un
 "criterio compensativo-familiare", dato che l'indennita'  corrisponde
 a  redditi  maturati  in  costanza  di  rapporto  di  lavoro  che, se
 percepiti al momento della loro produzione, sarebbero stati goduti in
 parte qua anche dal coniuge piu' debole.
                         Considerato in diritto
    1.  -  L'art.  12-bis  della legge 1› dicembre 1970, n. 898 (sulla
 disciplina dei  casi  di  scioglimento  del  matrimonio),  introdotto
 dall'art.  16  della  legge 6 marzo 1987, n. 74, modificativa di tale
 disciplina, attribuisce  al  coniuge  nei  cui  confronti  sia  stata
 pronunziata  sentenza  di  scioglimento o di cessazione degli effetti
 civili del matrimonio, se non passato a nuove nozze e in  quanto  sia
 titolare  di  assegno divorzile ( ex art. 5 della citata legge n. 898
 del 1970, nel  testo  modificato),  il  diritto  ad  una  percentuale
 dell'indennita'   di   fine  rapporto  percepita  dall'altro  coniuge
 all'atto  della  cessazione  del  rapporto  di   lavoro,   anche   se
 l'indennita'  viene  a  maturare dopo la sentenza (primo comma). Tale
 percentuale e' pari al  quaranta  per  cento  dell'indennita'  totale
 riferibile  agli  anni  in cui il rapporto e' coinciso col matrimonio
 (secondo comma).
    Il  Tribunale  di Roma dubita della legittimita' costituzionale di
 tale disposizione in riferimento agli artt. 3 e 38 Cost.,  sostenendo
 che  l'attribuzione  di  detta  percentuale,  in  quanto stabilita in
 misura fissa e rapportata anche al periodo successivo alla cessazione
 della  convivenza,  comporterebbe  un'ingiustificata parificazione di
 situazioni tra loro molto diverse quanto a durata della convivenza  e
 del  periodo  di  separazione,  attribuendo  all'  ex-coniuge  -  ove
 l'intervallo tra separazione e divorzio sia lungo -  una  percentuale
 dell'indennita'  sproporzionata  al  suo  effettivo  contributo  alla
 conduzione della famiglia; e che essa  implicherebbe  sottrazione  al
 lavoratore  di  parte del trattamento previdenziale, non giustificata
 perche' non commisurata alla reale solidarieta' economica  intercorsa
 tra i coniugi.
    2.  -  Va  innanzitutto  chiarito  che  non  spetta a questa Corte
 valutare se sia o meno esatto il presupposto  in  base  al  quale  il
 Tribunale  rimettente  ha  ritenuto  l'applicabilita'  della predetta
 disposizione nel  giudizio  principale,  se  cioe'  sia  a  tal  fine
 sufficiente  che  l'indennita' di fine rapporto sia percepita dopo la
 sua entrata in vigore, pur se la sentenza di divorzio sia passata  in
 giudicato in epoca anteriore.
    Poiche'  tale estensione dell'ambito della norma non e' oggetto di
 censura, si tratta di questione interpretativa, come tale riservata a
 giudici comuni.
    L'Avvocatura   dello   Stato  e  la  parte  attrice  nel  giudizio
 principale sostengono che  la  questione  sarebbe  inammissibile,  in
 quanto incentrata sulla pretesa di sostituire, alla predeterminazione
 legislativa  della  percentuale  dell'indennita',  la  determinazione
 della  sua misura in base alla valutazione discrezionale del giudice,
 ritenuta piu' idonea a cogliere le particolarita'  dei  singoli  casi
 concreti.
    Se  l'oggetto  del  giudizio  si  esaurisse  in cio', la questione
 sarebbe effettivamente inammissibile, dato che non puo'  certo  dirsi
 irragionevole  una scelta legislativa che miri ad assicurare certezza
 e   rapidita'   nella   definizione   del   contenuto   del   diritto
 all'indennita'  e  ad  evitare  il  contenzioso  che  presumibilmente
 deriverebbe da diversita' di indirizzi giurisprudenziali.
    Un'attenta  lettura dell'ordinanza convince, pero', che le censure
 prospettate vertono essenzialmente sul fatto che  la  percentuale  in
 misura  fissa  venga  applicata  alla  parte della indennita' di fine
 rapporto che coincide con l'intera durata  del  periodo  matrimoniale
 "comprendendosi cioe', in ogni caso, anche il periodo successivo alla
 cessazione della convivenza, sino al momento dello  scioglimento  del
 vincolo coniugale". Cio' che il Tribunale lamenta e', in realta', che
 la percentuale dell'indennita' non sia rapportata  alla  sola  durata
 della convivenza.
    3.   -  Intesa  in  questi  limiti,  la  questione  e'  certamente
 ammissibile, ma non puo' dirsi fondata.
    Con  la  riforma  della  disciplina  del  divorzio  del  1970,  il
 legislatore del 1987 ha mirato "a rimuovere effetti di segno negativo
 e  a  ripristinare  una  situazione di uguaglianza tra i soggetti del
 rapporto matrimoniale nella misura in cui cio' e' possibile  dopo  la
 dissoluzione  del vincolo coniugale" (cfr. la Relazione al disegno di
 legge presentata al Senato): ha cioe'  avuto  tra  i  suoi  obiettivi
 quello  di  dare  una  piu'  ampia  e  sistematica tutela al soggetto
 economicamente piu' debole con l'approntamento di incisivi  strumenti
 giuridici  a  garanzia di posizioni economicamente pregiudicate dagli
 effetti della cessazione del matrimonio. Di  qui  l'apprestamento  di
 una  serie  di  misure,  che  vanno  dalla fissazione di criteri piu'
 articolati e precisi per la determinazione dell'assegno divorzile, al
 suo  adeguamento  automatico  e  alla piu' intensa tutela sul terreno
 esecutivo e su quello penale  rispetto  ai  rischi  di  inadempienza;
 dalla    nuova    disciplina   del   trattamento   pensionistico   di
 reversibilita'   alla   attribuzione   di   una   quota   percentuale
 dell'indennita' di liquidazione spettante al divorziato.
    Nella   concreta  disciplina  di  tali  istituti,  la  durata  del
 matrimonio e' un parametro cui e' attribuito rilievo centrale.  Cosi'
 e',  non  solo  per la quota di indennita' di fine rapporto, ma anche
 per l'assegno divorzile, rispetto al  quale  e'  prescritto  che  gli
 indici  e  criteri  che  concorrono  alla  sua  determinazione vadano
 valutati "anche in rapporto alla durata del matrimonio" (art. 5); ed,
 ancora,  per  la  pensione  di  riversibilita',  che va ripartita tra
 coniuge divorziato e coniuge superstite in  base  all'unico  criterio
 della durata di ciascun matrimonio (art. 9, terzo comma).
    Il  parametro  in  questione  corrisponde  quindi  ad un indirizzo
 generale inteso non solo ad assicurare la certezza  dei  rapporti  ma
 anche,  e  soprattutto,  a  valorizzare la solidarieta' economica che
 lega i coniugi durante il matrimonio.
    4.  - Nel nuovo istituto dell'attribuzione all' ex- coniuge di una
 quota dell'indennita' di fine rapporto convergono, secondo l'opinione
 prevalente, sia profili assistenzialistici, evidenziati dal fatto che
 essa  presuppone  la  spettanza  dell'assegno   divorzile;   sia,   e
 soprattutto  -  come  la  citata  Relazione  sottolinea  - criteri di
 carattere  compensativo,  rapportati  al  contributo   personale   ed
 economico  dato  dall'  ex-coniuge  alla formazione del patrimonio di
 ciascuno e di quello comune. Ed a motivo della valorizzazione di tale
 criterio  -  qui,  piu'  che  ai  fini  dell'assegno divorzile - sta,
 indubbiamente, la considerazione della particolare  condizione  della
 donna,  che  deve  assumere  su  di  se'  oneri  rilevanti  in ordine
 all'assolvimento di  compiti  di  natura  domestica  e  familiare  in
 sostituzione   o   in   aggiunta  al  lavoro  extradomestico,  e  del
 pregiudizio che ne  consegue  rispetto  a  prospettive  di  autonomia
 economica  e  di  affermazione  professionale. Si coglie, in cio', il
 riflesso delle crescenti difficolta'  di  organizzazione  della  vita
 quotidiana  e  familiare, dei problemi connessi agli oneri del doppio
 lavoro e della discriminazione  di  fatto  della  donna  sul  terreno
 professionale:  onde una piu' appropriata considerazione dei vantaggi
 e delle utilita' economiche che l'altro coniuge trae  dall'impegno  e
 dalle energie profuse dalla donna nella famiglia.
    5.  -  Ai  fini  della  determinazione  dell'assegno divorzile, la
 prevalente giurisprudenza (cfr.,  da  ultimo,  Cass.,  Sez.  Un.,  12
 ottobre  1990,  n.  11489)  ritiene  che  il  contributo  dato  dall'
 ex-coniuge  alla  conduzione  familiare  ed   alla   formazione   del
 patrimonio   di   ciascuno  e  di  quello  comune  vada  valutato  in
 riferimento all'intera durata del  matrimonio,  in  quanto  esso  non
 cessa col venir meno della convivenza e con l'instaurarsi dello stato
 di separazione, di fatto o legale.
    Analogo  principio deve presiedere alla commisurazione della quota
 d'indennita' di fine rapporto.  E  cio',  non  solo  per  la  ragione
 generale  secondo cui - nel modello di divorzio concepito nella legge
 del 1970 e mantenuto  in  quella  del  1987  -  la  cessazione  della
 convivenza  non  comporta immediatamente ed automaticamente il totale
 venir meno della comunione  materiale  e  spirituale  di  vita  e  la
 separazione legale introduce una fase di sospensione della convivenza
 - con la permanenza di diritti ed obblighi - e di  riflessione  sulla
 possibilita' di ripristinarla. Ma, soprattutto, perche' qui si tratta
 della ripartizione di un'entita' economica  maturata  nel  corso  del
 rapporto  di  lavoro  e  del  matrimonio,  sicche' il contributo dato
 dall'altro coniuge non puo' non avere rilievo determinante.
    E' evidente che, in via generale, tale contributo non cessa con la
 separazione, legale o di fatto: e cio' specie  nel  caso  in  cui  il
 coniuge  piu' debole sia quello cui sono affidati i figli: anzi, esso
 aumenta con l'accrescersi della  sua  responsabilita'  nell'opera  di
 educazione  e  di  assistenza  e  col  venir  meno  di  quel tanto di
 materiale collaborazione  che,  in  relazione  ad  un  compito  cosi'
 importante   e   spesso  assorbente,  poteva  pervenirgli  dall'altro
 coniuge.
    E'  del  tutto  ragionevole che il legislatore, una volta fatta la
 scelta di attribuire la  quota  dell'indennita'  in  una  percentuale
 predeterminata, abbia tenuto in particolare considerazione situazioni
 di tal genere, che sono notoriamente assai frequenti; cosi'  come  e'
 ragionevole  che  abbia preferito ancorarsi ad un dato giuridicamente
 certo ed irreversibile, quale la durata del matrimonio, piuttosto che
 ad  uno  incerto  e precario come la cessazione della convivenza: non
 solo perche'  questa  e'  di  non  facile  accertamento  in  caso  di
 separazione  di  fatto,  ma  perche'  anche  in quella legale essa e'
 soggetta a fasi di riversibilita'.
    E'  ben  vero che in tal modo puo' darsi parita' di trattamento di
 coppie  con  uguale  durata  di  matrimonio  e  diversa   durata   di
 convivenza.  Ma,  anche  rispetto  a  situazioni  - diverse da quelle
 suaccennate - in cui cio' potrebbe apparire di un qualche rilievo, e'
 decisivo  considerare  che  si tratta essenzialmente di differenze di
 mero fatto, perche' in certa misura  legate  a  determinazioni  degli
 stessi coniugi.
    Se  poi si tratta di convivenza breve (o brevissima) seguita da un
 lungo periodo di separazione, e' da ricordare che  la  giurisprudenza
 esclude  che  l'assegno  divorzile possa consistere in una rendita di
 carattere puramente parassitario (cfr. la  sentenza  dianzi  citata):
 sicche'  e'  verosimile  che in tali situazioni verrebbe a mancare il
 presupposto per l'attribuzione della  percentuale  di  indennita'  in
 discorso.
    Ne'  rileva  che  tale  percentuale  possa  risultare  in concreto
 difforme da quella dell'assegno  divorzile  considerato  in  rapporto
 alla  retribuzione  goduta  dal  coniuge obbligato: sia perche' i due
 istituti sono congegnati sulla base di criteri parzialmente  diversi,
 sia perche' l'assegno e' suscettibile di revisioni successive, mentre
 la quota di indennita'  e'  percepita  una  tantum  in  base  ad  una
 ripartizione che non puo' che essere definitiva.
    In  conclusione,  quindi,  il  proposto  criterio della cessazione
 della convivenza sarebbe, non solo incoerente con l'indirizzo seguito
 dal  legislatore  in tema di misure patrimoniali e con le esigenze di
 certezza da esso perseguite, ma, soprattutto, inidoneo a cogliere  il
 modo in cui prevalentemente si articolano, in concreto, il contributo
 personale e le esigenze di solidarieta'.
    6.  -  Quanto  gia'  detto  vale  anche  a confutare la censura di
 violazione  dell'art.  38,   secondo   comma,   Cost.   Se,   invero,
 l'indennita'  di fine rapporto di lavoro corrisponde ad una quota del
 trattamento economico maturata in costanza di questo, e'  logico  che
 il  coniuge  il  quale, durante il matrimonio, abbia contribuito alla
 formazione di tale trattamento, sia, per questa parte, legittimato  a
 fruirne.  L'indennita'  di  fine  rapporto  invero  assolve anche nei
 confronti di quel coniuge,  per  il  periodo  di  coincidenza  tra  i
 rapporti   di   matrimonio  e  di  lavoro,  alla  funzione  latamente
 previdenziale che le e' propria.